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CAPITOLO UNO

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16 ottobre

5:25 ora legale delle Montagne Rocciose

Marble Canyon

Parco nazionale del Grand Canyon, Arizona


“Arrivano da tutte le parti!”

Luke stava cercando di sopravvivere fino alla prima luce del giorno, ma il sole si rifiutava di sorgere. Faceva freddo, e non aveva addosso la maglietta. Se l’era strappata via nella calura del combattimento. Non gli rimanevano più munizioni.

Coperti dal turbante, i barbuti combattenti talebani si riversavano giù dai muri dell’avamposto. Attorno a lui, uomini urlavano.

Luke gettò il fucile vuoto ed estrasse la pistola. Sparò giù nella trincea dalla sua posizione – era invasa da nemici. Una fila di nemici correva nella sua direzione. Altri arrivavano in scivolata, cadendo, scavalcando il muro.

Dov’erano i suoi? C’era ancora qualcuno di vivo?

Uccise l’uomo più vicino con un colpo in viso. La testa esplose come un pomodoro. Afferrò l’uomo dalla tunica e lo sollevò come scudo. L’uomo senza testa era leggero, e a Luke saliva la furia con l’adrenalina – era come se il cadavere fosse un vestito vuoto.

Uccise quattro uomini con quattro spari. Continuò a fare fuoco.

Poi finì i proiettili. Di nuovo.

Un talebano caricò con un AK-47, la baionetta attaccata. Luke spinse il cadavere verso di lui, poi gettò l’arma come un tomahawk. Rimbalzò contro la testa dell’uomo, distraendolo per un secondo. Luke quel tempo lo usò. Avanzò all’attacco, scivolando lungo il margine della baionetta. Immerse due dita in profondità negli occhi dell’uomo, e tirò.

L’uomo urlò. Le mani gli andarono alla faccia. Adesso Luke aveva l’AK. Baionettò il nemico al petto, due, tre, quattro volte. Spinse in profondità.

L’uomo esalò l’ultimo respiro proprio in faccia a Luke.

Le mani di Luke vagarono per il corpo dell’uomo. Il cadavere fresco aveva una granata nella tasca sul petto. Luke la prese, la innescò e la gettò oltre la fortificazione verso le orde in arrivo.

Colpì il ponte.

BUUUM.

L’esplosione arrivò giusto lì, spruzzando terra e roccia e sangue e ossa. Il muro di sacchetti di sabbia per metà collassò su di lui.

Luke strisciò fino a mettersi in piedi, ora sordo, le orecchie che fischiavano. Controllò l’AK. Vuoto. Ma aveva ancora la baionetta.

“Venite, bastardi!” urlò. “Venite!”

Dal muro arrivarono altri uomini, e lui li infilzò con foga. Li lacerò e strappò a mani nude. Sparò ai nemici con le loro stesse armi.

A un certo punto sorse il sole, ma non portava calore. Il combattimento in qualche modo era terminato – non riusciva a ricordare quando, o come, si fosse concluso. Il terreno era accidentato, e duro. C’erano corpi morti ovunque. Scheletrici uomini con la barba giacevano dappertutto, con gli occhi spalancati e fissi.

Nelle vicinanze, ne scorse uno strisciare giù per la collina, trascinandosi dietro una riga di sangue come la scia di melma che segue una lumaca. Doveva assolutamente uscire di lì e uccidere quell’uomo, ma non voleva rischiare di ritrovarsi all’aperto.

Luke aveva il petto rosso. Era pregno del sangue dell’uomo morto. Gli tremava il corpo dalla fame, e dalla stanchezza. Fissò le montagne circostanti, appena resesi visibili.

Quanti altri ce n’erano là fuori? Tra quanto sarebbero arrivati?

Martinez era disteso sulla schiena lì vicino, basso nella trincea. Stava piangendo. Non riusciva a muovere le gambe. Ne aveva abbastanza. Voleva morire. “Stone,” disse. “Ehi, Stone. Ehi! Uccidimi, cavolo. Uccidimi. Ehi, Stone! Ascoltami!”

Luke era intorpidito. Non aveva pensieri sulle gambe di Martinez, né sul futuro di Martinez. Era solo stanco di sentire i lamenti, di Martinez.

“Ti ucciderei volentieri, Martinez, anche solo perché frigni così. Ma sono senza munizioni. Quindi sii uomo… okay?”

Nelle vicinanze, Murphy sedeva su una roccia sporgente, a fissare nel vuoto. Non cercava neanche di coprirsi.

“Murph! Scendi di lì. Vuoi che un cecchino ti ficchi un proiettile in testa?”

Murphy si voltò e guardò Luke. I suoi occhi… non c’erano più. Scosse la testa. Gli sfuggì un sospiro. Sembrò quasi una risata. Restò proprio dov’era.

Se fossero arrivati altri talebani, erano fregati. A nessuno di quei ragazzi era rimasta altra forza per combattere, e l’unica arma che aveva ancora Stone era la baionetta curva che teneva in mano. Per un attimo pensò pigramente di setacciare alcuni dei morti in cerca di armi. Non sapeva se aveva ancora la forza di stare in piedi. Magari avrebbe dovuto strisciare.

