Читать книгу STATI UNITI D'EUROPA: AUSPICIO, INCUBO, UTOPIA? VEREINIGTE STAATEN VON EUROPA: WUNSCHBILD, ALPTRAUM, UTOPIE? - Christiane Liermann - Страница 11

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Quali Stati e quali Nazioni nell’Unione Europea del XXI secolo

Piero S. Graglia*

Abstract

This contribution traces the evolution of the notion of state and nation in the European political and social space. The identity of the state and the nation is no longer an element of progress, but, as the experience of the 20th century has shown, it has become an element of conservation that tends to be a danger to the peace and stability of the European peoples. With an even more paradoxical effect: while the rest of the world organises itself into continental political entities, with interests and capacity for intervention commensurate with this scale, Europe still appears to be prey to nationalist prejudices that, although they have changed their name, remain linked to the legacy of two centuries ago.

The development of the European Union, politically as well as economically, is closely linked to the cultural and political overcoming of the nationalist conditioning that is still present and influential today.

Il sorgere dei movimenti per l’autodeterminazione dei popoli, tra la fine del ’700 e i primi anni dell’800, ha una motivazione intimamente romantica e nello stesso tempo illuministica: “nazione” era la bandiera del 1789; nazione germanica era anche l’idea sulla quale si fondò una parte consistente dell’opposizione a Napoleone da parte dei prìncipi tedeschi. Se anche l’egoismo dinastico aveva poi trionfato al Congresso di Vienna, ormai il carro era trainato da buoi più potenti: ogni popolo scopriva “quanto” era stato “libero” in un passato più o meno remoto, nel momento in cui trovava degli storici che ne scrivevano la Storia, dei poeti che ne cantavano le gesta, degli artisti che ne interpretavano i sentimenti nella letteratura e nell’arte, dei filosofi che ne dimostravano la supremazia relativa. Le nazioni hanno così distrutto in Europa il fatiscente ancien régime e si sono costituite in Stati nazionali sovrani, emancipando grandi porzioni di territorio dalla schiavitù dei retaggi feudali, ma creando un’altra schiavitù, se possibile peggiore: quella degli Stati indipendenti, gelosi custodi della suprema unicità della razza, dell’etnia, della cultura nazionale.

Qui si rintraccia il primo errore che penosamente l’Europa ha scontato nel secolo successivo: la coincidenza di Stato e nazione,1 che può avere due esiti diversi: o lo Stato ha il sopravvento sui motivi culturali ed etnici, dando luogo a formazioni plurinazionali che garantiscono, senza opprimerle ma anzi esaltandole, le diverse nazionalità – ed allora avremo formazioni statali simili ai Cantoni elvetici, unificatisi in federazione in pieno 18482 – oppure la nazione diventa il motore dello Stato inteso come fine: tutto deve portare all’allargamento del contenitore per garantire l’esistenza del contenuto e la sacralità del contenitore viene sancita dalla stessa missione che gli viene attribuita.

Nel primo caso lo Stato è un mezzo, uno strumento per la soddisfazione e la protezione dei desideri e degli interessi dei cittadini; nel secondo invece diventa un “fine”, un comodo padre-padrone, celebrato come Stato etico, non solo coordinatore delle attività della società civile, ma addirittura ispiratore di esse, poi controllore, poi egemone. Questa è stata la strada scelta dalla gran parte delle rivoluzioni nazionali del XIX secolo; una strada in parte dovuta alla situazione internazionale, in parte ispirata dalle dottrine politiche che di queste rivoluzioni erano il segnacolo. Il sogno di Mazzini di un’Europa costituita da nazioni libere e affratellate, conviventi sotto tante diverse bandiere, ma in amicizia, si scontrò con una dinamica dei fatti che è molto simile, fatte le debite proporzioni, a quello che durante il secondo dopoguerra venne definito l’equilibrio del terrore.

