Читать книгу Il Sorriso Perfetto - Блейк Пирс - Страница 10

CAPITOLO QUATTRO

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Jessie non era impressionata.

L’agente dell’FBI prestato al dipartimento per il caso di accoltellamento assomigliava a un vecchio giocatore di baseball chiamato a giocare perché tutti i migliori erano infortunati. Mentre gli andava incontro per presentarsi, Jessie notò che l’uomo, che sembrava essere – anno più anno meno – sulla quarantina, aveva una pancia piuttosto prominente per essere un agente dell’FBI.

Oltre a questo, i capelli erano lunghi e spettinati, e quasi del tutto grigi. Il volto segnato e l’odore di mare suggerivano che passasse più tempo a fare surf che a lavorare su un caso. Il soprabito che indossava aveva il colletto liso e il nodo della cravatta appariva allentato. E anche se era soltanto mattina, aveva già accumulato un’impressionante gamma di macchie di cibo sui pantaloni stropicciati.

“Jack Dolan,” disse, porgendole la mano mentre si avvicinava, ma senza aggiungere alcuna altra forma di saluto.

“Jessie Hunt,” disse lei, cercando di non sussultare per la sua stretta salda e forte.

“Ah sì, la famosa profiler forense, barra figlia di un serial killer, barra donna che sussurra agli psicopatici, che si nasconde dagli uomini che colpiscono di notte.”

“È quello che c’è scritto sul mio biglietto da visita,” rispose Jessie con tono acido, non proprio allietata dai presupposti che quel tizio stava elencando così su due piedi.

“Agente Dolan,” si intromise Decker, interrompendo il gelido scambio, “dato che il caso di accoltellamento di Studio City ha diverse potenziali caratteristiche tipiche sia di Xander Thurman che di Bolton Crutchfield, abbiamo deciso che la signorina Hunt debba unirsi a lei per valutare se ci sia la probabilità che uno di loro possa essere il responsabile.”

Dolan guardò Decker, poi Jessie e infine Murph.

“Quindi,” chiese, apparentemente confuso. “Ora sono io a farle da baby sitter? O facciamo a gara per chi arriva per primo?”

Jessie aprì la bocca, incerta su cosa poter dire senza dover ricorrere a delle parolacce. Ma prima che potesse anche solo dire una parola, Decker rispose.

“La consideri la sua collega per la durata del caso. Scommetto che lei coprirebbe le spalle di un collega, giusto, agente Dolan? Questo non è un caso diverso.”

Dolan trattenne la lingua. Con la coda dell’occhio, Jessie vide Murph che sopprimeva un sorriso. Si rivolse allora a Decker.

“Posso parlarle privatamente un secondo?” gli chiese.

Lui annuì ed entrambi fecero per uscire in corridoio.

“Aspettate,” disse Murph. “Usciamo io e l’agente. Voi due parlate qui: meno persone vi vedono e meglio è.”

Dopo che furono usciti, Jessie si voltò verso Decker con occhi di fuoco.

“È una specie di punizione? È per questo che mi sta mettendo a lavorare con questo tipo? Non potrebbe semplicemente sollevare Hernandez dal caso che sta seguendo e mettermi in squadra con lui?”

“Il detective Hernandez non è disponibile,” rispose lui con tono indifferente ma deciso. “Non andiamo a tirare fuori dei detective da un caso di triplice omicidio per accontentare i capricci di altri agenti. Non si aspetti di sentirlo a breve. Se accade, significa che non sta facendo il suo lavoro. Inoltre Dolan è più qualificato per questo caso. Ed è lui che è stato messo a disposizione dal Bureau. Quindi trovi un modo per lavorarci insieme. Altrimenti se ne può tornare alla sua casa di sicurezza. Sta a lei decidere, Hunt.”

*

Il tragitto in auto fino a Studio City fu particolarmente spiacevole.

Dolan chiaramente non era felice di dover viaggiare nel sedile posteriore di una berlina guidata da un agente federale. Murph e Toomey allo stesso modo non erano entusiasti di dover fare da autisti a due scontrosi investigatori. E Jessie era più o meno scocciata per tutto.

Nonostante quello che Dereck le aveva detto, si sentiva come se ci fossero tre baby sitter con lei nell’auto, e altri due nel veicolo che li seguiva. A quanto pareva il suo collega considerava il suo coinvolgimento nel caso solo una concessione simbolica. E gli agenti federali erano chiaramente risentiti per aver assunto quel ruolo di valletti accompagnatori. Quando arrivarono sulla scena del crimine, erano tutti tesi.

Toomey trovò facilmente la casa. Era la bella casetta a un piano in stile spagnolo con mezza dozzina di auto della polizia e infinite strisce di nastro giallo attorno. C’erano anche due furgoncini della televisione. L’agente passò oltre e parcheggiò a metà dell’isolato, dove nessuno li avrebbe visti.

“Come ci organizziamo?” chiese al resto dell’equipaggio. “Non possiamo permettere che la Hunt si faccia vedere entrare in quella casa. Se questa è opera di Thurman o di Crutchfield, staranno molto attenti se lei si fa vedere o meno. E anche se non si tratta di loro, certo non vogliamo che la sua faccia venga spiattellata su tutti i notiziari.”

