Читать книгу La carità del prossimo - Bersezio Vittorio - Страница 5

III.

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Ma esaminiamo più minutamente il quartiere del nostro pittore cui centosessanta scalini separano dal fango della strada.

Era una specie di gabbia quadrata che sorgeva sul tetto in mezzo alle più umili soffitte, e generosamente concedeva i buchi delle sue muraglie all'esterno alla nidificazione dei passeri. La luce, come vi ho già detto, pioveva per entro da un lucernario che si trovava a mezzo il soffitto; alcuni suoi vetri, mal difesi da una graticella rotta di ferro, erano stati fracassati da una grandinata della state e sostituiti dall'arte provvida del pittore con fogli di carta unta. Le pareti avevano su una tinta di color grigiastro, sopra il fondo della quale facevano da arazzi i ragnateli, e frammezzo ad alcune braccia e gambe di gesso appiccatevi contro si scontorcevano le più bizzarre figure disegnate dal matto pennello o dalla bianca creta di Antonio. Un gran paravento alto più che la statura ordinaria d'un uomo divideva la stanzaccia in due: dall'una parte, appena entrati dall'uscio, trovato lo studio: ve lo definiscono tosto per tale due cavalletti, di cui uno zoppo, senza tele, un alto seggiòlo senza spalliera, che perde la paglia di sotto il piano da sedere, e un trespolino su cui una cassetta di colori dalle boccettine assecchite, una tavolozza più secca ancora che pende dal muro, e un esercito—irregolare—di pennelli di ogni fatta e misura, che giacciono dispersi, come dopo una sconfitta, da tutte le parti.

Una piccola stufa in ferraccio sta lì, quasi a metà dello spazio, colla bocca aperta ad aspettare inutilmente un po' di pasto di legna o di carbone. Sopra ci si vedono in disordine l'uno addosso all'altra una tazza vuota senza maniglia, una crosta di pan secco, una pipa, una borsa da tabacco floscia ed un romanzo illustrato di Paolo di Kock colla copertina tutta strappata e i fogli laceri. La misera stufa innalza bensì un tubo di ferro che traversa per lo lungo la stanza, disposta a mandar calorico per esso; ma la deve rimanersene alla buona intenzione, e il tubo medesimo è tanto freddo da gelar la mano imprudente che si avventuri a toccarlo. Voi capite da ciò che colà dentro regna senza temperamento una atmosfera da Siberia.

Nella parte seconda della stanza, separata dal paravento, voi ci vedreste: in mezzo, un desco a cassetto; da un lato, alla muraglia, un letto pei genitori, dall'altro, uno stramazzo pei tre bambini più grandicelli; appiè del letto, la culla dell'ultimo nato. Nell'angolo destro c'è un fornelletto a due buchi, in quel sinistro un acquario; lì vicino una secchia colla tazza di latta sopravi; poi una cassapanca che fa da canterano, una scancia su cui qualche stoviglia, tre bicchieri, una bottiglia nera, una caraffa bianca incrinata e un acetabolo senz'ampollini; appesi al muro un ramino, un mestolone ed una padella. Cinque seggiole fanno meraviglie d'equilibrio per tenersi ritte sulle loro gambe scassinate.

Un solo oggetto di qualche valore si nota fra tanta miseria; ed è un quadro con una cornice dorata, che rappresenta dipinta con colori a olio una giovine donna.

Era una bella figura che aveva nell'espressione del viso alcun che di soave e di mesto per cui era impossibile il guardarla senza simpatia e quasi direi senza commozione. Vanardi teneva quel ritratto, perocchè fosse un ritratto, come cosa preziosissima. Di ogni altro oggetto, anche del più necessario, si sarebbe prima spogliato che non di quest'esso. Era il ritratto della donna che il suo amico Adolfo Cioni, che vi ho già nominato poc'anzi, aveva amato, e per cui era morto. Adolfo medesimo l'aveva dipinto, copiando l'immagine che di Gina (così aveva nome la donna) eragli così profondamente impressa nell'animo. Quando l'infelice era stato ucciso in quel duello fatale dal marito di lei, il padre di Adolfo aveva consentito che Antonio prendesse nello studio del morto amico, tutti quegli oggetti che preferisse a memoria di lui. Vanardi, fra le altre cose, aveva preso questo ritratto. Tutto il resto era sparito poco a poco sotto la crescente stretta del bisogno; ma il ritratto di Gina era ancora lì, e Antonio aveva giurato di conservarlo ad ogni patto sino alla morte.