Solo così, infatti, si spiega perché una penisola come quella italiana, divisa da secoli in molteplici entità statuali diverse sia per storia sia per forma di governo, si unificò nella forma dello Stato accentrato, la più sfavorevole per garantire il rispetto delle importanti minoranze culturali presenti. L’Italia sabauda si “piemontesizzò”, senza correttivi locali nella legislazione, perché quella era la sua intima ragion di stato originaria; perché era circondata da Stati nazionali potenzialmente nemici – la Francia – o già ostili – l’Austria-Ungheria; perché doveva controllare agevolmente sia l’apparato amministrativo, sia l’economia ed avere l’esclusiva dei trasporti su ferrovia – all’epoca vitali per l’efficienza militare; perché doveva, in un’espressione, avere la possibilità di mobilitare le sue risorse rapidamente in qualsiasi momento per far fronte a possibili minacce. Un processo simile avvenne anche in Germania, con un processo di aggregazione dei principati tedeschi che si avviò con le iniziative economico-commerciali dello Zollverein e ben presto diventò processo di unificazione politico-militare. In questo generale processo di consolidamento e rafforzamento delle entità statuali europee, con la nascita di due nuovi attori unificati, lo Stato nazionale sovrano emerse come un punto di riferimento e di arrivo irrinunciabile, ma, nello stesso tempo, il mito dei diversi interessi nazionali europei convergenti verso un ipotetico benessere generale, divenne rapidamente, tra il 1850 ed il 1914, una chimera da lasciare ai non innocenti trastulli della storiografia liberale.

Questa tematica è dominante nella storia europea di questo secolo. L’anarchia strutturale degli Stati indipendenti europei ha condizionato in maniera decisa lo sviluppo economico, culturale e sociale di tutta l’Europa, tranne poche isole fortunate che se ne trovarono escluse per motivi fortuiti. In nome della Nazione e della Patria, si disegnavano i destini altisonanti degli Stati, si combatteva il diverso e si eliminava il nemico, sia interno sia esterno. Per questo stesso ideale si soffocava l’emancipazione delle classi oppresse, che non a caso avanzavano in nome dell’internazionalismo, senza potere neppure lontanamente immaginare gli esiti egemoni ed imperialistici che la Patria socialista e sovietica avrebbe incontrato dopo la sua nascita e il suo consolidamento.

Questa “creazione del nemico” è ben riflessa nell’iconografia dei monumenti più “patriottici” sparsi nei Paesi europei e arrivati fino a noi. Alla base della Siegessaüle di Berlino, per esempio, vi è un mosaico che ripercorre l’intera circonferenza della imponente colonna, raffigurando le vittorie prussiane su Austria e Francia – in particolare quella fondamentale del 1870 che portò alla nascita dell’impero tedesco di Bismarck e Guglielmo I, proclamato a Versailles. Ebbene, non riesce difficile cogliere nell’iconografia utilizzata una svalutazione neppure tanto nascosta del “nemico” che risulta grottesco, nell’abbigliamento e nelle pose, a confronto con i teutonici eroi vincitori. Lo stesso può dirsi per i monumenti celebrativi delle guerre risorgimentali italiane, oppure per i monumenti britannici eretti durante le guerre napoleoniche, per non parlare di quelli francesi, prima e dopo la Prima guerra mondiale.

Questa opera pervasiva di didattica della rappresentazione del nemico “storico” segna l’immaginario collettivo di tutta Europa,3 e prosegue anche oggi. A guardare, ad esempio, la filmografia di grande diffusione più recente nella Russia di Putin, non sfugge l’intento celebrativo di personaggi come Dmitrij Donskoj, vincitore sui mongoli dell’Orda d’oro e i suoi supposti successori – in particolare Aleksandr Nevskij –, impegnati contro i cavalieri teutonici: un recupero che, seguendo anni di retorica patriottica sovietica, non manca di sorprendere per la sua apparente novità a sgangherata diacronicità, visto che i due personaggi sono separati da un secolo e il secondo precede il primo, non viceversa – come suggerito dalla fiction.4

