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CAPITOLO II.

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Rosina.

Il caprone entrò con Bruto. La sua venuta produsse un effetto magico su i nostri personaggi. L'oste si drizzò come un soldato in parata, si levò il berretto di testa e non ardiva parlare. L'ostessa si chinò per baciargli la mano; dico mano e non zampa, poichè fino dall'entrare nell'osteria il caprone aveva lasciato cadere a terra la veste lanuta, la testa e le corna fittizie, ed era apparso un bellissimo giovane, di maestoso portamento, di occhi cerulei, di capelli biondi.

Concetta aveva raccolto le spoglie dell'animale cornuto e le aveva poste su di una tavola in altra stanza perchè umide dal bagno fatto nel mare e nel fosso.

I quattro giuocatori si erano fatti attorno al nuovo commensale e, perduta ogni idea di rozzezza, esternarono segni di alto rispetto.

Catone lo aveva preso per la mano, ed anche il marinaro si era alzato dalla panca e, dismettendo il fumare, erasi posta la pipa in tasca. In un attimo tutti si affacendarono per porre in pochi minuti in sesto la mensa. Il Caprone (ci sia permesso chiamarlo così fino a che non verrà tempo di dargli altro nome) aveva una di quelle fisionomie dolci che incantano ovunque. Le sue maniere erano così affabili che attraevano la maggior simpatia, e soprattutto la sua voce aveva alcun chè di straordinario e d'insinuante, difficile ad esprimersi. Sì, egli era uno di quegli esseri nati proprio per comandare senza che paresse dolore il servirli; ma tante prerogative torneranno poi a vantaggio dell'umanità?… Chi lo sa? ed il mio racconto lo mostrerà in appresso. Quantunque in cuore ei credesse di giovare agli uomini, non sempre giova per far bene la volontà… Ma troppo non vo' dirvi, tanto più che il racconto è appena cominciato.

I nostri lettori per altro sospendano la loro curiosità intorno al signor Caprone e suoi amici e commensali; poichè dobbiamo condurli in altro luogo ben diverso dalla temibile osteria dei Tre Mori: ove lasceremo che Concetta, assisa al fianco del marinaro, faccia comodamente all'amore, Bruto studii le grandi teorie del Caprone, e gli altri servano ad ambedue pei loro misteriosi fini.

Luogo grazioso è quello ove ora vogliamo introdurre il lettore; è una palazzetta di due piani situata circa la metà della via Ferdinanda. Il primo e secondo piano sono abitati dalla signora Maria Guglielmi vedova con due figli: Alfredo, giovane militare al servizio di Sardegna, da qualche giorno rimpatriato, per ottenuto provvisorio congedo; la figlia, una giovinetta di sedici anni. Il suo portamento svelto e nobile la farebbe giudicare una di quelle vergini dipinte da Rafaello: tutto in lei era grazia e candore; nata per amare, fuoco d'innocente amore le brillava dai begli occhi cilestri, parole di amore spiravano i suoi labbri, e melanconico amore le stava sul viso pallidissimo, che rendevano più alabastrino i biondissimi capelli i quali le cadevano a ciocche sul collo tornito. Essa era pettinata alla vergine, avea cioè la divisione dei capelli perfettamente a mezzo del capo, senza ricci sulla fronte, ritondati all'indietro, ricinti da un nastro di seta celeste; le pendeva dal collo un monile di semplice avorio lavorato alla China e d'inestimabile prezzo, e della stessa materia avea gli orecchini, i quali contrastavano col niveo colore del bel volto. L'abito della fanciulla, tutto di raso celeste a fiori bianchi della più leggiadra forma del tempo, quasi sto per dire secondava le leggiadre forme della giovinetta. Aveva essa appunto terminato la sua toeletta, e già le cameriere stavano per licenziarsi, quando macchinalmente posò lo sguardo su d'un bellissimo oriuolo a pendolo che stava sul caminetto della camera.

