Читать книгу I demagoghi - Cesare Monteverde - Страница 11

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A tali parole Alfredo sentì montarsi il sangue al viso per eccesso di collera e,

—Viltà? replicò, mal ti apponi; lo saprai, o ardito incognito, quando la sorte della patria sarà decisa. Io ho un conto di morte da saldar teco: se hai onore, palésati onde io possa sodisfarlo.—

La mascherina, cacciandosi addietro il cappuccio del dominò, lasciò cadersi sulle spalle la più bella treccia bionda.

L'uffiziale trasalì; ma più crebbe la sua maraviglia quando il personaggio incognito, toltasi la visiera, lasciò contemplare uno dei più angelici volti dell'universo.

—Esmeralda! gridò Alfredo, mia Esmeralda!

—Taci, taci, amabile pazzarello, riprese la maschera rannodandosi la treccia e riponendosi in fretta la visiera; vien gente, non voglio esser conosciuta. Conducimi alla sala del ballo.—

E gli porse la mano.

Alfredo, coprendola di mille baci, si accompagnò coll'adorato avversario avviandosi alla sala delle danze.

In cima al corridoio incontrarono una folla di maschere tutte in dominò bianco sul quale era trapunta una camelia rossa; costoro si misero in cerchio intorno alla coppia canterellando un'aria plateale in guisa da impedirle di dirigersi verso il ballo, e dopo due o tre giri si misero a gridare:

—Sei de' nostri? sei dei nostri? su su, un balletto.—

Ed a vicenda afferrata Esmeralda, la fecero danzare.

Alfredo, impaziente, attendeva che lasciassero libera la giovinetta, e fissamente teneva dietro ad ogni suo movimento, temendo di confonderla colle mascherine sopraggiunte, ma erano esse tanto simili fra loro che nell'intreccio non gli fu più possibile di ravvisare quale di esse fosse la sua Esmeralda. Questa però, che avrebbe potuto staccarsi dalle compagne e ritornare al braccio dell'amante, bizzarra e capricciosa, volle aumentarne il malumore e, spiccando un salto in mezzo al gruppo coi dominò compagni, precipitò nella sala da ballo, ove a forza di strepiti carnevaleschi produssero uno di quei piacevoli disordini che sogliono animare il brio in tali circostanze.

Ma, durante la festa che già incominciava a declinare, noi abbiamo perduto da qualche tempo Rosina; non ci dispiaccia perciò di farci innanzi tra la folla a ritrovarla. Prima per altro non sarà male passare in rivista alcune signore e signori che incontreremo nelle sale che andiamo a percorrere prima d'imbatterci nella vezzosa fanciulla.

Nella sala del thè una fila di sedie coperte di damasco a spalliera dorata accoglie una dozzina di vecchie mamme e zie, le quali stanno a mirare i danzatori e le ballerine, cianciando fra loro di cuffie e di mode, di pettegolezzi amorosi e di piccoli scandali; ma coteste quinquagenarie declamatrici contro un lusso che non potevano più fare, contro l'amore cui avevano dovuto dire addio, contro la bellezza per esse passata, lasceremo in cura ai servitori in livrea che, di quando in quando passando innanzi al venerabil consesso coi vassoi pieni di biscottini e confetti, sapranno empire quelle bocche d'inferno, le quali almeno per qualche tempo cesseranno di qualificare le amabili zitelle per pettegole e scimunite, ed i bei giovani per sguaiati e monelli.

Nella sala da bigliardo e della bambara noi osserveremo quei visi di signori nei quali, invece dell'allegria, vediamo dipinti il burbero ed il cagnesco. Costoro, ognun se l'imagina, sono giuocatori sfortunati, mariti gelosi, amanti non corrisposti.

Prima peraltro di passare oltre fa duopo arrestarci una diecina di minuti in un salotto di transito e precisamente presso una portiera che copre colle cortine il vano di una finestra entro il quale due persone stanno chiacchierando; sicchè potrem sentire quanto appresso.

—Oh quanto è amabile quella fanciulla! si dice anche sia molta ricca.

—Ne so più di te; si chiama Rosina.

—Ma che? sarebbe ella forse della nostra congiura?

—Sì certo: Oh! non lo sai, disse Topo, cosa ci ha detto il nostro capitano ieri notte all'osteria dei Tre Mori?

—Come posso saperlo? all'osteria non ci venni, lo sai bene; ero di guardia in fortezza vecchia, smontai alle undici di fazione per dormir sul pancaccio.

—E per conseguenza disponesti alla paura il militare che doveva succederti in sentinella, onde esplodesse sul caprone maraviglioso.

—Certo che sì; e conoscendo quanto fosse babbeo il mio camerata, gli feci una paura tale che, veduto il supposto mostro, rimase come di pietra, e adesso è allo spedale di Sant'Antonio.

—Ottimo luogo per gli scimuniti suoi pari.

—Eppure Marco non è un giovine da disprezzarsi; io spero che un giorno sarà della nostra.

—Belzebù ti liberi dal farne nemmeno la proposta; caro amico, i contadini per le faccende della nostra congrega vanno tenuti alla larga, ci vuol il coraggio che abbiamo noi.