Quindi un percorso di “pedagogia nazionale” che mantiene anche oggi una certa attrattiva per i nuovi nazionalismi, si chiamino essi sovranismi o mantengano il vecchio nome: un percorso che, ieri come oggi, cerca di creare un sentimento patriottico saldandolo con la nazione, anche laddove un sentimento nazionale esisteva solo in parte. In Italia, ad esempio, venne creata una formula onnicomprensiva –“epopea sabaudo-garibaldina”– che ebbe la benedizione del suo ideatore, Benedetto Croce, per indicare il Risorgimento come processo di unificazione accompagnato da un vasto consenso popolare – che, con tutta evidenza, fu molto minore di quanto la ricostruzione retorica pretendeva che fosse5 – e peraltro sottacere le violenze che accompagnarono quella che si configurò come una occupazione militare da parte del Piemonte nei confronti dei territori annessi. In maniera simile in Germania tutta la retorica storica e letteraria cominciò a ruotare intorno all’Imperatore, supremo garante dei destini della nazione germanica, mentre il mito della nazione tedesca trovò cantori sia nella filosofia (Johann G. Fichte) e nella poesia (Achim Von Arnim), sia nella musica (Richard Wagner).

Su un altro fronte, se pure vi fu, nella cultura operaia e contadina, un sostrato comune al quale ricondurre comportamenti sociali sostanzialmente simili e aspettative universali, si vide ben presto come l’ideale della “nazione” fosse prepotentemente più forte. Alla vigilia del primo conflitto mondiale, i socialisti di tutti i Paesi europei votarono compatti l’appoggio al governo nazionale, con buona pace dell’internazionalismo e della fratellanza tra proletari mandati a uccidersi con divise diverse. Analogamente, l’eccezione italiana è giustificata dal fatto che gli operai e i contadini italiani non dovevano fronteggiare l’immediata minaccia di un’invasione come, invece, avvenne per quelli francesi e tedeschi. Una prova ulteriore del dominio della “nazione” sulla “classe” fu fornita dal fatto che, quando nel gennaio 1935 la regione mineraria tedesca della Saar si trovò a dover scegliere, dopo sedici anni di statuto internazionale, tra l’appartenenza alla Francia, il mantenimento dello status quo o l’annessione alla Germania, il 90% degli elettori, operai politicizzati delle miniere di carbone e delle industrie, scelse liberamente di finire tra le non amorevoli braccia di Hitler, che pure aveva liquidato le imponenti organizzazioni partitiche della socialdemocrazia e del partito comunista.

Come si vede, quindi, il quadro è intricato, segnato da profonde contraddizioni, ma caratterizzato da una generale difficoltà di sottrarsi al condizionamento pervasivo della nazione nella sua identità con Patria e con Stato. Un’eccezione di rilievo è data dal caso statunitense, anche considerando il fatto che gli Stati Uniti nascono relativamente tardi rispetto alle nazioni europee; tuttavia la presa della “nazione” negli Stati Uniti e nella sua cultura politica è molto bassa, mentre molto più presente è il riferimento al “patriottismo” e alla connessa fedeltà patriottica alla Homeland.6

Tralasciando la particolarità del caso statunitense, in Europa la nazione e la sua identità con la Patria e con lo Stato è un elemento che non può essere ignorato, neppure oggi. Questa sovrapposizione tra nazione, per sua natura escludente le diversità, e Stato, che invece dovrebbe permettere la convivenza di realtà etniche e culturali differenti, ha fatto sentire tutto il suo peso in epoche recenti della storia europea, ad esempio nel caso delle guerre civili all’interno della ex Jugoslavia. Con la fine del regime creato da Tito, che mirava a far convivere etnie diverse in un modello di Stato federale che era tale solo di nome, non è naufragata solo l’idea del socialismo di matrice slava, bensì tutta la costruzione. La Serbia, che godeva già sotto Tito di una notevole egemonia, soprattutto per quanto riguarda i quadri delle forze armate, ha sentito tutto il fascino del progetto di una grande Serbia – progetto invero ottocentesco, ma che ha fatto facilmente presa sui figli di un regime nazionalista e autarchico – ed ha avviato un’opera di repressione e di lotta per la supremazia che avrebbe potuto essere altrimenti evitata ricorrendo a forme estese di autonomia locale accanto all’autorità dello Stato centrale. Una simile scelta sarebbe stata possibile solo se vi fosse stato in Serbia e nelle altre repubbliche jugoslave un retroterra culturale e politico veramente “federalista”, cioè abituato a far convivere interessi diversi nell’unità di un coordinamento democratico superiore. Ma tutto questo, nel rigido centralismo jugoslavo, fondato soprattutto sul carisma di Tito, mancava e in anni recenti ne abbiamo visto i frutti velenosi.7 Accampati a osservare il dramma di quella parte dell’Europa, si sono trovati poi, come avvoltoi, quelli che hanno fomentato, in maniere che forse un giorno ci sarà dato di sapere, le lotte intestine, fornendo armi e munizioni – non solo materiali ma anche culturali – a nuovi e vecchi nazionalisti slavi.

