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CAPITOLO CINQUE

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21:45 ora legale delle Montagne Rocciose (23:45 ora legale orientale)

Penitenziario federale ADX Florence (Supermax) – Florence, Colorado

“Eccoci,” disse la guardia. “Casa dolce casa.”

Luke percorreva i bianchi corridoi in calcestruzzo della prigione più sicura degli Stati Uniti. Le due alte e massicce guardie in uniforme marrone lo fiancheggiavano. Erano quasi identiche, quelle guardie, con un taglio a spazzola militare da recluta, grosse spalle e braccia, e un torso ancora più grosso. Avanzavano, i corpi tesi e il baricentro alto, come degli aggressivi attaccanti di una squadra di football fuori dallo sport da un po’ di tempo.

Non erano in forma nel senso tradizionale del termine, ma Luke riteneva che avessero la stazza e la figura perfette per il loro lavoro. A stretto contatto, potevano mettere un bel peso addosso a un prigioniero che faceva resistenza.

I passi riecheggiavano sul pavimento in pietra mentre i tre uomini superavano le porte d’acciaio chiuse e senza finestre di dozzine di celle. Ciascuna porta aveva una stretta apertura vicino al fondo, come una fessura per la posta, attraverso la quale le guardie potevano far passare i pranzi e le cene ai prigionieri. Ciascuna aveva anche due finestrelle con vetro rinforzato in acciaio che davano sul passaggio. Luke non guardò in nessuna delle finestre che superarono.

Da qualche parte in quel corridoio, un uomo urlava. Sembrava in agonia. Urlava e urlava, senza dar segno di finire. Era notte, presto le luci sarebbero state spente, e un uomo gridava. Luke pensava quasi di riuscire a rappresentarsi le parole incorporate in quel rumore.

Guardò una delle guardie.

“Sta bene,” disse la guardia. “Davvero. Non sta soffrendo. Ulula e basta.”

L’altra guardia parlò. “La solitudine ne fa uscire pazzi alcuni.”

“La solitudine?” disse Luke “Volete dire l’isolamento?”

La guardia si strinse nelle spalle. “Sì.” Per lui era una questione semantica. Alla fine del turno andava a casa sua. Mangiava da Denny’s, a vederlo, e attaccava bottone con qualcuno. Portava la fede all’anulare della spessa mano sinistra. Aveva una moglie, probabilmente dei figli. Quell’uomo aveva una vita fuori da quelle mura. E i prigionieri? Non tanto.

Aveva alloggiato lì un gotha di furfanti e cattivi, Luke lo sapeva. L’Unabomber Ted Kaczynski era un residente attuale, così come Dzhokhar Tsarnaev, il fratello sopravvissuto dei due attentatori della maratona di Boston. Il capo mafioso John Gotti aveva vissuto lì per anni, così come il suo violento sgherro, Sammy “The Bull” Gravano.

Era una violazione delle regole del complesso a permettere a Luke di superare la stanza delle visite, ma quelle non erano esattamente le ore di visita, e si trattava di un caso speciale. Un prigioniero aveva delle informazioni da offrire, ma aveva insistito nel vedere Luke personalmente – non a un telefono con uno spesso vetro divisorio tra di loro, ma faccia a faccia, e uomo a uomo, nella cella. La presidente degli Stati Uniti stessa aveva chiesto a Luke di accettare l’incontro.

Si fermarono di fronte a una porta bianca, una delle tante. Luke sentì il cuore perdere un colpo. Era nervoso, solo un pochino. Non cercò di sbirciare l’uomo attraverso le finestre minuscole. Non voleva vederlo così, come un topo che viveva in una scatola da scarpe. Voleva che l’uomo fosse leggendario, immenso.

“È mio compito informarla,” cominciò una delle guardie, “che i prigionieri che si trovano qui vengono considerati tra i più violenti e pericolosi attualmente presenti nel sistema correzionale federale degli Stati Uniti. Se sceglie di entrare in questa cella e declina…”

Luke sollevò una mano. “Non serve. Conosco i rischi.”

La guardia fece di nuovo spallucce. “Si accomodi pure.”

“Per la cronaca, non voglio che la conversazione venga registrata,” disse Luke.

“Tutte le celle vengono riprese dalle telecamere di sorveglianza ventiquattr’ore al giorno,” disse adesso la guardia. “Ma non c’è audio.”

Luke annuì. Non credette a una parola. “Bene. Urlerò, se mi serve aiuto.”

La guardia sorrise. “Non sentiremo.”

