Читать книгу La carità del prossimo - Bersezio Vittorio - Страница 4

II.

Оглавление

Indice

Suo padre era Regio Liquidatore, e il fratello di suo padre teneva fondaco di droghe e robe vive, come dice la lingua bara delle insegne. Papà Vanardi avvezzo a liquidare gli averi e i debiti altrui, liquidò anche le sostanze proprie; e un bel giorno si trovò al verde, poco meglio di quella condizione in cui si trovava il figliuolo nel momento in cui comincia questo racconto. Suo fratello il droghiere, per contro, aveva visto prosperare benissimo il suo commercio, ed era riuscito a mettere in disparte un capitale da fare invidia ad un banchiere e ad un impresario Egli voleva bene a suo fratello, era il padrino del piccolo Antonio, e il pepe e la cannella non gli avevano guastato il cuore, Raccolse in casa sua fratello, cognata e nipote, e disse gravemente pizzicando la gota rubiconda di quest'ultimo:

—Alla sorte di questo birboncello ci penserò io. Ne faremo qualche cosa di grosso, lasciate stare… Antoniuccio, che cosa vuoi tu diventare?

Il ragazzo che vedeva quasi tutti i giorni sfilare sotto le finestre dell'appartamento paterno i reggimenti della guarnigione che andavano in piazza d'armi e che restava ammirato alla vista di quel bell'uomo grande e grosso che camminava primo di tutti con una famosa mazza in mano, e nelle occasioni solenni un gran pennacchio dritto in sul capo, il ragazzo rispose franco, levandosi in punta di piedi ed ingrossando la voce:

—Io voglio diventare tamburro maggiore.

Ma l'ambizione dello zio padrino non fu soddisfatta da queste aspirazioni d'Antoniuccio alla grandezza. Meglio che il bastone a grosso pome d'argento gliene parve il codice a legatura di pelle: meglio che la montura e la sciabola, la toga nera ed il bavero, e disse al nipote in tono di sentenza irrevocabile:

—Tu non sarai tamburo, ma avvocato.

Antonio vi si rassegnò.

All'Università s'incontrò e strinse amicizia con una frotta di capi ameni che di studiare la legale avevano tanta voglia come di intisichire, dei quali per ora non occorre nominarvi che quel Giovanni Selva, di cui già avete sentito fare un cenno lo speziale Agapito, e del quale vi avrò da parlare più a dilungo fra poco.

Di questi suoi amici l'uno voleva essere un nuovo Rossini, l'altro un Ariosto, il terzo un Alfieri: Vanardi—o fosse perchè il posto di artista non era ancora occupato, o i quadrilateri dipinti a più colori, che la sfoggiavano sopra l'uscio del fondaco dello zio esercitassero un influsso sull'incertezza della sua mente—Vanardi si cacciò in capo di voler essere Rafaello. Si mise a scarabocchiare di faccie impossibili e di figure mostruose tutte le copertine de' suoi trattati, tutte le pagine de' suoi cartolari, tutti i frontispizi de' suoi libri. Mentre i diligenti fra i suoi compagni scrivevano le spiegazioni della scienza legale che cascavano dalla bocca sapiente del professore, egli schizzava a tratti di penna la caricatura della parrucca, del naso, del berretto dottorale, della faccia ingrugnata dell'insegnante; mentre avrebbe dovuto studiare il Fabro e svolgere il Digesto, egli studiava il nudo e stringeva più o meno dimestica conoscenza colle modelle. Un orrore di condotta da mettere sulle furie anche il più zuccherato di tutti gli zii dell'uno e dell'altro emisfero.

In questa guisa il nostro Antonio avanzò sì bene che giunse a sbozzare in men che non si dice una parodia di figura e non potè andar oltre al terzo anno del corso di leggi. Rimandato tante volte di seguito, quante bastava per non poter più presentarsi agli esami, dovette di necessità raccogliere tutto il suo coraggio per dichiarare allo zio padrino che d'avere un nipote avvocato non se ne faceva più niente. Figuratevi la collera del buon droghiere, il quale a quel tempo era rimasto unico dei parenti d'Antonio e riuniva in sè tutte le autorità della famiglia!