Di belle volte per questa cagione erano già avvenute delle dispute fra Vanardi e sua moglie. Costei non sapeva il perchè suo marito ci volesse tener tanto al possesso di quell'inutile ornamento, e come mai, avendo vendute tante cose assai più necessarie, non volesse manco udire a discorrere di sbarazzarsi di quel dipinto. Inutilmente Antonio le aveva contato tutta la storia; la Rosina tentennava il capo, ne sentiva o fingeva sentirne sempre i sospetti più ingiuriosi intorno alla fede del marito, e di quando in quando ne pigliava pretesto, come se altri e troppi pretesti non ci fossero già, per una buona sfuriata.

In questo momento in cui v'introduco nel misero alloggio di questa famigliuola, intorno alla quale vedremo svolgersi le scene del dramma che ho intrapreso di raccontarvi, tutti i componenti della medesima sono raccolti nel secondo scompartimento dell'unica stanzaccia.

Antonio passeggia in lungo ed in largo, le mani in tasca, la chioma rabbuffata, le orecchie livide pel freddo, la barba ispida, una pipa spenta in bocca, battendo i piedi di quando in quando, tutto, a vederlo, rattrappito dall'intirizzimento. Rosina siede vicino al deschetto e rappezza, con mani che hanno il colore delle orecchie di suo marito, dei logori panni pei bambini; innanzi a lei v'è la culla e in essa il piccino: ella col piede lo fa dondolare perchè dorma e gli va canticchiando una tediosa cantilena che interrompe tratto tratto per discorrere coll'uomo; i tre altri bambini ruzzano qua e là per la casa e fanno un diavoleto da toglier la testa.

Come già ho accennato, la Rosina non può dirsi bella; ma possiede un'aria tra la capricciosa e l'allegra che può piacere. Ha il capo avvolto in un fazzoletto logoro di panno-cotone; le spalle e il seno ha serrati da uno scialle di lana a brandelli, e tratto tratto deve interrompersi nel suo cucire per soffiarsi sulle dita delle mani pavonazze, non bastantemente difese dal freddo per certi mezzi guanti di grossa lana in maglia.

—Sicuro! diceva essa tutto ingrognata; il signor Marone ha detto che passerebbe quest'oggi senza fallo… e non ci manca di certo… e vuol essere pagato, quell'impostore birbone… e tu sai che uomo egli è!… E tu stai lì colle mani in tasca come un melenso che tu sei; e noi ci toccherà andar nella strada con questo bel caldo… e me mi converrà trascinarmi dietro e portarmi in collo i bambini ed andare accattonando, che Dio ti… Uh! me la faresti dire.

Antonio chinava il capo e camminava più lesto.

Il bambino, cui la mamma avea cessato di cullare e che non sentiva più la cantilena della ninna nanna, si cacciava a strillare: i due più grandicelli, rincorrendosi l'un l'altro, rovesciavano una seggiola e finivano di romperle una gamba.

—Eh! vuoi tacere! esclamava impazientita Rosina, ripigliando a dondolare rabbiosamente la culla, e tirando l'ago più rabbiosamente ancora: che sbraitatore è questo biricchino! E' mi vuol far diventar tisica… La li la lerà, la li la lerà… Volete finirla anche voi altri, sbarrazzini, che ora mi alzo e vi tocco il tempo io di santa ragione!… Dio buono! Ecco che mi hanno fracassato la sedia… Volete star fermi una santa volta!… Non avrete da colazione; ecco lì… La li la lerà, la li la lerà, la li là là.

I ragazzi, all'intemerata materna, si guardavano per di sotto tra di loro, timorosi, e quietavano un poco; il bambino cullato, sentendo ripresa la cantilena, cessava dal piangere; succedeva un istante di tranquillità.