—Ma…. non mi dicevi che la signorina è dei nostri? più debole di una fanciulla nobile, educata, di sedici anni non saprei.

—Tu nei sai poco; costei è nostra, nostra affatto…. figúrati è la sposa del nostro capo.

—Del Caprone?

—Del Caprone appunto; come la sorella del Caprone, la cara Esmeralda, sarà, cioè lo è di già, la innamorata del capitano Alfredo fratello di Rosina.

—Topo mio, tu mi fai stupire!

—Sei un balordo; ed io voglio istruirti. Nella nostra setta hanno da entrare tutti coloro che o direttamente o indirettamente possono giovare allo scopo. Quindi il nostro degno capo, il quale si rende visibile ed invisibile, che con maravigliosa celerità si trasferisce da un luogo ad un altro, raccoglie tutto il migliore; cosicchè dai poveri facchini quali siam noi, dai ladri, dalle donne di mondo, dai marinari, dai barcaiuoli si sale ai soldati, agli ufficiali, alle damine, agli ottimati e….

—Ma dimmi un poco, proseguì il compagno, perchè il Caprone ci volle tutti quanti alla festa?

—L'avrà fatto per darci un'idea di questo mondo di signoria che prima non conoscevamo; per la bizzarra sodisfazione di vedere col benefizio della maschera mescolati insieme i ladri ed i galantuomini, i poveri e i ricchi, le dame e le pedine: e poi…. a lui sta a comandare, a noi spetta l'obbedire; nè ci è lecito dimandare la ragione degli ordini. D'altronde il nostro intervento qua è puramente pacifico: noi siamo disarmati.

—È vero, disse l'altro, io non ho che un coltellaccio a cricco.

—Ed io un corto stile a triangolo.

—Ma il Caprone è venuto alla festa?

—Non l'ho veduto: ma vi sarà di certo. Indovinala tu qual razza d'abito si sarà messo.

—Sicuro non avrà lasciato che la sua bella danzi con altri; avrai pure osservato che la Rosina tiene in petto la camelia rossa. Sì, te lo ripeto, essa è nostra, proprio nostra in anima e in corpo. Non vedi tu che quanti siamo in maschera abbiamo tutti lo stesso segnale? Il solo capo è forse quello che ne manca.—

Una delle maschere che così discorreva dietro la portiera l'aperse leggermente e, sporto fuori il capo, fece cenno all'altra che pur si affacciasse fra le tendine, dicendole all'orecchio:

—Che ardire! che bravura! che uomo maraviglioso! Vedi tu quel gentiluomo con due decorazioni sull'abito e cotanto splendidamente abbigliato, il quale ha sì bei mustacchi neri sotto il naso e quei bei capelli di colore morato, che è tutto grazie ed incanto?

—Lo vedo, rispose l'altro; dà il braccio alla amabile Rosina.

—Or bene: non hai tu riconosciuto il Caprone?

—Bah! il Caprone lui? il Caprone è biondo, costui è nero; il Caprone è senza barba, e costui l'ha folta.

—Stolto! riprese Topo, ti assicuro che colui è il Caprone come tu sei l'Arciero ed io son Topo; ma compatisco la tua incredulità. Egli ha cento mezzi di travisarsi, e gli riesce così bene che lo credo qualche volta lo stesso diavolo in persona. Anche esso ha la camelia; ecco il fiore della setta: viva essa in eterno!

—Che la duri così, mio caro Topo.

—Ti compiango se dubiti; sei troppo ragazzo: ma sappi che la nostra congrega abbraccia mezzo mondo, e tu vedrai che al fin dei conti il mondo muterà faccia per opera nostra. Intanto godiamo il buon tempo e i bei zecchini; e se non fossimo intimamente legati a colui, all'uomo misterioso, tu saresti a far la guardia, ed io a cucire le balle e rubare i baccalari. Ma andiamo a bere un paio di punch, chè il discorrere mette sete.—

Ed ambedue, usciti di sotto la portiera, si diressero alla stanza del buffet inseguiti da Alfredo, il quale ogni volta che s'imbatteva in un dominò bianco, credeva di rinvenire la sua cara Esmeralda.

Esmeralda per altro, dopo il rabbuffo fatto all'amante, del quale era gelosissima e tenera, aveva abbandonato le sale per rientrarvi in altre vesti, onde, per giovanil capriccio del suo sesso, stare sconosciuta ai fianchi di Alfredo, di cui temeva qualche imprudenza o leggiera infedeltà fra tante donzelle e donne amabilissime. Esmeralda, in nuova foggia abbigliata, stavasi travestita da maga egiziana; ed imbattutasi in Alfredo, con voce alterata e gutturale,

—Giovinotto, gli disse, vengo dal paese delle cabale, delle piramidi, ed ho buoni numeri da dare agli amatori del giuoco del lotto: 21. 31. 49.—

A Livorno il parlare di numeri e di cabale è tema favorito; sono sì buoni i Livornesi che credono ai sogni: perciò la finta maga si attirò la simpatia dei circostanti; e più di un giovane elegante, tirato fuori il taccuino, vi segnò col lapis i tre numeri bizzarramente dati, con animo di giuocarli davvero e ristorare le abbattute fortune.