Dopo averlo strapazzato una buona ora, chiese finalmente al nipote:

—Ebbene, disgraziato, e che vuoi tu fare al presente?

Antonio che aveva ricevuta l'intemerata colla testa bassa e colle sembianze raumiliate d'un peccatore ravveduto, alzò la faccia, esitò un pochino poi disse colla maggior fermezza che lasciava alla sua voce il cuore che gli batteva forte forte:

—Voglio farmi pittore.

Lo zio fece un trasalto che avreste detto di spavento, quale avrebbe potuto avere se si fosse trovato inopinatamente innanzi ad un matto.

—Pittore! che è ciò? Che vuol dir questa bizzaria? Pittore!

Sciagurataccio! mi faresti dire qualche sproposito.

Ma il nipote, il quale, impegnata una volta la lotta, aveva sentito accrescersi un poco il coraggio, riprese più franco:

—Sì, signor zio. Sono ammesso alla scuola dell'Accademia. I professori sono contenti dei miei progressi. (E' si vantava, lo scellerato!) Diventerò un artista di vaglia, illustrerò il nostro nome e…

—Un corno! esclamò lo zio furibondo… Poichè tu non sei capace di spacciar eloquenza alla ringhiera del foro, spaccerai pepe e cannella al minuto al banco della mia bottega. Sarai droghiere come tuo zio.

Antonio volle opporsi a questa fatale sentenza, ma il vecchio fu irremovibile. La lotta durò per un poco. Il padrino era ostinato, ma il figlioccio nella sua timidità era testardo. Un bel dì, quest'ultimo scappò di casa coi suoi colori, coi suoi pennelli, co' suoi rotoli di tela, colle sue cartelle, colla sua tavolozza, colla sua cassetta, colla sua povertà e col suo buon umore, e piantò le tende in una soffitta dove non gli mancavano la luce, la vista del cielo e quella di tutti i comignoli dei camini delle case.

Lo zio gli assegnò quindici giorni di tempo per tornare all'ovile. Passato quest'intervallo, gli mandò un involto con dentrovi alcuni biglietti di banco ed una lettera per la quale lo ammoniva che l'aveva cancellato affatto dal suo cuore, che qualunque vicenda gli capitasse non voleva più saperne di niente, che per lui era d'ora in avanti come se non avesse avuto mai nè figlioccio nè nipote.

Antonio rimase afflitto della lettera, perchè in realtà allo zio voleva bene; fu consolato dai fogli di valore, perocchè gli venivano più che opportuni; e non disperò di ottenere un dì o l'altro il perdono del padrino, massime quando sarebbe stato celebre e ricco per opera del suo pennello, cosa che secondo lui non solo non poteva mancare, ma non doveva nemmeno tardare di molto.

Si presentò due o tre volte al fondaco dello zio per rappaciarsi con esso; ma l'inesorabile vecchio, seduto sempre al suo scrittoio, dietro un paravento a vetri, sporgeva in fuori la testa coperta dell'eterno berretto di seta nera, guardava chi fosse entrato; vedendo il nipote, gettava due sbruffi di tosse, s'alzava da sedere, e senza far motto, additava con tacita eloquenza di gesto la porta per cui si doveva uscire; sopra la quale pompeggiavano al di fuori nella strada sette quadrilateri, i cui rispettivi colori erano rosso, turchino, giallo, verde, arancio, violetto e terra d'Italia.

Antonio chinava rassegnatamente il capo ed usciva; finchè si stancò della monotona ripetizione di questa scena muta, e non ci venne più.

Però, di quando in quando, nelle occasioni solenni dell'anno, al Natale, alle tremende epoche in cui si ha da pagar la pigione, venivano al pittore certi soccorsi anonimi, ch'egli sapeva indovinar molto bene da che mano partissero. E questi soccorsi conferivano a giungere in capo dell'anno senza troppi stenti; soddisfatto com'egli era del poco, e sì poco veramente bastando a lui, solo, nella modestissima esistenza che menava via allegramente, senza un fastidio al mondo.