—Ma come fare? come fare? dimandava Antonio parlando a sè stesso.

—Come fare? ripigliava stizzosa la Rosina. Sta a vedere che ha da essere la donna a trar d'impiccio un omaccione di quel calibro… Ma gli è da lungo tempo che ci avresti dovuto pensare e provvedere… e non aspettare che si fosse proprio allo stremo come siam'ora… Via, sta buono, Carlinuccio… oh, oh, oh, il bel cuorino… fa la nanna, via ghiottoncello… sì, carino, sì bellino… che il diavolo lo porti; questo maledetto è il fistolo, tant'è fastidioso!

E tornava a cantare per acchetarlo.

—Papà, ho fame! gridava il primo dei fanciulli.

—Sta zitto. La mamma ti ha messo in penitenza… Non avrai da colazione.

—Ih! ih! ih! Io ho fame, io…

—Ed anch'io, ed anch'io; gridavano gli altri due marmocchi.

—Volete finirla? sclamava la madre.

—Ih! ih! ih!…

E i tre ragazzi piangevano di conserva e della più bella.

—Giuggiole! che delizia! gridò Antonio levando le mani di tasca per cacciarseli entro i capelli: e corse al desco, ne tirò fuori a mezzo il cassetto, vi prese dentro un tòcco di pane inferrigno che c'era, lo divise in tre pezzi e ne porse uno a ciascuno de' ragazzi.

I quali, con un'unanimità maravigliosa d'avviso, cessarono di botto dal piangere per mordere dentro il pane a piena bocca.

Ma non tacque la Rosina.

—Che storia è questa? saltò su essa cessando dal cucire per mettersi le mani sui fianchi, incollerita. Che cosa sono io? un ceppo forse? o un coccio? o una pantofola? Ho detto che quei furfanti sarebbero stati senza colazione; ed è a quel modo che tu insegni a' figliuoli a rispettare la mamma? Che sì, ch'io non so chi mi tenga dall'andar a levar loro quel tozzo di mano e trartelo sul naso a te che più che vizi non sai dare a que' martuffini, degni figli tuoi… E veramente che sei tu a guadagnar loro il pane! Quell'avanzo lì, sai che cos'è? È l'ultimo resto de' miei pendentini d'oro che si sono portati al Monte… Ma tu hai in dispregio la moglie…

—Ma no, ma no, protestò Antonio.

—Ma sì, ma sì; insistette la Rosina; e vuoi che anche i tuoi bambocci abbiano in un calzetto la mamma…

—Via, via Rosina: disse Antonio umilmente, stai buona; vuoi che lasciassi romperci i timpani da que' strilli?…

—Uhè! uhè! uhè! cominciò il bimbo nella cuna, il quale non era più dondolato.

—Oh che vita! oh che vita! esclamò la Rosina rimettendosi ad agitare la culla.

—Oh che vita! oh che vita! ripetè Antonio riprendendo la sua passeggiata traverso la stanza.

Così stettero un poco senza parlare nè l'un nè l'altro.

Antonio fu il primo a riappiccare il discorso.

—Se provassi ancora una volta a ricorrere a mio zio? diss'egli piantandosi innanzi alla moglie.

Questa crollò le spalle e non levò neppure il capo dal suo lavoro.

—Eh? che ne dici? insistette il marito.

—Tuo zio è un cane: rispose brusca brusca la Rosina: e tu…. tu sei un altro animale.

—Un asino: suggerì Antonio: dillo pure.

—L'hai detto tu!

—Grazie tante!

Ed Antonio si rimise ad andare e venire.

—Vuoi star fermo una volta? gridò dopo un poco la moglie. Tu sembri l'arcolaio della strega che va e che va…. e m'hai già fatto tanto di testa.

—Oh! la mia arte! la mia arte! esclamò il marito arrestandosi di botto. Che cosa fa l'arte mia che dovrebb'esser quella a darmi la salvezza?

—Bell'arte la tua! se ne vedono gli effetti.