“Allora agiterò le mani.”

Entrambe le guardie risero. “Sarò in fondo al corridoio,” disse uno dei due. “Picchi forte sulla porta quando vuole uscire.”

La porta fece un fragoroso suono metallico quando venne aperta la serratura, poi si aprì, mansueta. Da qualche parte, qualcuno li osservava davvero.

Aprendosi, la porta mostrò una minuscola e tetra cella. La prima cosa che Luke notò fu la toilette di metallo. Sopra aveva un rubinetto per l’acqua, in una strana combinazione, ma che aveva un senso logico, presumeva lui. Tutto il resto era fatto di pietra, e fissato sul luogo. Una stretta scrivania di pietra si estendeva dal muro di calcestruzzo, con un rotondo sgabello di pietra come un piccolo piolo che ne usciva dal pavimento di fronte.

La scrivania era piena di carte, qualche libro e quattro o cinque tozze matite come quelle che usano i giocatori di golf per tenere il punteggio. Come la scrivania, il letto era stretto e fatto di pietra. Lo copriva un sottile materasso, e c’era una coperta verde che sembrava fatta di serge di lana, o di un materiale ugualmente irritante. C’era una stretta finestra sulla parete in fondo, con una cornice verde alta forse sessanta centimetri e larga quindici. Fuori dalla finestra era buio, tranne che per una malaticcia luce gialla che si diffondeva nella cella da una vicina lampada ad arco al sodio montata sul muro esterno. Non c’era modo di coprire la finestra.

Il prigioniero era in piedi, in una tuta arancione, l’ampia schiena che dava loro le spalle.

“Morris,” disse la guardia. “C’è il tuo visitatore. Fammi il favore di non ucciderlo.”

Don Morris, ex colonnello dell’esercito degli Stati Uniti e comandante della Delta Force, fondatore ed ex direttore dello Special Response Team dell’FBI, si voltò lentamente. Il suo viso sembrava più rugoso di prima e i capelli sale e pepe erano diventati totalmente bianchi. Ma gli occhi erano profondi, acuti e attenti, e il petto, le braccia, le gambe e le spalle sembravano più forti che mai.

La sua bocca fece una specie di sorriso, che però non raggiunse gli occhi.

“Luke,” disse. “Grazie di essere venuto. Benvenuto a casa mia. Ventisei metri quadrati, approssimativamente due e venti per tre e sessanta.”

“Ciao, Don,” disse Luke. “Mi piace proprio come hai sistemato questo posto.”

“Ultima occasione di cambiare idea,” disse una delle guardie alle sue spalle.

Luke scosse la testa. “Penso che starò bene.”

Gli occhi di Don caddero sulle guardie. “Lo sapete chi è quest’uomo, vero?”

“Lo sappiamo. Sì.”

“Allora presumo,” disse Don, “che possiate immaginare quanto poco pericolo io rappresenti per lui.”

La porta si chiuse sferragliando. Luke provò qualcosa, mentre si fissavano attraverso la cella – avrebbe potuto chiamarla nostalgia. Don era stato il suo comandante e il suo mentore alla Delta. Quando Don aveva avviato lo Special Response Team, aveva assunto Luke come primo agente. In molti modi, e per più di dieci anni, Don era stato come un padre per lui.

Ma ormai non più. Don era stato uno dei cospiratori del complotto per uccidere il presidente degli Stati Uniti e rovesciare il governo. Era stato connivente nel rapimento della moglie e del figlio di Luke. Aveva saputo in anticipo della bomba che aveva ucciso più di trecento persone a Mount Weather. Davanti a Don si stagliava la pena di morte, e Luke non riusciva a pensare a una persona che più meritasse quel destino.

I due si strinsero la mano, e Don mise una mano sulla spalla di Luke, solo per un secondo. Era il gesto imbarazzante di un uomo ormai non più abituato al contatto umano. Luke sapeva che i prigionieri del Supermax raramente toccavano altri esseri umani.

“Grazie di tutte le visite che hai fatto e delle lettere che hai mandato,” disse Don. “È stato di conforto sapere che il mio benessere è una tale priorità per te.”

Luke scosse la testa. Quasi sorrise. “Don, fino a ieri pomeriggio non sapevo neanche dove ti tenessero. E non me ne importava niente. Poteva anche essere un buco per terra. Poteva essere sul fondo di Mount Weather.”

Don annuì. “Quando perdi, con te possono farci tutto quello che vogliono.”

“Ampliamente meritato, in questo caso.”