Mentre guardava, lontano nel cielo comparve una fila di insetti neri. Capì che cosa fossero in un istante. Elicotteri. Elicotteri militari degli Stati Uniti, probabilmente dei Black Hawk. Stava arrivando la cavalleria. Luke non la sentiva come una cosa buona, né cattiva. Non sentiva niente. Il vuoto era un rischio occupazionale. Non sentiva niente di niente…

Luke fu svegliato dallo squillo del telefono. Rimase steso lì e sbatté le palpebre.

Cercò di orientarsi. Si trovava in una tenda, si accorse, in fondo al Grand Canyon.

Si era appena prima dell’alba, e si trovava nella tenda che condivideva con suo figlio, Gunner. Fissò la notte buia, ascoltando i rumori del profondo respiro di suo figlio lì vicino.

Il telefono continuava a suonare.

Gli vibrava contro la gamba, e faceva il fastidioso ronzio dei telefonini impostati sulla vibrazione. Non voleva svegliare Gunner, ma quella probabilmente era una telefonata a cui doveva rispondere. Pochissime persone avevano quel numero, e si trattava di persone che non avrebbero chiamato solo per fare quattro chiacchiere.

Guardò l’orologio: le cinque e trenta del mattino.

Luke abbassò la zip della tenda, scivolò fuori, poi la risollevò. Nelle vicinanze, nella prima pallida luce della giornata che si raccoglieva, Luke vide le altre due tende – in una Ed Newsam, nell’altra Mark Swann. I residui del fuoco della sera precedente si trovavano nel cerchio di pietre al centro del campo – alcune braci brillavano ancora di rosso.

L’aria era fredda e frizzante – Luke indossava solo i boxer e una t-shirt. Gli venne la pelle d’oca sulle braccia e sulle gambe. Ficcò i piedi in un paio di sandali e andò verso il fiume, oltre al punto in cui era legato il gommone. Voleva allontanarsi dal campo abbastanza da non svegliare nessuno.

Si mise a sedere su una grossa roccia e osservò le pareti che si innalzavano del canyon. Appena sotto di lui, anche se riusciva a vederla a malapena, c’era il rumore del gocciolio dell’acqua. A seguire il corso del fiume, forse mezzo miglio più in giù, riusciva a udire il trambusto della successiva serie di rapide.

Guardò il telefono. Conosceva il numero a memoria. Era Becca. Probabilmente l’ultima persona di cui voleva avere notizie in quel momento. Aveva tenuto Gunner per cinque giorni, il che era assolutamente legale stando al loro accordo. Sì, Gunner in quel periodo di tempo non era andato a scuola, ma il ragazzino era una specie di genio – si parlava di fargli saltare delle classi, non che stesse rimanendo indietro.

Secondo Luke, portarlo fuori nella natura selvaggia, a godersela e a mettersi alla prova sia fisicamente che mentalmente, gli faceva bene – e probabilmente era più importante di qualsiasi cosa potesse combinare a casa. I ragazzini di oggi trascorrevano molto tempo a fissare degli schermi. Ci stava anche – quegli schermi erano strumenti potenti – ma era il caso di limitarli a ciò. Di non permettere che prendessero il posto della famiglia, della fisicità, del divertimento o dell’immaginazione. Di non fingere che l’avventura vera, o persino l’esperienza vera, avessero luogo all’interno di un computer.

La richiamò, la mente in allerta, però aperta. Qualsiasi gioco stesse cercando di fare, lui sarebbe rimasto calmo e ragionevole quanto poteva.

Il telefono squillò una volta.

“Luke?”

“Ciao, Becca,” disse, la voce bassa e amichevole, come se fosse la cosa più normale del mondo richiamare qualcuno prima dell’alba. “Come stai?”

“Sto bene,” disse. I discorsi che faceva con lui erano sbrigativi, tesi. La vita con lei era finita – Luke questo lo riconosceva. Ma la vita con suo figlio era appena cominciata, ed era saldo nella convinzione che avrebbe superato qualsiasi ostacolo Becca avesse potuto mettergli tra i piedi.

Aspettò.

“Cosa sta facendo Gunner?” disse.

“Dorme. Qui è piuttosto presto. Non è ancora sorto il sole, quasi.”

“Vero,” disse. “Mi ero dimenticata del fuso orario.”

“Non ti preoccupare,” disse. “Comunque ero sveglio.” Fece una pausa di qualche secondo. A est stava apparendo il primo barlume di sole vero, un raggio di luce che faceva capolino dall’orlo del canyon e giocava sulla parete della scogliera a ovest, colorandosi di rosa e arancione.

“Allora, che posso fare per te?”

Non esitò. “Mi serve che Gunner torni a casa subito.”