—Ah! disse, sono le sette e mezza, manca un'ora all'apertura della festa; mi avete abbigliata troppo presto: mi noiano tanto queste feste, queste ricercatezze!

—Io credo che V. S. sia la sola fanciulla che a sedici anni parla in questa guisa. La festa che avrà luogo giù nell'appartamento del primo piano sarà una delle più splendide di Livorno, soggiunse la cameriera più avanzata in età, mentre che l'altra, rispettosamente inchinandosi, si era allontanata.

—Mary, per essere inglese, tu non sei punto inclinata alla misantropia; ti piacciono tanto le feste!

—Mi piacciono sicuramente, e come non avrebbero a piacermi? Mance di qua, mance di là…. Oh! la vita di noi cameriere ha bisogno di respirare in un'atmosfera di mance: e per questo viva la vostra patria! che cuore! Oh i Livornesi! per cuore e per generosità sono gli unici del mondo.

—Ti ringrazio per i miei concittadini, replicò la signora e si adagiò sul sofà di velluto che era da uno dei lati della camera. Orsù, Mary, resta a farmi compagnia mentre attenderò l'ora della festa; mi dispiace dovere scendere così per tempo. La mamma vuol così, bisogna obbedirla. Io non ho padre.—E qui un grosso sospiro partì dal cuore della bella.

—Il signor generale morì molto giovane, disse Mary.

—Ah! io era peranco bambina. Egli fu dei più intrepidi della guerra di Russia; fu fatto generale sul campo.

—E fece la carriera di soldato?

—Sì, mia cara, di semplice soldato; il suo valore passerà nei volumi della storia. Ah! perchè non posso io stringerlo al seno questo caro padre? Perchè non posso dirgli: deh! guida la tua figlia nel periglioso cammino della vita.

—Bando, bando alle idee malinconiche, signorina; si direbbe che foste impastata di lacrime e di sospiri.

—La memoria del padre…. oh! credimi, Mary, è il più dolce de' miei pensieri; eccolo là (e additava un ritratto di un guerriero), eccolo là; qual nobile fisionomia! qual coraggio spira dai fulminanti occhi! O padre mio, io vado superba di esserti figlia.

—Ma, signora Rosina, si affrettò a dire la cameriera, perchè tanto darsi in preda alla sensibilità? lo vedete? una grossa lacrima vi è caduta sul fisciù; voi scomponete il vostro assetto. Orsù date retta alla vecchia Mary, passate nel vostro gabinetto, ponetevi al piano forte, fatemi udire quella vostra vocina a cui vo' tanto bene. Ciò vi salverà dalla malinconia.

—Voglio compiacerti, Mary; sei troppo buona, mi ami qual madre.

—Certamente: vi ho quasi veduta nascere, vi ho tenuta sulle ginocchia intere giornate quando…. Ah! io pure cadeva a parlare della guerra moscovita.

—Cosa vuoi ch'io canti? soggiunse Rosina con un sorriso di compiacenza infantile.

—Oh! su questo poi… fate voi, padroncina: tutto mi piace da quel bel bocchino di corallo.

—Ho capito; canterò a capriccio, disse risoluta la fanciulla, improvviserò: andiamo nel mio gabinetto al piano-forte.

E, spiccato un salto, penetrò nella stanza favorita e, assisasi innanzi all'istrumento, preludiò una musica fantastica, tutta di sua idea, oltremodo appassionata, a cui unì con voce angelica le appresso parole.

O amor, possente spiro,

Dolce alimento al cor,

Recasti dell'empiro

Sovra la terra i fior.

Per te del padre mio

Sacro è il ricordo ognor;

Ben può sfidar l'oblío

Di figlia il casto amor.

Nel virginal mio petto

Non vo' diverso amor:

Mi basta il puro affetto,

Quello del genitor.

Ma se d'un altro fuoco

Arder potesse il cor,

Può sol trovarvi loco

Di patria il santo amor.