Alfredo si morse le labbra per dispetto sentendo ripetute da quella maschera le parole da lui poco innanzi proferite al giuoco della primiera e per le quali aveva altercato con Esmeralda. La maga per altro seguitò a rallegrare la comitiva e, preso un piccolo portavoce d'argento,

—Io leggo nel destino, gridò ridendo di sè stessa nel farla da sibilla: questi tre numeri additano tre grandi epoche nelle quali si tenteranno grandi cose e si rinnoverà la faccia della terra: Renovabitur facies terræ.

—Sa anche di latino la maga, urlarono i circostanti.

—Anche d'ebraico, d'arabo, di turco, d'indiano e di cinese, se così vi piace. Ma lasciatemi; devo predire la sorte ad una vaga fanciulla. Indietro adunque, o profani, o che io con questa bacchetta vi cangio tutti in vipere, rospi, cani, gatti e in qualche cosa di peggio.—

La folla rise, e alcune altre maschere si misero a noiarla. Ella però le respinse facendo uso di una verghetta di ferro, la quale se non aveva il potere di cangiare gli uomini in bestie, aveva quella di far loro delle lividure ed era capacissima di tenere indietro gl'indiscreti.

Il brio cresceva, sebbene la festa volgesse al suo fine. Lungi dal romore delle ultime danze più fragorose e vivaci, lungi dalla folla delle maschere che dai salotti del ballo passavano a quelli dei giuochi e del buffet, in un salotto rischiarato da una pallida lampada con opaco cristallo, guarnito di damasco celeste e che aveva all'intorno un divano color di rosa pallido, e sulle cui consoles ardevano in candelabri d'argento candele aromatiche spandenti una luce gradita, una fanciulla stava in atto mesto assisa sul molle sofà; ed un giovine nel vigor dell'età elegantissimamente abbigliato, sul cui petto brillavano due decorazioni e si vedeva una camelia rossa, piegato un ginocchio innanzi alla fanciulla,

—O mia adorata fanciulla, le diceva, dovrò io dunque invano sperare da voi uno sguardo di compassione?

—Signore, parlatene a mia madre.

—Non posso, Rosina, non posso; un terribile arcano m'impedisce ora di palesarmi a lei ed a voi; il mio nome è un mistero: io ne ho tanti, ma non ne ho un solo da darmi di fronte a voi ed alla madre vostra. Ma io vi amo, è un anno che vi amo, e voi lo sapete; non sono indegno di voi: non vi basta?

—Signore!!

—Avrei io osato invocare l'ombra del padre vostro per farmi strada al vostro cuore e non avrei temuto che l'ira del cielo su me piombasse a punirmi ove osassi mentire?

—Il mio cuore non può sentire altro affetto che per l'ombra del genitore, per l'eroe della sua patria.

—Ah! Rosina….., interruppe l'amante, io vi giuro che più di lui l'amo e farò tutto per lei.

—Dimostratelo ed alzatevi; potrò allora amarvi, gli disse la fanciulla.

—Ho vinto, esclamò il giovane entusiasta, ho vinto. Ciò sarà; giurate di essermi fedele e di unirvi a me quando questa vostra patria sarà felice o che avrò esaurito tutti i mezzi per farla tale.

—Giovane che io non posso definire, il vostro ascendente mi opprime l'anima. Lasciatemi; la ragione mi dice di fuggirvi, il cuore non lo può: giurate voi di mantenere le vostre promesse. Dio, patria, padre e voi amerò in eterno.

—Lo giuro, o Rosina, lo giuro. Oh! se sapeste a qual altare più terribile l'ho io giurato oltre a quello del vostro amore, forse inorridireste.

—Gran Dio!

—Sì, Rosina, io l'ho giurato sull'altare della morte.—

La fanciulla, lasciate le mani dell'amante, si pose le sue alla fronte.

—Rosina, riprese l'incognito, Rosina, il vostro giuro mi sta sull'anima; io lo accetto, voi accettate il mio. Io mi allontano, ma voi mi rivedrete e ben presto.

—Signore!… replicò vivamente l'altra.

—Quando la vegnente notte sarà al suo colmo, soggiunse il giovine, se amate la patria, uscite dalle verginali vostre stanze e penetrate in quelle del fratel vostro.

—E perchè mai?

—Perchè sarà sonata l'ora in cui apprenderete il mio nome e tutto il nostro avvenire. Nella camera di vostro fratello troverete abito virile e di foggia militare; voi lo indosserete e seguiterete lui ciecamente fino alle catacombe.

—Ma egli?… gran Dio!

—Lo sa!

—Dimani? Per l'alta notte? alle catacombe? che mi chiedete mai?

—Io ve lo chieggo in nome di questo, ripetè il cavaliere, presentandole un medaglione che trasse dal petto. Era il ritratto del generale Guglielmi. Rosina la baciò fervidamente, ed il cavaliere si allontanò.

I demagoghi

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