Don fece un cenno al piolo di pietra che spuntava come un fungo dal pavimento. “Perché non ti accomodi?”

“Resto in piedi. Grazie.”

Don fissò Luke, la testa gli si inclinò interrogativamente di lato. “Non ho da offrire molta ospitalità, Luke. È tutto qua.”

“Perché dovrei accettare la tua ospitalità, Don?”

Gli occhi di Don non si voltarono da un’altra parte. “Scherzi? Per i vecchi tempi. Come gesto di ringraziamento per averti fatto da mentore nella Delta e per averti dato il tuo lavoro attuale. Pensa a una ragione, figliolo.”

“Esattamente quello che dico io, Don. Quando penso a te, penso a mio figlio, e a mia moglie, che tu hai rapito.”

Don sollevò le mani. “Io non c’entravo niente. Te lo giuro. Se fosse stato per me, non avrei mai permesso che venisse fatto del male a Gunner o Becca. Sono come il mio sangue, come la mia famiglia. Ti avevo avvertito perché volevo proteggerli, Luke. L’ho scoperto dopo che era già accaduto. Mi dispiace che sia successo. Non c’è nulla nella mia lunga carriera che rimpianga di più.”

Luke scrutò gli occhi di Don, il suo linguaggio del corpo, in cerca di… qualcosa. Stava mentendo? Stava dicendo la verità? Che cosa credeva, poi, Don? Chi era quell’uomo, a cui Luke un tempo pensava di voler bene?

Luke sospirò. Avrebbe accettato l’esigua ospitalità dell’uomo. Quello gliel’avrebbe dato, e quella notte se ne sarebbe rimasto sveglio a letto a chiedersi perché mai l’avesse fatto.

Si accovacciò sulla bassa pietra.

Don sedette sul letto. Tra loro si allungò una pausa. Non c’era nulla di bello.

“Come va l’SRT?” disse alla fine Don. “Immagino che abbiano fatto direttore te, no?”

“Me l’hanno chiesto, ma io ho rifiutato. L’SRT è finito, disperso al vento. La maggior parte degli agenti è stata riassorbita dal Bureau vero e proprio. Ed Newsam è alla squadra di recupero ostaggi. Mark Swann è andato all’NSA. Io mi tengo parecchio in contatto con loro – li prendo in prestito per un’operazione di tanto in tanto.”

Luke vide un flash di qualcosa negli occhi di Don, che scomparve quasi prima di palesarsi. Il suo bambino, lo Special Response Team dell’FBI, il culmine del lavoro di una vita, era stato smantellato. Non l’aveva saputo? Luke presumeva di no.

“Trudy Wellington è scomparsa,” disse Luke.

Negli occhi di Don apparve qualcos’altro, che stavolta rimase lì. Se indugiava, voleva dire che Don voleva che lui lo vedesse. Luke non capiva se si trattasse di un’emozione, di un ricordo o di un’informazione. Era bravo a leggere la gente, ma Don era una vecchia spia. La sua mente e il suo cuore erano libri chiusi.

“Tu non ne sai niente, vero, Don?”

Don si strinse nelle spalle, offrì un mezzo sorriso. “La Trudy che conoscevo era molto intelligente. Teneva le antenne belle alte. Se devo tirare a indovinare, dico che ha sentito un brontolio distante che l’ha infastidita, e che è scappata prima che si avvicinasse.”

“Le hai parlato?”

Don non rispose.

“Don, non ha senso pensare di ostacolarmi. Posso fare una telefonata e scoprire con chi hai parlato, chi ti ha scritto e che cosa c’era nella lettera. Non hai privacy. Hai parlato con Trudy o no?”

“Sì, ci ho parlato.”

“E cosa le hai detto?” disse Luke.

“Le ho detto che la sua vita era in pericolo.”

“Sulla base di cosa?”

Don guardò il soffitto per un momento. “Luke, tu sai quel che sai, e va bene così. E poi non sai quello che non sai. Se hai dei limiti, sicuramente questo è uno. Quello che non sai in questo caso, perché non ti interessi di politica, è che c’è una guerra silenziosa in corso dietro le quinte da sei mesi. L’attentato a Mount Weather? Quella notte sono morte molte persone di alto profilo. E molte persone di basso profilo sono morte da allora. Direi almeno tante quante ne sono morte nell’attentato originale. Trudy non era coinvolta nel complotto contro Thomas Hayes, ma non tutti ci credono. C’è gente là fuori che va a caccia della retribuzione.”

“Quindi è scappata col tuo benestare?”