Rosina cantava queste strofe, le quali con tutto il fuoco dell'animo virginale accompagnava con soave melodia sugli armoniosi tasti, quando, posato l'occhio sopra un mobile di mogano sul quale vedevasi un magnifico specchio, vi scôrse un oggetto che attrasse tutta la di lei attenzione deviandola dall'argomento del canto.

—Mary, disse con accento alquanto iroso, Mary, non custodite voi questo segreto mio appartamento?

—Sì, amabile padroncina, rispose l'ancella alquanto arrossendo nel vedere che Rosina guardava sempre sul mobile ed aveva ritirate le mani dalla tastiera del piano-forte: se ho errato in qualche cosa, vi scongiuro a dirmelo.

—Errato, può darsi, riprese Rosina con accento un poco più dolce; o, almeno, azzardato di troppo.

—Ed in che mai?

—In che? non vedi tu quella camelia rossa che spicca sul marmo dello stipo?

—La vedo: vi sta ella forse male?

—Non dico ciò, riprese Rosina, ma nessuno dee azzardarsi di adornare il mio segreto gabinetto senza mio permesso. Lo sai, su ciò sono severa severissima; con te non vorrei esserlo, o Mary, ma lo sarò, oh! lo sarò certo (nel tono della voce della fanciulla si scorgeva un misto di sdegno e di amorevolezza). Orsù chi ti ha dato quel fiore?

—Signora, replicò l'ancella, nessuno.

—Come nessuno? È forse caduto dal cielo, oppure il marmo fa germogliare le camelie? Mary, Mary, aggiunse quindi un poco più dolcemente, da qui in avanti chiuderò il mio gabinetto a chiave. Fiori non ce ne voglio, ed in specie fiori rossi.

—Ah! ah! prese a dire Mary cercando di ricomporsi, vengo allo scoprimento del mistero: parmi stamane aver veduto quel fiore in petto della mia compagna Teresina; essa è venuta su per assettare i mobili mentre voi, signorina, eravate scesa per la colazione: ve lo avrà posato, o forse anche il signore Alfredo….

—E che? mio fratello viene egli nelle mie stanze? Te l'ho pur detto, il mio gabinetto dev'essere eguale a quelli delle donne turche; non ci voglio profani. Quel fiore, ah! quel fiore…. invano tu speri guarirmi della mia tristezza; se tu sapessi….

—O mia padroncina, perdonatemi, esclamò ad un tratto Mary, tante bugie non le posso dire; e poi dirle a voi mi parrebbe doppio peccato mortale.

—Dunque?

—Dunque quel fiore mi è stato dato.

—Dato? e da chi? riprese Rosina sentendosi un fuoco inusitato alle guance.

—Dato….. cioè fatto avere misteriosamente, ma non mi sgridate; voi sapete quanto io vi ami.

—Prosegui….

—Ebbene, questa mattina è venuto all'uscio un povero a me ignoto. Costui, dopo le solite nenie, «Dio la rimeriti, Dio la rimeriti», mi si è accostato, ed avendo levato una scatoletta di sotto il giubbone, me l'ha mostrata dicendo: È per la signorina, e quindi me l'ha gettata ai piedi.

—Ah Mary!…

—Io non volea prenderla: ma colui facendo un ceffo terribile mi ha troncata la volontà di rifiutarmi. «Mary, mi ha detto con una vociaccia, se vi è cara la vita, date ciò che contiene la scatola alla signorina, datela, non temete; si tratta del volere di chi comanda a me e a voi.» A me? ho risposto, oh!… Ma l'incognito si allontanò fuggendo; allora io per curiosità ho aperta la scatola e, vedendo che conteneva un fiore, mi sono, confesso il vero, tranquillizzata. Ah! ah! ho detto fra me, sarà qualche zerbinotto pretendente a fare il grazioso con la signorina, e non ho avuta più paura delle minacce del messaggero; ma siccome ho pensato certo non essere ben fatto disgustare il poveruomo (tanto più che chi ha una bella padroncina dee trovarsi spesso a simili faccende), ho fatto la cosa a metà, togliendo cioè il fiore dall'elegante scatola, che ho ritenuta per me, e mettendolo su quel mobile.

