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CAPITOLO TRE

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19 ottobre

13:15 ora legale orientale

Contea di Fairfax, Virginia – sobborghi di Washington, DC

Luke aveva affittato un elicottero per andarsene dal canyon insieme a Gunner. Era riuscito a rimediare un nuovo volo, e aveva guidato come un pazzo per arrivare a Phoenix in tempo per prendere l’aereo. Per tutto il tempo aveva aggirato le domande di Gunner in merito alla loro brusca partenza.

“Tua mamma ti vuole a casa, Mostriciattolo. Le manchi, e non vuole che salti così tanti giorni di scuola.”

Sul sedile del passeggero, con l’autostrada che sfrecciava fuori dal finestrino, Luke vedeva le antenne di Gunner contorcersi come impazzite. Era un ragazzino intelligente. Stava già cominciando a capire quando le persone mentivano. Luke odiava – odiava! – essere tra i primi a farsi beccare da Gunner.

“Pensavo che avessi sistemato tutto con la mamma prima che partissimo.”

“E l’ho fatto,” disse Luke con un’alzata di spalle. “Ma le cose sono cambiate. Senti, ne parliamo quando arriviamo, okay?”

“Okay, papà.”

Ma Luke lo capiva che niente era okay. Ben presto sarebbe stato molto meno okay.

Adesso, due giorni dopo, eccolo seduto sul grande e sontuoso sofà del soggiorno della sua ex casa. Gunner era a scuola.

Luke guardò la stanza. Una volta lui e Becca avevano avuto una vita fantastica, lì. Era una casa bellissima, moderna, come uscita da una rivista di architettura. Il soggiorno, con le sue finestre che andavano dal pavimento al soffitto, era come una scatola di vetro. Si immaginò sotto Natale – seduti in quella sconvolgente stanza infossata, l’albero nell’angolo, il caminetto acceso, la neve che cadeva tutt’intorno, come se fossero fuori, quando invece erano dentro, caldi e comodi.

Dio, che bello. Ma quei giorni se n’erano andati.

Becca si agitava frenetica, puliva, spolverava, metteva via varie cose. A un certo punto della conversazione, aveva preso l’aspirapolvere dall’armadio e l’aveva fatto partire. Si trovava in un pessimo stato psicologico. Lui aveva cercato di abbracciarla appena arrivato, ma lei si era fatta di legno, le braccia sui fianchi.

“Ti avevo superato, lo sapevi?” disse adesso. “Ero pronta ad andare avanti con la mia vita. Sono anche uscita per qualche caffè con qualcuno mentre Gunner era con te, quest’estate. E perché no? Sono ancora giovane, giusto?”

Scosse la testa amaramente. Luke non disse nulla. Che cosa c’era da dire?

“Vuoi sapere una cosa su di te, Luke? Il primo con cui sono uscita era un insegnante in vacanza, un tipo carino, e mi ha chiesto che lavoro fai. Gli ho detto la verità. Oh, il mio ex marito è una specie di assassino segreto del governo. È stato nella Delta Force. E sai cos’è successo dopo? Te lo dico io. Non è successo niente. Quella è stata l’ultima volta che l’ho sentito. Ha sentito Delta Force ed è scomparso. Tu spaventi la gente, Luke. È questo che voglio dire.”

Luke si strinse nelle spalle. “Perché non dici che faccio un altro lavoro? Non è che io abbia intenzione di…”

“L’ho fatto. Una volta capito, ho cominciato a dire alla gente che fai l’avvocato.”

Per un attimo Luke si chiese che cosa significasse “gente”. Era uscita con qualcuno ogni giorno? Con due al giorno? Scosse la testa. Non erano più affari suoi, fin quando fosse stata al sicuro. E anche così… stava morendo. Non sarebbe più stata al sicuro, e non c’era nulla che lui potesse fare.

Tra loro passò una lunga pausa.

“Vuoi una seconda opinione?”

Becca annuì. Sembrava intorpidita, in stato di shock, come i sopravvissuti a disastri e atrocità. Luke l’aveva visto moltissime volte. La cosa fantastica era che sembrava anche essere assolutamente in salute. Un po’ più magra del solito, ma nessuno avrebbe mai indovinato che aveva il cancro. Probabilmente avrebbero pensato che si fosse messa a dieta.

È la chemio a farli sembrare malati. La metà delle volte, è anche ciò che li uccide.

“Ho già avuto una seconda opinione da un mio vecchio collega. All’inizio della prossima settimana ne avrò una terza. Se è congruente con quello che ho già sentito, allora entro giovedì comincio le procedure.”

“La chirurgia è un’opzione?” disse Luke.

Scosse la testa. “È troppo tardi. Il cancro è ovunque…” La voce le morì. “Ovunque. La chemioterapia è l’unica opzione. Se esaurisco i farmaci approvati della chemio, allora forse test clinici, se sono ancora viva.”

Ricominciò a piangere. Era in piedi in mezzo al soggiorno, miserabile, la faccia nascosta nelle mani, il corpo scosso dai singhiozzi. A Luke sembrava una ragazzina. Lo colpiva vederla ridotta così. Era stato circondato dalla morte molto in vita sua, ne aveva vista troppa, ma quello? Non poteva essere vero. Si alzò, e poi andò da lei. L’avrebbe confortata, se ci fosse riuscito.

Lei lo spinse via, con violenza, come una bambina che fa a pugni al parchetto.

“Non toccarmi! Stammi lontano!” Lo indicò, la faccia una furente maschera di rabbia. “Sei tu!” urlò. “Tu fai ammalare le persone, non te ne accorgi? Rubi tutto l’ossigeno della stanza. Tu e le tue schifezze da supereroe.”