“Becca…”

“Non metterti a litigare su questo, Luke. Lo sai che il giudice non farà una piega. Un agente delle operazioni speciali con una diagnosi da disturbo da stress post-traumatico e un passato di violenze vuole portare il giovanissimo figlio fuori per avventure che, tra l’altro, gli fanno perdere intere settimane di scuola. Non riesco neanche a credere di aver accettato la cosa. Ero così distratta che…”

Lui la interruppe. “Becca, siamo nel Grand Canyon. Stiamo facendo rafting. Ti rendi conto della cosa, vero? A meno che qui non atterri un elicottero per venirci a prendere, probabilmente siamo a tre giorni dal South Rim. Poi una notte lì, e un’intera giornata di macchina fino a Phoenix. Il che mi pare giusto, perché a quel che ricordo i biglietti aerei sono per il ventidue. E, tra l’altro, questa diagnosi da stress post-traumatico non è vera. Non c’è mai stata. Nessun dottore l’ha mai neanche insinuato. È solo una cosa che ti sei costruita tu nella tua…”

“Luke, ho il cancro.”

Questo lo bloccò. Ultimamente Becca era stata più agitata di quanto l’avesse mai vista. Ovviamente se n’era accorto, ma per lo più aveva ignorato la cosa. Era tipico di lei, e della quantità di pressione che si addossava. Lei era un caso da stress di classe A. Ma questo era diverso.

A Luke si inumidirono gli occhi, e gli si formò un grosso nodo in gola. Poteva essere vero? Qualsiasi cosa fosse accaduta tra loro, quella era la donna di cui si era innamorato. Quella era la donna che aveva portato in grembo suo figlio. Allo stesso tempo, l’aveva amata più di chiunque altro al mondo, sicuramente più di quanto avesse amato se stesso.

“Gesù, Becca. Mi dispiace tanto. Quando è successo?”

“Sono stata male tutta l’estate. Ho perso peso. All’inizio non era chissà che, ma poi è diventata una quantità di peso incredibile. Pensavo che fosse tutta ansia, tutto ciò che è accaduto nel corso dell’ultimo anno – il rapimento, l’incidente alla metro, tutto il tempo in cui sei stato via. Ma le cose si sono calmate molto, e il malessere non se ne andava. Sono andata a fare qualche test un paio di settimane fa. Ho avuto la nausea. Non volevo dirtelo finché non ne avessi saputo di più. Adesso ne so di più. Ieri ho visto il mio medico, e mi ha detto tutto.”

“Cos’è?” disse, anche se non era sicuro di voler sentire la risposta.

“È al pancreas,” disse, forse sganciando la peggiore bomba che lui potesse immaginare. “Quarto stadio. Luke, è già metastatizzato. Ce l’ho nel colon, nel cervello. Ce l’ho nelle ossa…” La voce le svanì, e lui la udì singhiozzare a duemila miglia di distanza.

“Ho pianto tutta la notte,” disse con voce rotta. “Pare che non riesca a smettere.”

Per quanto stesse male, Luke scoprì che i suoi pensieri improvvisamente non erano con lei – erano con Gunner. “Quanto, ancora?” disse. “Ti hanno dato un arco temporale?”

“Tre mesi,” disse Becca. “Forse sei. La dottoressa mi ha detto di non farci affidamento. Molta gente muore molto velocemente. A volte c’è un miracolo e il paziente continua a vivere, indefinitamente. In ogni caso, mi ha detto di sistemare le mie cose.”

Fece una pausa. “Luke, ho tanta paura.”

Annuì. “Lo so. Saremo lì il prima possibile. A Gunner non lo dico.”

“Bene. Non voglio che lo faccia tu. Possiamo dirglielo insieme.”

“Okay,” disse Luke. “A presto. Mi dispiace davvero.”

Riappendere fu strano. Se solo non avessero litigato per tutti quei mesi. Se solo lei non gli fosse stata così ostile. Se quelle cose non fossero accadute, forse sarebbe riuscito a trovare il modo di confortarla, anche da così lontano. Si era indurito nei suoi confronti, e non sapeva se gli fosse rimasta della tenerezza.

Rimase seduto sulla roccia per molti minuti. La luce cominciò a riempire il cielo. Non si lasciò andare ai bei ricordi che aveva con lei. Non rivisse tutte le discussioni che avevano avuto in quell’ultimo anno, né a quanto feroce e trincerata nelle proprie posizioni fosse stata. Aveva la mente vuota. Meglio così. Doveva andarsene da quel canyon, e doveva informare Ed e Swann che lui e Gunner se ne stavano andando.

Lasciò la roccia e si avviò verso il campo. Ed era sveglio e accucciato davanti al fuoco. Lo aveva riacceso e aveva messo su del caffè. Era senza maglietta, e non indossava nient’altro che un paio di succinti boxer rossi e le ciabatte. Il suo corpo era uno spesso incresparsi di muscoli e di filamentose vene, a malapena un’oncia di grasso in tutto – sembrava un lottatore di arti marziali sul punto di entrare nella gabbia. Osservò Luke avvicinarsi, poi gli indicò l’ovest.

Laggiù, il cielo era ancora blu cobalto, la notte in ritiro, scacciata dalla luce che veniva da oriente. Sulla cima, le torreggianti pareti del canyon adesso erano accese da un frammento di sole che lanciava le sue striature in fiamme di rosso, rosa, giallo e arancio.

“È bello, cavolo,” disse Ed.

“Ed,” disse Luke. “Ho brutte notizie.”

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