Con tali premesse, nell’Unione Europea di oggi siamo purtroppo lontani dal poter affermare che il nazionalismo escludente sia minoritario o sia una tendenza culturale priva di seguito. Anche se si presenta con nomi nuovi e con invenzioni lessicali ardite – il termine sovranismo non esiste nel dizionario della lingua italiana, mentre in francese souverainisme ha un significato di fatto differente –, il nazionalismo ha sempre le medesime caratteristiche concettuali che aveva nell’Ottocento, però adesso ha un potere di diffusione e di propagazione come idea forte e tranquillizzante enormemente amplificato dai moderni strumenti della comunicazione di massa: social media e Internet in particolare. Questa diffusione e prepotente irruzione dell’idea di nazione escludente, si è verificata soprattutto all’interno degli Stati che sono rinati alla libertà e indipendenza dopo il 1989 e la caduta del muro ideologico e politico che separava Est da Ovest. L’adesione di questi Paesi a un’Unione Europea appena nata (1992), che veniva intesa a Ovest come l’occasione per favorire una transizione democratica più efficace e solida, si è invece rivelata per quello che in effetti era: un’enorme occasione per migliorare il benessere delle popolazioni e diventare parte di un grande mercato unico. Mentre all’Ovest si faceva un gran parlare, in gran parte retorico, della “casa comune” europea, espressione mutuata da Gorbachev, a Est l’adesione all’Unione Europea veniva intesa come un passo avanti verso un benessere “occidentale”, restando invece affidata all’adesione al Patto Atlantico e alla NATO – entrambi alla ricerca di un nuovo senso per la loro esistenza – la garanzia di una sicurezza nei confronti dell’ingombrante ex “Paese fratello” e “patria del socialismo”.

Dopo trent’anni da quelle speranze e paure del 1989-1992, i Paesi dell’Est europeo non hanno ancora sciolto l’ambiguità di fondo della loro adesione. Gli Stati fondatori hanno mantenuto nel tempo solide coordinate che hanno permesso l’interiorizzazione di un europeismo che può conoscere diminuzioni di intensità, ma che non viene mai sostanzialmente messo in discussione: per la Germania il progetto europeo ha rappresentato, nel periodo 1947-1955, la condizione sine qua non per il suo rientro nel consesso europeo su un piede di parità, ed essa resta oggi il Paese più consapevolmente europeista del continente. La Francia ugualmente ha visto nel processo di construction européenne il riscatto di un Paese che ha perso il suo ruolo quasi egemone nel Mediterraneo, in Medio Oriente e nell’Europa continentale – non è un caso che sia stato lo choc della crisi di Suez nel 1956 a far precipitare la decisione francese di rompere gli indugi, durati un anno, circa l’accettazione dell’idea di mercato comune e portare rapidamente alla firma dei Trattati di Roma del marzo 1957. L’Italia, infine, per molto tempo europeista acritica ed entusiasta, ha vissuto con adesione il processo di integrazione europea considerandolo un vincolo esterno potente per garantire modernizzazione e superamento delle differenze strutturali tra aree del Paese. Ognuno aveva quindi motivazioni solide e concrete per leggere e vivere la propria adesione, come Stati e come “nazioni” ampiamente vaccinate dal nazionalismo. Non è un caso se il nuovo nazionalismo della Lega cerca nomi nuovi per sentimenti vecchi o, come dicono gli americani, new bottles for old wine: il “sovranismo” non è altro che il nazionalismo, giusto con una spolverata di cipria sopra. Ma per i Paesi dell’Est Europa il discorso è molto diverso, e il nazionalismo, soprattutto inteso come rivendicazione di una “esistenza in vita” dopo i lunghi decenni del socialismo reale, diventa un ospite ingombrante.