Fece ondeggiare la testa da un lato all’altro, prendendolo in giro. “Oh, scusami, tesoro,” disse con una bassa e caricaturale voce maschile. “Devo scappare a salvare il mondo. Non si sa se da qui a tre giorni sarò vivo o morto. Cresci il bambino per me, okay? Sto solo facendo il mio dovere patriottico.”

Ribolliva di rabbia. La voce le tornò normale. “Fai così perché è divertente, Luke. Fai così perché sei irresponsabile. Te la godi. Per te, conseguenze non ci sono. Non ti interessa se vivi o muori, e tutti gli altri devono avere a che fare con le ricadute e lo stress.”

Scoppiò in lacrime. “Con te ho finito. Finito.” Agitò una mano nella sua direzione. “Sono sicura che l’uscita ti ricordi dov’è. Quindi vattene. Okay? Va’ via. Lasciami morire in pace.”

Con ciò, lasciò la stanza. Trascorse un momento di silenzio, e poi Luke la udì singhiozzare nella camera padronale in fondo al corridoio.

Rimase lì in piedi per un lungo istante, non sapendo che fare. Gunner sarebbe stato a casa in un paio di ore. Non era una buona idea lasciarlo lì con Becca, ma non sapeva se aveva una gran scelta. Aveva lei la custodia. Lui aveva il diritto di visita. Se in quel momento si fosse portato via Gunner, senza il permesso di lei, tecnicamente sarebbe stato rapimento.

Sospirò. Quando mai la mancanza dei diritti legali di una situazione l’aveva fermato?

Luke era smarrito. Sentiva l’energia abbandonarlo. E ancora non avevano spiegato nulla al bambino. Forse avrebbe dovuto chiamare i genitori di Becca e parlarci. La verità era che Becca aveva gestito quasi tutti i dettagli domestici durante la loro relazione. Forse aveva ragione su di lui – lui era più a suo agio fuori nel mondo, a giocare a guardie e ladri con persone molto pericolose. C’erano delle persone che si preoccupavano per lui, lo sapeva, ma non se ne curava. Che razza di persona viveva così? Forse una persona che non era mai cresciuta.

Sul tavolo di vetro vicino al sofà, il suo telefono cominciò a squillare. Lo guardò. Come spesso accadeva, sembrava quasi che fosse vivo, una vipera pericolosa da toccare.

Lo raccolse. “Stone.”

In linea c’era una voce maschile.

“Resti in attesa per parlare con la presidente degli Stati Uniti.”

Alzò lo sguardo, e Becca adesso stazionava sulla soglia. Apparentemente aveva sentito il telefono suonare. Era tornata di nuovo, pronta ad ascoltare la conversazione per confermare tutti i peggiori sentimenti che provava nei suoi confronti. Per un secondo giusto, Luke si sentì pieno di livore nei suoi confronti – Becca aveva intenzione di aver ragione su di lui, a prescindere. Fin dentro alla tomba, aveva intenzione di coglierlo in flagrante.

Adesso giunse la voce di Susan Hopkins.

“Luke, ci sei?”

“Salve, Susan.”

“Da quanto tempo, agente Stone. Come stai?”

“Sto bene,” disse. “Tu?”

“Bene,” disse, ma il tono della voce diceva qualcos’altro. “Tutto okay. Senti, mi serve il tuo aiuto.”

“Susan…” cominciò lui.

“È una cosa di una giornata, ma è molto importante. Mi serve qualcuno che possa chiuderla rapidamente, e con assoluta discrezione.”

“Di cosa si tratta?”

“Non posso parlarne al telefono,” disse. “Puoi venire?”

Gli crollarono le spalle. Accidenti.

“Va bene.”

“Tra quanto puoi arrivare?”

Guardò l’orologio. Gunner sarebbe stato a casa in un’ora e mezza. Se voleva trascorrere del tempo con suo figlio, la riunione avrebbe dovuto aspettare. Se andava alla riunione…

Sospirò.

“Arrivo il prima possibile.”

“Bene. Mi assicurerò che ti portino dritto da me.”

Luke riappese. Guardò Becca. C’era qualcosa di crudele e di derisorio nei suoi occhi. C’era un demone lì, che danzava su un lago di fuoco.

“Dove stai andando, Luke?”

“Lo sai dove sto andando.”

“Oh, non rimarrai qui per passare un po’ di tempo con tuo figlio? Non farai il buon padre? Che sorpresa. Cavolo, avrei pensato…”

“Becca, smettila. Okay? Mi dispiace che tu…”

“Perderai la custodia di Gunner, Luke. Parti di continuo in missione, no? Be’, indovina un po’. Ho intenzione di fare di te la mia missione. Quel ragazzino non lo vedrai neanche. Ci lavorerò col mio ultimo respiro. Lo cresceranno i miei, e tu non avrai accesso a lui. Lo sai perché?”

Luke puntò alla porta.

“Addio, Becca. Buona giornata.”

“Te lo dico io il perché, Luke. Perché i miei genitori sono ricchi! Adorano Gunner. E tu a loro non piaci. Pensi di poter battere i miei in una battaglia legale, Luke? Io credo di no.”

Era per metà fuori, ma si fermò e si voltò.

“È questo che vuoi fare del tempo che ti rimane?” disse. “È questo che vuoi essere?”

Lei lo fissò.

“Sì.”

Luke scosse la testa.

Non la riconosceva più, se mai l’aveva conosciuta.

E con ciò, se ne andò.

Contro Ogni Nemico

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