—Incauta!

—Perdonatemi, ma giacchè nell'inverno tali fiori sono rarissimi, non sarebbe bene approfittarsene? Se non lo sdegnate, vel porrò io con uno spillo sul camicino.

—Mary….—

Ma la cameriera, senza frapporre indugio, corse a prendere il fiore e presentollo alla signorina, la quale facendo atto come di ricusarlo, percosso con la mano il calice di quello, ne uscì e cadde in terra una piccola carta ripiegata.

—È destino! è destino! esclamò la fanciulla, anche un anno fa…. anche un anno fa!!!—

E dalla ritrosìa passando a senso diverso, prese il fiore dalla cameriera, adornossene il seno, mentre, leggermente curvandosi, raccolto il caduto involto, vi lesse vergato da mano a lei ignota:

Nel virginal tuo petto

Serba il filiale amor,

Ma non spregiar l'affetto

Di lui che per te muor.

La patria adoro anch'io,

La coprirò di allôr:

Chi sa che all'amor mio

Non pieghisi il tuo cor?

—Ahimè! riprese Rosina, ecco il metro della mia favorita romanza.

Destino! destino! tu mi perseguiti.

—Incominciano a circolare le carrozze, si popola già la casa, volete discendere, padroncina? o desiderate che io mi ritiri? disse Mary.

Ma Rosina, collo sguardo fisso sui versi testè ricevuti, non dava segno di udirla; ella era immersa in una folla di riflessioni e di reminiscenze. Onde Mary mormorò fra sè: Eh! feci pur bene a non rimandare il povero. Caspita! dieci zecchini di mancia! L'innamorato dev'essere un gran signore.

—Mary, Mary, proruppe Rosina uscendo da un'estasi, io l'ho veduta; era l'ombra del padre mio, sì, l'ombra del padre mio…. e questo fiore? qual coincidenza! Ah! esso deciderà della mia vita.—

Ed appoggiatasi al braccio dell'ancella, discese nell'appartamento delle danze.

Mary era cameriera intelligente; in materia di cognizioni sulla toeletta, sulla moda, sui teatri, sulle feste da ballo, sugl'innamorati che davano generose mance, non aveva l'eguale. È peraltro vero che ella amava di cuore la padroncina; ma bisognerebbe che le mamme a cui interessano le figlie, ed in specie le mamme signore, fossero un poco più caute nel mettere intorno alle figlie una cameriera. La cameriera è per le donzelle di alto ceto quel che sarebbe per il sultano un favorito. Spesse volte avviene che questi nei dispotici regni orientali comandi più del padrone e regni in effetto sui popoli soggetti. Quanti errori dei sultani del Mogol non furono loro ma dei loro favoriti! Quanti e quanti malanni non hanno elleno commessi agiate donzelle di cui tutta la colpa sta nelle loro cameriere! Ma ahimè! i favoriti e le cameriere sono esseri indispensabili. Ed in fatti un poveruomo che vuol chiedere una grazia, come è possibile che la ottenga senza cattivarsi la benevolenza del favorito? Un giovanotto che vuol far intendere i caldi sentimenti di eterno affetto alla nobile ed agiata sua Dulcinea come sperare di giungervi senza il benefico influsso della donzella di camera? Vivano dunque i signori favoriti e le signore cameriere, ed in ispecie le belle, le quali sono il perno su cui ruota la macchina amorosa della scelta società. Io consacro ai loro meriti questa mezza pagina senza pretendere nè ringraziamenti nè regali.