Gli uomini posseggono per natura molteplici identità culturali e sentimenti di appartenenza nei confronti di diverse comunità territoriali, fino alle più piccole, alle quali sono più strettamente legati dai loro affetti, consuetudini e ricordi. In questa molteplicità sta la ricchezza del genere umano, la radice del pluralismo e della libertà. Ma quando una singola comunità diviene il punto di riferimento esclusivo del lealismo dei suoi membri e ad essa viene attribuita la prerogativa della sovranità assoluta, si introduce nella convivenza civile, attraverso il nazionalismo esclusivo, il principio della disgregazione. La nazione indipendente e sovrana, che si può costituire a partire anche da dimensioni territoriali esigue, dopo la funzione creatrice e progressista svolta nel XVIII e XIX secolo, è diventata attualmente un mito reazionario, la cui funzione è solo quella di dividere, non tanto di unire. A causa di essa, la legittima aspirazione di ogni essere umano ad esprimersi nella propria lingua, a vivere secondo i propri costumi, nel rispetto delle culture altrui, si trasforma in intolleranza verso chi ha costumi diversi, nella diffidenza verso chi parla un’altra lingua.

Intolleranza e assertività nella presentazione della propria identità indiscutibile – quasi un dogma – sono inversamente proporzionali alle dimensioni delle nazioni che conquistano la sovranità – autonomia e indipendenza. La loro specificità ed il riconoscimento esterno di esse sono minacciati proprio dalle loro piccole dimensioni, e per questo esse tendono ad opprimere inesorabilmente le altre minoranze presenti al loro interno, oppure bandiscono campagne di “recupero” dei territori non uniti alla madrepatria. Nell’Ungheria di Orban, sul palazzo del Parlamento ungherese, sulla riva del Danubio, campeggiano tre bandiere, una per ogni cupola della costruzione: quella ungherese, quella della città di Budapest e una meno conosciuta, che rappresenta la comunità ungherese transilvana, considerata parte della grande Ungheria, ma ancora territorialmente divisa dalla patria. Dall’altro lato il governo rumeno, che ospita questa comunità, dal 1990 ha alternato comportamenti di apertura a chiusure a loro volta nazionalistiche in risposta alle infiammate dichiarazioni del Primo ministro ungherese Viktor Orban. All’irredentismo nazionalista ungherese si risponde con il nazionalismo rumeno.

Viene da domandarsi cosa vi sia di diverso in questo schema conflittuale rispetto a quello che caratterizzava le relazioni tra l’Italia post-risorgimentale e l’Austria-Ungheria fino al 1914: la richiesta di un’università italiana a Trento vede oggi il suo omologo nella richiesta di un’università ungherese a Cluj-Napoca, ad esempio, e il confronto tra i rispettivi elenchi delle rivendicazioni nazionali potrebbe continuare, anche se con una monotona tediosità.

In questa situazione – per non parlare di altri casi attuali, come la Catalogna ad esempio – l’Unione Europea porta in sé pesanti priorità e, forse, qualche responsabilità di carattere generale. Non basta, infatti, parlare di mercato unico, celebrare un’unità che sul piano politico non esiste e usare la retorica pubblica europeista per sterilizzare il nazionalismo ed evitare i danni che l’identità tra Stato e nazione porta con sé sul piano della coesistenza tra realtà culturali differenti. Oggi l’Unione, che si presenta come spazio di libertà, sicurezza e giustizia, deve farsi carico della sicurezza dai rigurgiti nazionalisti, della libertà di poter testimoniare la propria diversità cultuale e linguistica negli ambiti statuali esistenti, della giustizia effettiva che deve sanzionare chi, da posti di responsabilità e di governo, si fa portatore non sano del nazionalismo aggressivo ed escludente.

Solo con questa rete di sicurezza – in parte già esistente, in parte ancora da costruire – l’Unione Europea potrà essere un tutore delle diversità etniche e culturali che campeggiano nel motto dell’Unione stessa: “unita nella diversità”. L’Unione peraltro potrebbe fare un passo ulteriore modificando il motto degli Stati Uniti: da “e pluribus unum” a “e pluribus plura”, per dare conto della variegata esistenza di differenze culturali che vanno ben oltre la tradizionale distinzione tra comunità statali che ospitano spesso, al loro interno, diverse comunità nazionali.

