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IV.

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Pochi giorni prima di dar gli esami per esser promossi uffiziali ci venne concessa la libertà di studiare dove si voleva. Eravamo dugento nel secondo corso, e ci sparpagliammo tutti per il palazzo, a cinque, a sei insieme, come ci univa la simpatia, e cominciammo a sgobbare disperatamente, ogni gruppo nel suo stanzino, giorno e notte, non ismettendo che per parlare dei nostri esami e del nostro avvenire.

Quanta allegrezza in quei nostri discorsi, e che ridenti previsioni! Dopo due anni di prigionìa, tutt'a un tratto, la libertà, le spalline e il ritorno in famiglia. Ciascuno di noi, oltre la soddisfazione, che era comune, di esser promosso uffiziale, n'aveva una sua particolare. Per uno, era la soddisfazione di levare un carico alla famiglia che viveva a stecchetto per mantener lui nel collegio, e di poter dire di lì a pochi giorni: — Ho diciannove anni, e non ho più bisogno di nessuno. — Per un altro, era il piacere di entrare un giorno, vestito in grande uniforme, pestando i piedi e strascicando la sciabola, in una casa silenziosa e tranquilla, dove l'aspettava un vecchio zio generoso che lo aveva sempre amato e protetto. Per un terzo, era la gioia di poter salire, col brevetto in tasca, una scala ben nota, e picchiare imperiosamente a una porta dietro la quale, pochi momenti dopo, avrebbe sentito una voce di fanciulla gridare: — E lui! — una cugina, forse, da cui s'era accomiatato due anni prima, in presenza dei parenti, confortato da quelle solite parole: — Va, studia, fatti uomo, e poi si vedrà. — Ci pareva a tutti di vederci intorno dei bambini che ci toccavano la sciabola, delle ragazze che ci facevano dei cenni, dei vecchi che ci mettevano una mano sulla spalla, una madre che ci diceva: — Come stai bene! — e avevamo un gran da fare per liberarci da tutta questa gente e rimetterci a studiare di proposito, e dicevamo fra noi stessi: — Sì, sì, verremo; ma per ora lasciateci in pace! —

Poi, ciascuno secondo la sua indole, le sue abitudini e i suoi disegni, ci dicevamo i reggimenti, le provincie, le città, in cui avremmo preferito d'esser mandati. V'era chi desiderava lo strepito e l'allegria dei grandi carnovali di Milano, e non sognava che teatri e balli e rumorose cene di amici. V'era chi sognava un villaggio ameno della Toscana, sulla cima d'una collina, dove poter godere una bella e quieta primavera, coi suoi trenta soldati, raccogliendo proverbi e stornelli dalle contadine dei dintorni. Altri avrebbe voluto esser mandato in un forte solitario delle Alpi, fra le rupi e i burroni, per potervi ripigliare i suoi studii con raccoglimento profondo. Uno prediligeva la vita avventurosa nelle foreste delle Calabrie, un altro lo spettacolo d'una grande e operosa città di mare, un terzo un'isoletta del mar Tirreno. Ce la ricorrevamo e spartivamo tutta, questa Italia, un pezzo per uno, cento volte al giorno, come avremmo fatto d'un nostro giardino; e ognuno di noi raccontava agli altri le meraviglie del suo cantuccio, e trovavamo che eran tutti belli e cari ad un modo. E poi, la guerra! Si sarebbe ben dovuta fare una volta! Bastava il proferir questa parola per buttare i libri in un canto e cominciare a dire e a dire, alzando gradatamente la voce, ed accendendoci in viso. Per noi la guerra era come una visione sovrumana, in cui la mente si perdeva con una specie di ebbrezza fantastica; era un lontano orizzonte color di rosa, sul quale si disegnavano i profili neri di montagne gigantesche; e su pei fianchi delle montagne salivano con impeto schiere interminabili colle bandiere spiegate, al suono di musiche allegre; e fra le migliaia degli assalitori, sui punti più culminanti, spiccavano le nostre figure nette e distinte, lungo tratto innanzi a tutti, colla sciabola brandita in alto; e sulle chine opposte un precipitare spaventevole di soldati, di cavalli, di cannoni, verso un abisso ignoto, tra le tenebre. Una medaglia al valor militare! Ma chi non l'avrebbe avuta? Perdere la battaglia! Ma gl'taliani potevan perdere? Morire! Ma che c'importava di morire? E si poteva poi morire, noi, a diciannove anni! Chi sa che strani e meravigliosi casi ci aspettavano! Chi sa che cosa avremmo veduto! Una spedizione lontana, forse; una guerra in Oriente; non era mica morta la questione di Oriente; chi sa! E si spaziava coll'immaginazione per mari e monti, e si vedevano grandi apprestamenti d'eserciti e di flotte, e si ardeva d'impazienza, e si diceva in cuor nostro: Oh! aspettate, lasciateci dar l'esame, pochi giorni ancora, vogliamo venire anche noi! —

E finalmente si diedero gli esami, fummo promossi, e una bella mattina del mese di luglio ci apersero le porte del Palazzo ducale, e ci dissero: — Al vostro destino! — e noi, gettando tutti insieme un altissimo grido, ci slanciammo fuori, e ci sparpagliammo, come uno stormo di uccelli, per tutte le parti d'Italia.

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