La signora Maria Guglielmi, madre di Rosina, aveva una fiducia grandissima nella cameriera Mary. Madama Guglielmi era di una cospicua famiglia francese del tempo di Luigi XVI. Restituita da Napoleone al suo primo splendore, se non alle prime fortune, ne erano rimasti due rampolli nel fratello di madama ed in essa, la quale, invaghitasi dell'amabile e prode colonnello Guglielmi non ancor generale, avevalo sposato con poca sodisfazione del giovane conte Brienne, il quale, tuttora tenace dell'antica aristocrazia, sentiva qualche ribrezzo a vedere il sangue degli antichi feudatari mischiarsi a quello di un soldato, foss'egli pure il primo guerriero del mondo. Ma siccome il bellicoso imperatore prediligeva il merito militare, il signor contino dette l'assenso e ne raddolcì l'amarezza al rilevare che il generoso monarca aveva egli stesso elargito nella dote della contessina, senza che i feudi assai debilitati dal lusso del fu vecchio conte ne risentissero detrimento. Caduto il dominio napoleonico, cadde il benessere di coloro che avevano brillato durante quel regime, ed a fatica la Guglielmi potè, mercè l'influenza del fratello, ottenere dal nuovo governo la pensione come vedova del fu generale. L'ebbe per altro, e col prodotto di quella e di alcuni considerevoli beni di sua dote riuscì, se non ricca, almeno assai agiata. Il caldo amore di patria le avrebbe fatto preferire la dimora di Francia, ma d'altronde come sodisfare alla brama di primeggiare? L'adito della corte era chiuso ermeticamente ai partigiani napoleonici. Che fare dunque? Piuttosto che vivere negletta in Francia, pensò esser meglio viver considerata in Toscana, ed a Livorno patria di suo marito, che non avea lasciato parenti, fissò il proprio domicilio. Le sue grazie, poichè tuttor giovane e bella, il suo lusso, le crescenti attrattive della figlia, i divertimenti che dava aveano attirato in sua casa la miglior società livornese, ed in specie la frequentavano coloro che puzzavano un po' di liberali. I personaggi stranieri non mancavano d'intervenirvi nel loro passaggio per la città marittima, ed i suoi connazionali vi si trattenevano piacevolmente, senza punto curarsi delle antiche o moderne idee politiche della signora. La casa era tenuta splendidamente e potea dirsi l'unica montata su quel treno in quella città, non essendo allora colà nessuna di quelle numerose famiglie che adesso danno principeschi trattamenti e festini. L'ottimo abate Grand, uno dei più scelti ingegni del clero francese, vi aveva introdotto gli ecclesiastici più distinti della città, e presso madama Guglielmi si vedevano alla conversazione negozianti, uffiziali, scienziati, giudici, avvocati, medici e notai. Nulla mancava in quel delizioso recinto. La Guglielmi avea affidata l'educazione letteraria di Rosina al brillante Grand, la donnesca a certa madama Germil.

