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QUESTO ROMANZO …..: D. D. D. PROLOGO

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Circa le ore 4 pomeridiane del 31 marzo 18…. nella sala di aspetto della ferrovia di…. si trovavano quattro persone i cui abiti non meno che l'atteggiamento dimostravano appartenere essi ad un ceto piuttosto elevato della odierna società. Uno di loro stavasi seduto sovra un sofà della sala, tenendosi sulle ginocchia un quaderno manoscritto, sul quale tranquillamente e qual se fosse stato solo solissimo faceva delle aggiunte o delle correzioni col lapis. Costui, semplicemente abbigliato ed anche con qualche trascuratezza, era un uomo pressochè di ordinaria statura, di carnagione bronzina, con barba corta castagna, coi mustacchi, con occhi scuri e vivaci; potea dirsi uomo di fisionomia schietta ed aperta, se un certo, come suol dirsi, cipiglio, o increspatura della fronte laddove si accoppiano le ciglia non gli avesse data la gravità d'uomo di toga o di studi severi. Gli altri tre che stavano in gruppo erano una signora di circa venticinque anni elegantissimamente vestita da viaggio e due signori del paro in elegante abbigliamento che le facevano, come suol dirsi, la corte.

—Ah! non mi sarei mai creduto di aver la fortuna di combinare la signora marchesa di ***, disse uno dei due (se non sbaglio) damerini moderni.

—Vi dirò, conte, rispose la signora, dopo il primo anno di vedovanza sfuggo la noia dei miei casini, dei miei palazzi, dei miei giardini di campagna e della capitale per girmene sola e nel più stretto incognito, viaggiando all'uopo di studiare il mondo.—

A questa frase, pronunziata ad alta voce, l'uomo del manoscritto alzò la testa e fece un involontario movimento indicante compassione, quindi eseguì una grande cancellatura sull'opera e si mise a meditare.

—Benissimo, soggiunse l'altro damerino replicando alla dichiarazione della signora, benissimo: così è che dovrebbero fare tutte le gentildonne.

—Sono del vostro parere, caro cavalier segretario, disse il primo; ma il male sta che non tutte le signore del nostro secolo hanno l'acutezza d'ingegno ed i gusti della marchesa.

—Obbligata del complimento! fu sollecita a riprendere la elogiata; sempre cortese e gentilissimo!—Indi, accostandosi al naso una boccetta d'oro contenente essenza odorosa, ne aspirò buona dose.—Io peraltro non lo merito, soggiunse: faccio il mio piacere e nulla più.

—In grazia, che avete raccolto dai vostri studi mondiali? interrogò il conte.

—Ditecelo, proruppe il cavalier segretario.

—Che bisognerà educare il popolo.

—Non v'ha dubbio esser questa una delle più grandi necessità dell'epoca.

—Ah! saltò su a dire l'uomo del manoscritto (chiudendo il quaderno ed avanzandosi a prender parte alla conversazione con quella libertà di modi che si pratica fra le persone con cui si è per viaggiare); ma il mezzo sapreste voi additarlo, o madama?

—Fa duopo discutere molto.

—Discuterò volentieri, replicò il cavalier segretario.

—Ed io pure, continuò il signor conte,

—Ed ella? dimandò la signora all'incognito

—Volentieri cedo al vostro desiderio. Educare il popolo non è molto difficile, ma fa duopo prepararlo ai suoi grandiosi destini: fa duopo sovvenirlo, reggerlo, dargli pane e lavoro.

—Son cose vecchie, interruppe la saputella damina.

—Son cose giovani, severamente rispose il brusco letterato, e che non invecchieranno mai; ma non bisogna inebriarlo di folli utopie: allora solo potrà esser libero e virtuoso.—

La damina fu assai piccata dello sguardo di quell'incognito, che pareva una specie di Diogene e le facea gli occhiacci; e mentre i due damerini si guardavano fra loro con certo modo di maraviglia,

—Ditemi, signor filosofo, dimandò, quel libro che avete nelle mani è forse uno dei trattati della vostra rigida filosofia popolare?

—Gentile signora, replicò l'interrogato con un sorriso di compiacenza, il libro che tengo nelle mani è il manoscritto di un mio romanzo.

—Un romanzo! sclamò la marchesa dando un passo indietro.

—Un romanzo! disse il segretario facendo il viso serio.

—Un romanzo! gridò il conte facendo un par di occhioni dalla sorpresa.

—Sì, miei signori, qual maraviglia? proseguì placidamente l'autore. Forse perchè mi avete sentito batter sodo sulla filosofia, vi fa specie di sapermi autore d'un romanzo? Non si può forse, scrivendone, dilettare ammaestrando? E non crediate (e qui lo scrittore prese un po' di fuoco e se gli accesero le guance) e non crediate che tutto quello che chiamasi romanzo sia un impasto di fole, di storie bizzarre. Ditemi un poco: quante volte la favola non ha ella insegnato delle apprezzabili verità?

—Voi ci avete posto nella massima curiosità, prese a dir la marchesa; favoriteci il titolo.

I misteri di Livorno o i Demagoghi.

—Il titolo non mi dispiace, continuò la dama. Ma, quanto all'opera, la credete voi buona?

—Non sta a me a dirlo.

—La credete bella?

—Nessuno loda le proprie opere.

—La credete poi utile al popolo?—

Il treno che arrivò in quel momento non gli permise di replicare, ed entrò in vagone insieme agli altri.

I demagoghi

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