Jessie aspettò che qualcuno di loro suggerisse la soluzione più ovvia. Vedendo che non lo facevano, prese la parola.

“Andiamo verso il retro,” ordinò loro. “Non c’è nessun vialetto. Significa che c’è un accesso al garage dal viale. Lì saremo alla larga dalle troupe televisive, che non riusciranno a portare i loro grossi furgoni da quella parte. In questo modo dovremmo riuscire ad entrare senza avere troppe videocamere o macchine fotografiche nelle vicinanze.”

Nessuno parve avere obiezioni, quindi Toomey rimise l’auto in moto e seguì le sue istruzioni. Avvisò via radio gli altri agenti per metterli a conoscenza del piano e disse loro di restare sulla strada principale.

In effetti lo stretto viale era bloccato da macchine di pattuglia da entrambi i lati. Loro passarono oltre e uscirono. Murph e Dolan mostrarono i badge all’agente più vicino, che li lasciò passare senza chiedere il documento né di Toomey, né di Jessie, che era ovviamente riluttante a rivelare la propria identità a chiunque, anche a un poliziotto.

Entrarono a piedi dal cancello sul retro e salirono i gradini del portico fino all’ingresso, dove un altro agente chiese le loro generalità. Questo era più riluttante a farli passare senza vedere i documenti di ciascuno. Ma Dolan si chinò in avanti e sussurrò all’orecchio dell’uomo qualcosa che Jessie non poté sentire. L’uomo annuì e fece un passo indietro per farli entrare.

Mentre varcavano la soglia, Jessie cercò di eliminare dalla propria testa tutti gli intoppi della mattinata per concentrarsi solo su ciò che la circondava. Ora si trovava impegnata in un caso e la vittima, chiunque essa sia, meritava tutta la sua attenzione.

La porta sul retro si apriva sulla cucina, che era in stile contemporaneo e ben fornita dei più moderni elettrodomestici. In effetti tutto sembrava così nuovo e intatto da sembrare che ogni cosa fosse stata messa a nuovo negli ultimi sei mesi. Qualcosa di quel posto le ricordava le ville nuove di zecca di tutte quelle ricche coppie della contea di Orange, dove lei aveva brevemente vissuto prima di venire a sapere che il suo attuale ex-marito, Kyle Voss, era un violento sociopatico.

“Chi vive qui?” chiese senza rivolgersi a nessuno in particolare.

Nell’angolo c’era agente in uniforme dall’aspetto giovane e con i capelli biondi che sentendola venne loro incontro.

“Pensavo che i detective avessero finito,” disse.

“L’FBI sta dando una mano,” spiegò Dolan, mostrando il suo cartellino e guardando la targhetta con il nome del giovane agente. “Può dirci qualcosa, agente Martin?”

“Sì, signore,” rispose Martin. “La casa è affittata a due donne. Gabrielle Cantu e Claire Stanton. La Stanton è la vittima. Aveva ventitré anni. È stata trovata questa mattina presto dalla Cantu e dall’uomo con cui era uscita.”

“Dove si trova ora la Cantu?” chiese Jessie.

“A casa dell’uomo,” rispose l’agente Martin. “Vive subito dopo la collina fuori da Mulholland Drive. La ragazza non ha familiari in città, quindi lui si è offerto di ospitarla fino a che non si sentirà meglio. È chiaro che non si senta a suo agio all’idea di tornare qui, e non lo sarà per un bel po’.”

“Dove è stata trovata la Stanton?” chiese Dolan.

“Nel bagno,” disse Martin. “Vi faccio vedere.”

Mentre faceva strada lungo il corridoio, Jessie notò che gli agenti federali Murph e Toomey stavano a distanza. Sembravano meno interessati ai dettagli del caso che a osservare tutti gli altri – agenti, gente presente sulla scena del crimine – all’interno della casa. Anche in una casa piena di agenti di polizia, tutto era considerato come potenziale minaccia per un testimone sotto protezione, nella fattispecie lei.

Jessie si chiese di che genere di affari si occupassero Gabrielle e Claire per potersi permettere di affittare un posto come quello ad appena vent’anni. Pensò che fossero entrambe impiegate in aziende di alto livello.

Ma la sua esperienza maturata fino ad ora in questo lavoro le diceva che era più probabile che fossero modelle o beneficiarie di fondi fiduciari. Poteva anche darsi che fossero attrici. E anche se era uno stereotipo, il fatto che abitassero nella San Fernando Valley aumentava le possibilità che si esibissero in spettacoli di varietà per adulti.

Il salotto aveva un grande televisore mega-schermo con altoparlanti per il dolby surround, poltrone in pelle e un angolo bar. Quando imboccarono il corridoio che portava alle camere, Jessie notò che non c’era molto da dire in materie di pezzi d’arte. C’erano gingilli e dispositivi tecnologici, ma niente che suggerisse che le tenutarie avessero investito a lungo termine sulla casa.