Insomma, bisogna prendere atto che oggi parlare di Stati e nazioni nell’Unione Europea significa anche rivedere l’identità, quasi data per scontata all’interno dei documenti dell’Unione, tra Stato e nazione, ma anche abbandonare l’idea che una identità nazionale possa essere difesa e valorizzata solo se si fa Stato indipendente. Un lavoro culturale, in primis, più che politico; e un lavoro che sembra fatto apposta per una realtà istituzionale come l’Unione europea, che non si è mai fatta Stato ma conserva l’idealità e rappresenta i valori sia di una unione federale sia di un’unione di Stati sovrani.

Note

< Sul nazionalismo in genere, a pur titolo indicativo e senza alcuna pretesa di esaustività, si vedano Kellas, 1993, 240; Gellner, 1993, 639-694; Monteleone, 1982, 253; Aron, 1970; Hobsbawm, 1991 e Hermet, 1997, 304.

< Come è noto il nome “Confederazione elvetica” è fuorviante: la Svizzera è a tutti gli effetti una federazione.

< Cfr Cantù et al., 2009.

< Mi riferisco in particolare al film Furious – Gli ultimi guerrieri (2017).

< Solo di recente si sono cominciate a studiare con distacco le vicende risorgimentali, a partire dal mito di Garibaldi, umanizzato da opere come quella di Onofri, 2011.

< Per una idea generale e come viatico ad ulteriori approfondimenti sulla «identità» statunitense: Walzer, 1992.

< Sulla serie di conflitti che hanno accompagnato la dissoluzione della Yugoslavia si veda l’opera fondamentale di inquadramento: Pirjevec, 2014.

Bibliografia

Aron, Raymond. Pace e guerra tra le nazioni. Edizioni Di Comunità, 1970.

Cantù, Francesca, et al. L’immagine del nemico: storia, ideologia e rappresentazione tra età moderna e contemporanea. Viella, 2009.

Fayziev, Dzhanik e Ivan Shurkhovetskiy, Furious – Gli Ultimi Guerrieri . 01 Distribution, 2017.

Gellner, Ernest. “Il mito della nazione e quello delle classi.” Storia D’Europa. I. L’Europa Oggi, a cura di AA. VV., Einaudi, 1993, pp. 639–694.

Hermet, Guy. Nazioni e nazionalismi in Europa. Il Mulino, 1997.

Hobsbawm, Eric. Nazioni e nazionalismi dal 1870. Einaudi, 1991.

Kellas, James G. Nazionalismi ed etnie. Il Mulino, 1993.

Monteleone, Renato. Marxismo, Internazionalismo e questione nazionale. Loescher, 1982.

Onofri, Massimo. L’Epopea infranta. Retorica e antiretorica per Garibaldi. Medusa Edizioni, 2011.

Pirjevec, Joze. Le guerre jugoslave. Einaudi, 2014.

Walzer, Michael. Che cosa significa essere Americani. a cura di Nadia Urbinati, Marsilio, 1992.

* Piero S. Graglia, è nato a Sanremo nel 1963 in una famiglia con ascendenze liguri, piemontesi, belghe, lombarde e venete, ma ha sempre vissuto in Toscana. Laureato nel 1989 in Scienze Politiche presso il “Cesare Alfieri” di Firenze sotto la guida di Gaetano Arfè, ha poi conseguito il dottorato di ricerca in Storia del federalismo e dell’unità europea presso l’Università di Pavia (VI ciclo). Ha svolto attività didattica e di ricerca presso le università di Firenze, Napoli Federico II, Cluj-Napoca (Romania), Roma Tre, Georgetown (USA); dal 2002 è docente di Storia dell’integrazione europea e di History of Regional Integrations presso l’Università degli Studi di Milano. I suoi interessi di ricerca si rivolgono prevalentemente al processo di costruzione europea, al ruolo dei movimenti europeisti nella politica interna e internazionale, alla strutturazione di una politica estera per l’Unione europea. Ha condotto ricerche approfondite sulla figura di Altiero Spinelli, pubblicando la prima biografia scientifica del personaggio con l’editore Il Mulino (2008).

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