—Oh! un'idea! gridò Antonio percotendosi la fronte.

—Che?

—Forse ho trovato il modo di farmi conoscere, di ammansare mio padrino, di trovar lavoro e di farmi aprir le braccia dallo zio.

—Sentiamolo un tratto questo modo meraviglioso: disse la moglie, e riprese a cantarellare la sua nenia fra i denti.

—Ecco! Mi metto senza indugio a dipingere per mio zio, cioè pel suo fondaco, una insegna, una bella insegna, una grande insegna, una strepitosa insegna…. Oh! la vedo già dinanzi a me come se fosse fatta: un metro di altezza su quattro di lunghezza: in essa una dozzina d'amorini, più, due dozzine, anche più, tre, quattro se occorre…. d'amorini nudi e belli come il sole. L'uno porterà una scattola di pepe, l'altro un pane di zuccaro, il terzo cioccolato, il quarto caffè, un quinto un mazzo di candele, un sesto una matassa di cotone e via dicendo…. Sarà un'opera bella, stupenda, sublime, grandiosa. Glie la mando al fin del mese come omaggio di capo d'anno. Ei la fa appiccare sopra la porta del suo fondaco. Tutto il quartiere ne va in rivoluzione: un'ammirazione universale. Ogni giorno si fa un'assembramento in istrada di entusiastici spettatori col muso in aria; e la bottega non si vuota più di gente che vuol procacciarsi l'onore di comperare all'insegna degli amorini. Chi è l'autore di quel capo lavoro? domandano tutti. Antonio Vanardi: risponde la fama. Le commissioni fioccano nel mio studio, e dietro queste i denari e la gloria. Intanto mio padrino, commosso, lusingato, avvantaggiato da questo mio successo, mi spalanca le sue braccia e la sua cassa, e….

—E tu sei un matto da legare: interruppe con impeto Rosina.

—Perchè matto? Perchè vuoi gettare un secchio d'acqua sulla fiamma suscitata dal mio entusiasmo d'ispirazione?

—L'entusiasmo non ti darà i denari che bisogneranno per comprare solamente i colori che ti occorrerebbero….

—Ah! questo è vero: disse Antonio raumiliato, grattandosi il capo.

—E d'altronde, continuava Rosina, ancorchè tu riuscissi a fare questa insegna, tuo zio la caccerebbe sul fuoco e farebbe assai bene; e non ti darebbe mai un soldo, nè più nè meno di quello che ha fatto fin adesso…. Ah! se tu volessi, lo saprei ben io un mezzo possibile di salvarci pel momento… Ma tu sei così strano, così incaponito in certi punti…

—Incaponito? Niente affatto… Suggeriscimi soltanto un mezzo conveniente, e vedrai. Se tu dunque hai un rimedio, fuori Rosina, e quando la sia cosa che io possa fare onestamente, mi ci metterò con testa e braccia e gambe, e tutto quanto.

—Se tuo zio è un uomo senza briciolo di pietà, e ci son bene ancora nel mondo certe sante persone che hanno carità pel povero prossimo…

—Buono! interruppe Antonio, crollando egli a sua volta le spalle. La carità del prossimo a questi lumi di luna!—Eh sì, valla a cercare.

—Lasciami dire in tua buon'ora, benedett'uomo che tu sei!… C'è una degna signora… o che? una marchesa in sul sodo… To', la dimora giusto qui vicino, nel palazzo qui accosto alla casa del signor Marone, il primo a man destra andando fuori.

—Eh, so bene chi vuoi dire…

—Sì, neh?… Mi dissero che il suo appartamento, lì al primo piano nobile, è tutt'oro dal pavimento al soffitto… Ebbene quell'eccellente signorona… la è vecchia ed impotente e non può più andare attorno che in un carruccio che si fa spingere da un bell'uomo più alto di te di tutta la testa, con una gran bella barba nera, e quando esce, con un gran bell'abito di color verde ricamato in oro e una bella sciabolona al fianco e un bel cappello montato a piume che pare un generale e che chiamano il cacciatore—l'uomo non il cappello…

—Oh! un bel coso…

—Bello sicuro… E quando la marchesa e' l'ha messa di peso nella carrozza, come io faccio di Carlinuccio per metterlo nella culla, e' sale di dietro su quel trespolino, e vi sta ritto, impettito, che vi fa la più bella vista del mondo. E che le male lingue gliene appiccan di sonagli, e di costei e di colei, e della moglie dell'oste, e della figlia del salumaio, e…

—Va bene, va bene: interruppe Vanardi; ma che ci avrei da fare io colla signora marchesa e col suo cacciatore?