Quando raggiunsero la prima camera da letto, l’agente Martin si fermò.

“Questa era la stanza di Claire Stanton,” disse. “Il bagno la collega alla camera dell’altra ragazza. È così che l’ha trovata. La Stanton era nella vasca.”

“La squadra che si occupa della scena del crimine ha finito qui?” chiese Jessie. “Va bene se entriamo?”

“Sì. Il corpo è stato portato via. Se vuole le posso far mandare le foto dall’investigatore della scena del crimine.”

“Grazie,” rispose Jessie, entrando nel bagno.

Il corpo era stato anche portato via, ma i resti della carneficina erano ancora lì. Mentre il resto del bagno appariva intatto, la vasca, un modello in stile antico, posizionata al centro, era ricoperta di sangue, la maggior parte del quale si era raggrumato in una pozza scura e viscosa vicino al buco di scolo.

Mentre Jessie studiava la scena, le foto le arrivarono sul telefono dal CSI. Lei le aprì mentre Dolan, che aveva ricevuto lo stesso messaggio, faceva la stessa cosa con il suo telefono.

Nella prima immagine il corpo di Claire Stanton si vedeva steso nella vasca, a faccia in su, con un braccio allungato fuori dal bordo. Aveva gli occhi sgranati e il sangue le scendeva dal collo, ricoprendole il petto e buona parte del volto.

Ciononostante, si vedeva che la ragazza era bella, anche più delle camionate di bellocce che aspiravano a Hollywood. Bionda e piccolina, con gambe e braccia toniche e abbronzate, assomigliava alla cheerleader principale di una grossa università.

Altre fotografie mostravano particolari del collo e delle ferite inferte. Anche se era difficile esserne sicuri, una prima ispezione dei tagli, irregolari e sbrindellati, dava l’impressione che non fossero stati causati da coltelli. Se Jessie avesse dovuto indovinare, avrebbe detto un cacciavite o…

“Chiavi,” disse Dolan.

“Cosa?” chiese l’agente Martin dall’angolo della stanza.

“Queste ferite al collo, sembrano fatte con delle chiavi lunghe. Gli operatori che hanno lavorato sulla scena del crimine hanno detto qualcosa al riguardo?”

“Non ero nei paraggi mentre stavano valutano la scena, agente,” ammise.

“Penso che tu abbia ragione,” disse Jessie. “È come se i colpi fossero arrivati da diverse angolazioni, affondando a profondità differenti, quasi come se l’aggressore tenesse in mano diverse chiavi e gliele abbia piantate tutte nel collo contemporaneamente.”

“Non sapevo che avessi un addestramento in analisi della scena del crimine,” disse Dolan, inarcando le sopracciglia scettico.

“Non ce l’ho. Ma ho imparato a vedere quello che ho davanti agli occhi,” ribatté lei. “E ho anche una certa esperienza in aggressioni con armi da taglio. Cosa più importante, ho una formazione in comportamento psicologico. E sulla base delle immagini preliminari che abbiamo qui, direi che stiamo probabilmente trattando una scena di crimine passionale, piuttosto che un’aggressione premeditata.”

“Come fai a dirlo?” chiese Dolan, senza mettersi a discutere.

“È difficile immaginare che uno premediti di scegliere le chiavi come metodo d’attacco. È un casino e non è certo uno strumento sicuro in termini di efficacia. A me sembra più una cosa improvvisata.

“Un crimine passionale?” ripeté Dolan con tono canzonatorio.

“È un cliché, ma sì.”

“Questo non dà grosso sostegno della teoria che si sia tratto di Crutchfield o di Thurman,” puntualizzò lui. “Da quello che ho capito, sono entrambi piuttosto meticolosi.”

“Sono d’accordo che in questo modo la cosa appaia meno probabile.”

“Quando è arrivata la chiamata?” chiese Dolan, rivolgendosi di nuovo all’agente Martin.

“Un po’ dopo le due del mattino. La Cantu e il suo compagno erano tornati da una serata fuori. Lei è andata in bagno e l’ha trovata. L’uomo, che si chiama Carter Harrington, ha chiamato il nove-uno-uno.”

Dolan girò per il bagno per qualche altro secondo, l’espressione annoiata.

“Penso che abbiamo raccolto tutto quello di cui avevamo bisogno qui,” disse, rivolgendosi a Jessie. “Che ne dici se andiamo a trovare Gabrielle Cantu e vediamo se ci può dare un po’ di dettagli in più?”

Jessie annuì. Aveva la percezione che stesse tentando di trascinare avanti le cose. Se questo caso non era collegato a uno dei suoi eccezionali serial killer, chiaramente l’agente aveva intenzione di stabilirlo rapidamente, in modo da poter scaricare tanto il caso quanto lei nel minor tempo possibile.

Anche se la cosa le pareva uno sgarbo, Jessie non poteva biasimarlo completamente. Era un agente che inseguiva dei serial killer, non vittime di goffi omicidi messi in atto con un mazzo di chiavi. E anche se odiava ammetterlo, lo era anche lei.

Il Sorriso Perfetto

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