Ma i fastidii soprarrivarono pur troppo, poco tempo dopo che ebbe la cattiva ispirazione di prender moglie. Quest'essa era una povera figliuola del popolo, abilissima cucitrice, ma con poca istruzione, pochissima educazione e senza denari. Non aveva che la sua gioventù, una piacevolezza di tratti che non poteva dirsi beltà, e il suo buon cuore. Antonio la vide nell'occasione dolorosissima, ch'ella perdette l'unico parente che ancora le rimanesse. Stavano vicini d'alloggio, e il povero pittore si mise a consolare la povera orfanella. In breve dovettero sposarsi. Antonio si guardò bene dal darne avviso allo zio; ma pur tuttavia questi lo seppe la stessa cosa, ed andò nuovamente sulle furie e peggio che mai. Da quel giorno le anonime sovvenzioni cessarono; ma in compenso cominciarono a venire i figliuoli.

Il lavoro, per maledetta sorte, non imitava il bell'esempio della prole; non veniva nè punto nè poco. Un quadro su cui Antonio aveva fondato le sue più belle speranze fu giudicato unanimemente alla pubblica mostra, dove l'aveva esposto, una porcheria insuperabile. Il bisogno aveva incominciato ad insinuarsi pian piano nella casa; la miseria faceva capolino dalla finestra e digrignava minacciosamente i denti alla porta.

Aveva vissuto un po' di tempo in compagnia di quei suoi amici dell'Università, fra cui principale il Selva, che erano venuti ad alloggiare con esso lui; s'erano immischiati nella politica, ed avevano congiurato prima del quarantotto per l'unità e l'indipendenza d'Italia. Ma la rivoluzione appunto di quell'anno meraviglioso aveva disciolta e dispersa la piccola colonia. Quasi tutti quegli amici erano andati soldati; ed Antonio, trattenuto dalla sua famiglia, era rimasto solo. Di poi l'aveva aiutato assai l'amicizia d'una buona e generosa famiglia, i Cioni, di cui l'unico figlio, Adolfo, dilettante di pittura, aveva saputo trovare mille ingegnose maniere di soccorrerlo col pretesto di dargli del lavoro. Ma una sciagurata catastrofe era avvenuta in quella famiglia. Adolfo amava in segreto, e riamato, la moglie d'un vecchio e fiero capitano, il quale, scoperta la verità, aveva in un orribil duello ucciso il giovane, e la donna seco via condottasi che mai più nessuno ne aveva saputo novella. Il padre di Adolfo non molto era sopravvissuto all'unico figlio, tanto era stato il suo dolore. Antonio aveva perso il suo maggior sostegno.

Egli aveva visto chiaro le sue condizioni, ma non si era perso dell'animo ed aveva bravamente lottato. Aveva consumato colla più meravigliosa parsimonia tutto quel poco di risparmio che fino allora era riuscito a mettere in disparte con un vero miracolo di economia: poi una gran parte dei suoi mobili, cominciando dai meno necessari e venendo poi agli abiti, avevano preso il cammino del Monte di Pietà, e neppure uno aveva ancora saputo trovare quello del ritorno a casa.

Il povero Antonio, smesso ogni orgoglio, andò a dimandar lavoro a questo ed a quello. Le ripulse non lo stancavano, ebbe il coraggio di affrontare i più superbi rifiuti, e dalla sua perseveranza ottenne qualche buon risultato. Dipinse un orrido turco dall'orrida barba con una lunga pipa in bocca pel tabaccaio; una slombata fortuna (e la fece brutta per dispetto) che gettava pioggia di denari da un corno d'abbondanza, pel banco del lotto; e persino (che umiliazione!) una bottiglia che schizzava il turacciolo per aria ed il vino nei due bicchieri che gli stavano a fianco, per l'oste a cui doveva sei lire. Il tabaccaio gli diede poco, il banco del Lotto anche meno, ed il mercante di vino un bel nulla.

Come se non bastasse tutto questo, mentre la miseria cresceva, l'umore taccoliero della moglie cresceva ancor esso in proporzione. Non è già che la Rosina non volesse bene al suo Antonio, oh! per codesto ella si meritava ogni elogio, chè glie ne voleva anche troppo; da prendersi tanta cura d'ogni fatto di lui che gli riusciva fastidievole.

Guai s'egli non tornasse a casa appuntino all'ora che aveva detto!