“Sì, penso di sì.”

“Lo sai dov’è?”

Don fece spallucce. “Non te lo direi, se lo sapessi. Un giorno, se vuole che tu sappia dove si trova, sono sicuro che sarà la prima a dirtelo.”

Luke ebbe l’impulso di chiedere se stesse bene, ma si controllò. Non avrebbe dato a Don quel tipo di potere – sarebbe stato proprio quello che il vecchio voleva. Invece, tra loro si allungò un’altra pausa. I due uomini se ne stavano seduti nello spazio minuscolo, a fissarsi negli occhi. Alla fine Don ruppe il silenzio.

“Allora per chi stai lavorando, se non per l’SRT? Ho problemi a immaginarmi Luke Stone in vacanza per molto tempo.”

Luke si strinse nelle spalle. “Immagino che tu diresti che sono un freelancer, ma ho un solo cliente. Lavoro direttamente per la presidente, nelle rare occasioni in cui mi chiama. Come ha fatto oggi, per chiedermi di venire qui a vederti.”

Don sollevò un sopracciglio. “Un freelancer? Ti pagano ancora il tuo stipendio e i benefit?”

“Mi hanno dato un aumento,” disse Luke. “Anzi, penso che mi abbiano dato il tuo vecchio stipendio.”

“Sprechi del governo,” disse Don assumendo il suo personaggio da amministratore dell’agenzia e scuotendo la testa. “Però ti si adatta bene. Non sei mai stato il tipo dal lunedì al venerdì.”

Luke non rispose. Dal suo punto di vista, riusciva a vedere ciò che offriva la finestra. Nulla – il muro di calcestruzzo di un’altra ala dell’edificio, con un frammento di cielo scuro visibile sopra.

Era un progetto insidioso. Il complesso si trovava sulle Montagne Rocciose – quando Luke quella notte era arrivato, oltre le torri di guardia e il cemento e il filo spinato, era rimasto sconvolto dalla vista degli alti picchi che circondavano il posto. L’aria era fredda e le montagne erano leggermente spruzzate della prima neve. Persino di notte si poteva dire che quel luogo era bellissimo.

I prigionieri non lo vedevano mai. Luke ci avrebbe scommesso cinque dollari che ogni cella di quella prigione aveva la stessa vista di qualunque altra – un muro vuoto.

“Allora, che cosa vuoi, Don? Susan mi ha detto che hai un’informazione che non vedi l’ora di condividere, ma solo con me. In questo momento ho molte cose di cui occuparmi nella mia vita, ma sono venuto qui perché è mio dovere. Non sono sicuro di come hai ottenuto quest’informazione, date le tue circostanze attuali…”

Don sorrise. I suoi occhi erano completamente separati da qualunque emozione la sua bocca cercasse di trasmettere. Sembravano gli occhi di un alieno, simili a quelli di una lucertola, privi di empatia, di preoccupazione, persino di interesse. Gli occhi di una cosa che potrebbe mangiarti o sfuggirti, ma senza sentire nulla nel farlo.

“Ci sono degli uomini molto intelligenti qui,” disse. “Non crederesti mai a quanto sia intricato il sistema di comunicazione tra i prigionieri. Mi piacerebbe descrivertelo – penso che ne saresti affascinato – ma non voglio neanche mettere a rischio il sistema o me stesso. Ti farò un esempio di ciò che sto dicendo, però. Hai sentito l’uomo che prima urlava?”

“Sì,” disse Luke. “Non ho capito di cosa si trattasse. Le guardie mi hanno detto che è impazzito…” La voce gli si spense.

Ma certo. L’uomo aveva detto qualcosa, se si avevano orecchie per intendere.

“Esatto,” disse Don. “Il banditore. È così che lo chiamo. Non è l’unico, e quello non è l’unico metodo. Proprio per niente.”

“Allora, che cos’hai?” disse Luke.

“C’è una trama,” disse Don, la voce che si era trasformata a poco più di un sussurro. “Come sai, molti degli uomini di qui sono affiliati alle reti terroristiche. Hanno i loro modi di comunicare. Quello che ho sentito io è che in Belgio c’è un gruppo che sta prendendo di mira le vecchie testate nucleari della Guerra fredda immagazzinate lì. Le testate sono poco seguite su una base NATO belga. La sicurezza è una sciocchezza. I terroristi, non so per certo chi, cercheranno di rubare una testata, o forse un missile, o più di uno.”

Luke ci pensò per un attimo. “A cosa servirebbe? Senza i codici nucleari le testate non sono neanche operative. Devono saperlo. È come rischiare la vita per rubare un fermacarte gigante.”