Nella sera del 16 febbraio cadeva un anniversario di famiglia, e questo era celebrato con molta solennità: nel giorno vi era stato pranzo, a cui avean preso parte le più scelte persone della città e i più distinti stranieri. Nella sera doveva aver luogo l'accennata festa di ballo, nella quale, perchè maggiore fosse il brio, era stato permesso l'accesso delle maschere. Fin dal mattino erano stati accaparrati quei mezzi di trasporto detti timonelle, specie di vetture modestissime e che davansi a nolo, composte di una cattivissima cassa di legno con peggiori molle, tirate da un solo cavallo; poichè all'epoca in cui comincia il nostro racconto non si vedevano formicolare nella città di Livorno quelle superbe ed eleganti carrozze di svariatissima forma, con cocchiere e servitore in livrea, le quali in oggi talmente sono frequenti per le pubbliche vie da essere stato necessario il fabbricare i marciapiedi alle strade onde tutelare la sicurezza dei cittadini. In allora Livorno, che aveva molta ricchezza senza punto nobiltà, era proprio meschina città di provincia con tutti i costumi provinciali, in cui mercanti ricchissimi, nella loro opulenza, non si vergognavano di andare a piedi portandosi nella domenica dal pizzicagnolo a provvedere per il modesto dessert del pranzo le sottili fette di presciutto, di mortadella, di lingua salata, le quali riponevano involte in carta sottile in quelle medesime tasche nelle quali stavano di frequente splendide doppie di Spagna e lucidissimi rusponi gigliati: mercanti che nei dì destinati agli affari sedevano ai loro banchi a guisa dei moderni commessi, non sognando i fallimenti e gemendo nel vedere la tendenza del movimento progressista che avrebbe, come pur troppo è avvenuto, fatte passare le ricchezze in mano dei forastieri e degli ebrei, e terminato col creare una città nuova e di lusso sulle reliquie della vecchia, e fatto sostituire agli opachi lampioni da olio i moltiplici beccucci del gaz, pullulare i teatri, i luoghi di ameno passeggio, i casini, i ridotti, ecc., piangendo quei buoni tempi di vera dovizia e commerciale onestà che andavano a senso loro a spirare esclamando: «Oh poveri Livornesi! vanità! tutto vanità! Debiti sopra debiti; lusso sopra lusso; negozianti diventati garzoni di bottega, boria molta e quattrini niente!»

Come io diceva di sopra, in occasione della splendida festa di madama Guglielmi, le timonelle erano state fissate fin dal mattino: ed avvegnachè il loro numero fosse ristretto, ogni vetturino si era assunto l'onore di trasportare al festino più d'una famiglia.

Le modiste da oltre una settimana lavoravano a furia, i sarti si affaticavano volentieri inquantochè a quell'epoca erano sicuri di esser pagati dagli avventori non con parole, come sento dire che avvenga oggi, ma con buoni francesconi.

I caffè ed in specie quello Del Greco preparavano i sorbetti, le limonate, i punch, l'acque d'anici, di finocchio e di cedro. Il famoso Bocca di gloria nella sua botteguccia posta ai quattro canti allestiva i cialdoni. Le fanciulle si abbigliavano, le mamme strepitavano nel mettersi le scarpe piuttosto strette ai piedi sessagenari e gonfi per i geloni. I giovinotti si risciacquavano la bocca per togliere l'odore del sigaro, si profumavano i capelli e si radevano la barba laddove oggi son cresciuti gli eleganti baffi. Chi non avea servitore, nè poteva averlo, non si restava da farla da cameriere a sè stesso, preparandosi per la danza, tranquillamente lustrandosi gli scarpini, spazzolandosi i calzoni e la giubba con quella stessa mano che, calzato il guanto color canario di pelle venuto da Napoli, avrebbe poche ore dopo guidato qualche scelta damigella alla contradanza francese.

E qui sappiate, lettori carissimi, che ho detto scelta, e non nobile damigella, inquantochè, siccome vi avvertiva, a quell'epoca non vi era nobiltà livornese, non essendosi voluto per anco cambiare i sacchetti di zecchini d'oro coi segni blasonici.

Il più alto ceto era quello dei ricchi e dei mercanti, i quali nella loro semplicità stavano almeno tranquilli che il sonno che avrebbero preso nel giorno dopo d'una festa da ballo non sarebbe stato interrotto dall'arrivo nelle loro case di quell'uomo poco simpatico chiamato il Cursore, latore di quei fogliettini altrettanto antipatici chiamati volgarmente Precetti, coserelle non fuori d'uso oggidì.

Ma intanto l'ora del festino è sonata, i suonatori si trovano al loro posto. Le carrozze ruotano per la via Ferdinanda. Si sentono lo scoppiettío delle fruste e le bestemmie dei vetturini impazienti ed il fruscío delle scarpe di coloro che, non avendo vettura, si recano alla danza a piedi. Gl'istrumenti dell'orchestra si accordano, e la bella Rosina insieme colla madre trovasi a far gli onori del convito, ricevendo le invitate e gl'invitati.

I demagoghi

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