—E dove sei tu stato? e che hai fatto? e come perdi il tuo tempo? e che pensiero ti dai della tua famiglia? E tu a spasso, ed io a rodermi qui dentro d'inquietudine con questi marmocchi intorno che mi tolgono la testa ecc., ecc.

E tocca via con un mondo di parole cosiffatte e di ragioni sragionate e di rimbrotti senza causa e di lamentazioni e di chiaccole da non finirla più.

Ad Antonio, benchè ci avesse ormai fatto il callo, quelle scene erano gravi. Aveva tentato di tutto per farla smettere alla moglie; ma sì, imporre silenzio ad una di cotali donne, era impresa da ben altri che il povero pittore non fosse. Quindi per lo migliore, ei s'atteneva il più sovente al silenzio, e lasciava passare senza ostacoli l'onda abbondevole e furiosa delle muliebri parole.

Rosina s'accorgeva d'essere grave al marito, e ne soffriva, e se ne adontava e ne imbizzarriva peggio con esso lui.

—Già tu ti vergogni di me: diceva essa delle volte, mezzo piangente, mezzo furibonda: non sono che una popolana io…. oh! lo so…. e tu sei della razza de' signori tu… Bel signorone affè mia, che lasci crepar di fame e moglie e figliuoli!… Non ho le belle maniere delle dame io!… Ma toccherà a me un bel giorno guadagnare il pane della famiglia con queste dieci dita che m'ha fatto la mamma…. O belle le cerimonie!… O care le stampite della buona società…. o grazioso il saper discorrerla in quinci e quindi!… Ed io non ne so nulla del vostro bel gergo…. Io quando parlo, tu mi fai gli occhioni che pare mi vogli mangiare cruda e fatta…. E se ti duole di me, e se te ne pesa, e tu non dovevi sposarmi…. O che son io che vi ti ho costretto col coltello alla gola forse?… T'adonti perfino di accompagnarmi per istrada… Oh! nei primi tempi del nostro matrimonio non era così che facevi…. E me lo dice persino messer Agapito, che non è di questa guisa che uno si governa colla moglie se le vuol bene.

—Messer Agapito s'immischi nelle sue spezierie e non venga a romperci le tasche: gridava a questo punto Vanardi spazientito.

—Gli è che ha ragione: ripigliava la moglie con maggior calore: tu non mi vuoi più bene… Sei un cattivo, sì… perchè dovevi lasciarmi stare… Ed io col mio ago mi guadagnerei da vivere un po' meglio…

Antonio voleva placarla. Essa lo respingeva bruscamente; afforzava i suoi rimbrotti; terminava con piangere, e si ritraeva musonando e singhiozzando in un angolo della stanza. I fanciulli vedevano piangere la madre e si cacciavano a strillare ancor essi. Vanardi faceva a calmar l'una e ad azzittire gli altri; ragionava, pregava, gridava, minacciava: niente vi riusciva, finiva per andare in collera, bestemmiava come un turco, e stucco, intronato, infastidito, si cacciava il suo cappellaccio in testa e si precipitava fuori di casa, a passeggiare, le mani in tasca, guardando da vero sfaccendato i dipinti esposti nelle vetrine di tutti i mercanti di stampe, ai quali terminava sempre per andare ad offrire un quadro di suo, cui tutti, a buona ragione, si affrettavano sempre a rifiutare con entusiasmo.

—Oh che vita! oh che vita! esclamava talvolta il povero diavolo. E pensare che la debbo all'amore dell'arte, e ad un matrimonio per amore! C'è da disgustare chicchessia dell'una cosa e dell'altra. Mah! se avessi fatto il droghiere!… Eh! via, questa è viltà! Che? Rinunzierei al nobile sacerdozio dell'artista? Mi lascierei scoraggiare dall'impertinenza della sorte? Oibò! Tutti i grandi uomini sono crepati un pochino di fame: ed Andrea del Sarto aveva una moglie peggiore della mia… Sono un pusillanime s'io indietreggio innanzi a quest'iniziazione alla gloria.

E ripigliava la sua tranquillità e il suo buon umore, che erano figliuoli dell'eccellenza del suo carattere.

La carità del prossimo

Подняться наверх