—Sta a sentire. Ella fa carità a tutta la gente che a lei ricorre, e non v'è poveretto che entri colà dentro, il quale non esca con una bella manciata di denari… Se tu vestissi il tuo soprabito color marrone… il solo che te ne resta… e te le presentassi…

Antonio fece una smorfia.

—E che ti frulla adesso? Vorresti ch'io n'andassi a domandar l'elemosina? Piuttosto, piuttosto…

—Uh! uh! Ecco lì il superbioso!… Piuttosto lasciar schiattar moglie e figliuoli di fame neh?.. Di' che non vuoi far proprio nulla e che ti aspetti da neghittoso che ti piova la manna sulla bocca…

—Fa il piacere Rosina; non suonarmi di questo strumento, non sono fatto per codeste umiliazioni io. M'acconcerei prima a pormi sulla cantonata con una gerla sulle spalle; to', vedi quel che ti dico.

—Ed io ti ripeto che sei un basoso con delle scioccherie e dei fumi, null'altro… Oppure, se te ne paresse meglio, in faccia a noi, al secondo piano, dove vi sono quelle finestre sempre colle tendine sì accuratamente tirate ai cristalli, ci sta quell'uomo… quel grand'uomo… sai bene!… quel brutto, grosso, col capo insaccato nelle spalle, colla pelle del color del prosciutto… Ah! per brutto egli lo è daddovero… che lo chiamano fil… fal… fila… filo… com'è che si dice?… filanpetro…

—Filantropo.

—Giusto. Il quale vuole non ci sia più della povera gente, e che se badassero a lui tutti mangerebbero beccafichi, e che scrive giù un giornale, ma di quelli! su cui dice chiaro e tondo il con e il ron delle cose, come sono i signori che affamano i poveri diavoli, e che si dovrebbe…

—Rosina! Dove diavolo sei andata a pescare tutte queste fandonie?

—Gli è messer Agapito che mi ha detto…

—Ah! gli è quel caro signor Agapito! Ma e' ci viene dunque sempre in casa mia?

—Per sua bontà, tutti i giorni: egli era qui poc'anzi, prima che tu tornassi. Ed è stato lui a consigliarmi di ricorrere dalla signora marchesa o da quel signore… come si chiama? Lo speziale aggiunse che quest'ultimo fa benissimo il suo interesse parlando e scrivendo sempre di quel d'altrui: ma tu sai che quel caro uomo è un po' maldicente…

—Un po'!… Cospetto! È la mormorazione fatta uomo… Ma quel caro messer dovrebbe piuttosto pensare a pagarmi l'opera mia. Non ti ha mai detto nulla a questo proposito?

—Sì… Me ne parlava ancora questa mattina.

—Ah! E che diceva egli?

—Che avendogli tu dipinto quel suo ipocrita…

—Ippocrate.

—Sì: Iporcate e Baleno, egli ci avrebbe sempre gratuitamente resi i suoi servizi…

—I suoi servizi!… Eh! me ne infischio io de' suoi servizi… Poichè la va così, corro giù tosto e mi spiego aperto con esso lui…

In questa un discreto picchiare all'uscio li fece stare entrambi.

—O mio Dio, ch'egli è il padrone di casa: disse Rosina allibita.

—Diavolo! diavolo! sclamò Antonio grattandosi con furore il capo.

E dal di fuori si tornava a picchiare, ed una voce dolcereccia cacciava dentro pel buco della toppa queste parole:

—Aprite: son io.

—Gli è proprio lui. Mi vien voglia di rispondergli che in casa non c'è nessuno.

La carità del prossimo

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