“Io presumerei che i codici li abbiano,” disse Don. “O hanno accesso ai codici stessi, o hanno scoperto un modo di generarli.”

Luke lo fissò. “Non hanno modo di lanciare una testata. Senza un sistema di consegna, non genereranno mai l’energia per l’esplosione. Qui non siamo mica su Bugs Bunny. Non si può mica prendere a martellate quelle cose.”

Don fece spallucce. “Credi quello che vuoi credere, Luke. Tutto ciò che ti sto dicendo è quello che ho sentito.”

“È tutto?” disse Luke.

“Sì.”

“Allora perché hai scelto di dirlo? Se qualcuno scopre che stai passando i segreti che senti qui… be’, immagino che comunicare non sia l’unica cosa che questi qui sanno fare.”

Adesso per il viso di Don passò la rabbia, come una breve burrasca estiva in alto mare. Tutto si fece oscuro per un momento, la tempesta apparve, poi passò. Fece un respiro profondo, apparentemente per calmarsi.

“Perché non dovrei condividere l’informazione che ho? Temo che tu mi abbia capito male, Luke. Io sono un patriota, tanto quanto te, se non di più. Rischiavo la vita per gli Stati Uniti prima ancora che tu nascessi. Ho fatto quello che ho fatto perché amo il mio paese, e non per altre ragioni. Non tutti sono d’accordo sul fatto che fosse la cosa giusta da fare, ed è per questo che sono qui dentro. Però ti prego di non mettere in questione la mia fedeltà, né il mio coraggio. Non c’è uomo in questo complesso che mi intimidisca, te incluso.”

Luke era ancora scettico. “E non vuoi niente in cambio?”

Don non disse nulla per un lungo momento. Fece un cenno alla scrivania disordinata. Poi sorrise. Non c’era allegria in quel sorriso.

“Sì che voglio qualcosa. Non è molto da chiedere.” Fece una pausa, e guardò la minuscola cella. “Non mi dispiace stare qui, Luke. Alcuni uomini impazziscono davvero – la gente illetterata. Non hanno accesso alla vita della mente. Ma io sì. A te pare che io sia chiuso a chiave dietro a muri di calcestruzzo, ma per me è quasi come essere in anno sabbatico. Correvo da quarant’anni filati, senza la possibilità di prendermi una pausa. Queste mura non mi imprigionano. Ho vissuto una vita che basta a una dozzina di uomini, ed è tutta quanta ancora quassù.”

Si fece tamburellare le dita sulla fronte.

“Sto pensando ai vecchi tempi, alle vecchie missioni. Ho cominciato a lavorare alle mie memorie. Penso che un giorno saranno una lettura affascinante.”

Si fermò. Uno sguardo distante gli entrò negli occhi. Fissò il muro, ma stava guardando qualcos’altro. “Ricordi i tempi alla Delta, quando ci hanno mandato nel Congo dopo che il signore della guerra si è incoronato principe Joseph? Quello con i soldati bambini? L’esercito del paradiso.”

Luke annuì. “Me lo ricordo. I pezzi grossi del JSOC non volevano che tu ci andassi. Pensavano…”

“Che fossi troppo vecchio. È vero. Ma sono andato lo stesso. E stiamo scesi lì di notte, io, te, chi altro? Simpson…”

“Montgomery,” disse Luke. “Un paio di altri.”

Gli occhi di Don erano molto vivi. “Giusto. Il pilota ha combinato un macello e ci ha buttati nel fiume, in uno degli affluenti. Siamo tutti precipitati in acqua con addosso diciotto chili di zaino.”

“Non mi piace pensarci,” disse Luke. “Ho sparato a quel rinoceronte.”

Don lo indicò. “Giusto. Me n’ero dimenticato. Il rinoceronte ci ha caricati. Riesco ancora a vederlo sotto la luce della luna. Però ci siamo arrampicati fuori, zuppi, e abbiamo squarciato la gola di quel bastardo sanguinario – gli abbiamo decapitato tutta la squadra con un solo rapido e decisivo colpo. E non abbiamo torto un capello a nessuno dei bambini. Sono stato orgoglioso dei miei uomini, quella notte. Sono stato orgoglioso di essere americano.”

Luke annuì di nuovo, quasi sorrise. “È stato molto tempo fa.”

“Per me è stato ieri,” disse Don. “Ho appena cominciato a scriverlo. Domani aggiungo il rinoceronte.”

Luke non disse nulla. Era stata una missione, una delle tante. L’autobiografia di Don sarebbe stata un libro lungo.

“E qual è il punto,” disse Don. “Qui non è male. Il cibo non è neanche cattivo – be’, non è cattivo come ci si potrebbe aspettare. Ho i miei ricordi. Ho una vita. Ho messo su una routine di esercizi fisici che per la maggior parte posso fare qui, nella cella. Squat, pushup, chin up, persino posizioni yoga e tai chi. Ho una sequenza, e la eseguo per ore ogni giorno, cambio velocità, la inverto. Ha anche una componente mentale. Credo che darebbe il via a dei patiti del fitness, se la gente la conoscesse. Vorrei registrarla – Prison Power. Mi ha messo in una forma migliore di quando ero fuori nel mondo, libero di fare tutto ciò che mi pareva.”

“Okay, Don,” disse Luke. “Questa è la tua villa per la pensione. Carino.”

Don sollevò una mano. “Voglio vivere, è questo che ti sto dicendo. Mi faranno l’iniezione. Lo sai tu e lo so io. Non voglio l’iniezione. Senti, sono realistico. Lo so che non otterrò la grazia, non nell’attuale ambiente politico. Ma se l’informazione che ti ho dato darà risultati, voglio che la presidente commuti la mia in una sentenza a vita senza la possibilità della condizionale.”

Luke era irritato dall’incontro. Don Morris se ne stava seduto su quello che consisteva in un bagno di pietra, a scrivere le sue memorie e a sviluppare ciò che sperava sarebbe diventata una passeggera moda nel fitness. Patetico. Luke una volta vedeva Don come un grande americano.

La valvola di controllo del sangue di Luke passò da caldo a incandescente. Aveva i suoi problemi, e la sua vita, ma ovviamente a Don non importava tanto. Don era diventato il centro del suo personale universo, lì dentro.

“Perché lo fai, Don?” Indicò la cella. “Cioè…” Scosse la testa. “Guarda questo posto.”

Don non esitò. “L’ho fatto per salvare il mio paese, e lo rifarei. Thomas Hayes era il presidente peggiore dai tempi di Herbert Hoover. Su questo non ho dubbi. Ci stava portando sottoterra. Non aveva idea di come proiettare il potere dell’America nel mondo, e non aveva la propensione a farlo. Pensava che il mondo si prendesse cura di sé. Si sbagliava. Il mondo NON si prende cura di sé. Ci sono forze oscure allineate contro di noi – vanno fuori controllo se per un secondo non le guardiamo. Si fanno posto nel vuoto di potere che lasciamo loro. Vittimizzano il debole e l’inerme. I nostri amici perdono la fede. Io non potevo più restare in attesa e lasciare che accadessero queste cose.”

“E che cosa hai ottenuto?” disse Luke. “Il paese lo sta gestendo la vicepresidente di Hayes.”

Don annuì. “Giusto. E lei ha un paio di cojones più grossi di lui. La gente a volte ti sorprende. Non sono scontento di avere Susan Hopkins come presidente.”

“Ottimo,” disse Luke. “Glielo dirò. Sono sicuro che sarà deliziata di sentirlo. Don Morris non è scontento della tua presidenza.” Si alzò. Era pronto ad andare. Quel piccolo incontro avrebbe dato molto su cui riflettere.

Don saltò giù dal letto. Mise di nuovo la mano sulla spalla di Luke. Per un attimo Luke pensò che Don avrebbe buttato fuori qualcosa di emotivo, qualcosa che Luke avrebbe trovato imbarazzante, come, “Non andare!”

Ma Don non lo fece.

“Non ignorare quello che ti ho detto,” disse. “Se è vero, abbiamo problemi. Anche una sola arma nucleare nelle mani dei terroristi sarebbe la cosa peggiore a cui si può pensare. Non esiteranno a usarla. Un lancio di successo e il genio è fuori dalla bottiglia. Chi se la becca? Israele? E chi colpiscono quelli con le loro testate? L’Iran? Come si mette il freno a questa cosa? Si chiede un time out? Ne dubito. E se veniamo colpiti noi? O i russi? O entrambi? E se viene innescata una serie automatica di rappresaglie? Paura. Confusione. Fiducia zero. Uomini nei silos, le dita che si agitano, a indugiare sopra al pulsante. Ci sono molte armi nucleari ancora sulla Terra, Luke. Una volta che cominciano i lanci, non c’è una buona ragione per fermarli.”

Contro Ogni Nemico

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