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VI.

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Il commendatore barone Amedeo Venosti Flavi, zio materno della Teresa Valdengo, console di un insignificante Staterello la cui rappresentanza senza recargli il minimo incomodo gli permetteva di avere uno stemma sulla porta di casa e d'indossare un'uniforme nelle cerimonie ufficiali, era un uomo di sessant'anni passati, alto, piuttosto corpulento, coi baffi e i capelli tinti e coi denti posticci. A malgrado di ciò, per la sua età, era un bell'uomo, e sapeva d'esser tale, e aveva ancora le sue pretese galanti. D'una vanità morbosa, pareggiata solo dalla pochezza dell'ingegno e dall'inettitudine a ogni applicazione continuata, il commendatore Venosti Flavi non era felice che quando poteva appiccicarsi ai panni di qualche pezzo grosso, di quelli che figurano negli almanacchi della nobiltà, nel Gotha sopratutto… Oh, il Gotha era il suo libro di devozione; ne comperava ogni anno un paio di copie, una delle quali teneva nel suo salotto, l'altra sul comodino accanto al suo letto, per sfogliarlo nelle ore d'insonnia. E poi, chi sa? per mezzo di quelle pagine trasudanti sangue blù si sarebbe forse operata una trasfusione benefica nelle sue vene. Giacchè, pur troppo, in quanto a lui non era mica di sangue purissimo, e c'era voluto il fine ingegno del suo intimo amico cavalier Santi, membro della Consulta araldica, grande restauratore di nobiltà avariate, per imbastirgli una baronìa facendogli aggiungere al borghesissimo cognome paterno quello della madre che nasceva d'una vecchia famiglia trentina. Comunque sia, tra pel Consolato, tra perchè parlava discretamente il tedesco, egli aveva la soddisfazione di conoscere parecchi di quegli illustri personaggi dell'almanacco, a cui, nelle loro visite a Venezia, faceva da cicerone, un po' meno bene di quello che non faccia un mediocre servitore di piazza. Spesso gli alti uffici prestati gli valevano una decorazione, ed egli ne aveva racimolate quindici che gli scintillavano sul petto nelle occasioni solenni, e gli davano l'apparenza d'un Dulcamara alla fiera.

La Teresa Valdengo e lo zio commendatore erano d'indole tanto diversa da non potervi esser mai stata fra loro intimità alcuna. Nondimeno, quando la nipote era rimasta vedova, lo zio, che era celibe, le aveva proposto di far casa comune. Una donna giovine e bella, egli le diceva, non istà sola senza dar pascolo alle chiacchiere della gente; d'altra parte a lui, uomo maturo, cominciava a pesar la vita da scapolo; o perchè dunque non provavano ad abitare insieme? Erano ricchi tutti e due; potevano intendersi facilmente rispettando la reciproca indipendenza.

La proposta era ragionevole e la Teresa consentì a tentare l'esperimento. Ma non tardò a pentirsene. Lo zio, oltre a esser noioso e pedante, era un piccolo tiranno, pieno d'esigenze e di suscettività, intollerabile con le sue fisime aristocratiche, con la sua mania del chic e del comm'il faut. E mentr'egli aveva ogni momento qualche personaggio esotico da presentare alla Teresa perchè lo invitasse a colazione o a pranzo, trovava sempre da ridire sulle relazioni maschili di lei: e che non avevano abbastanza un bel nome, e che mancavano di comm'il faut, e che mancavano di chic. Non gli andava a genio neppur Vergalli, benchè fosse un conte autentico; lo trovava tirato giù troppo alla buona, noncurante dei vantaggi della nascita, in sconveniente dimestichezza con letterati ed artisti, dimentico dei riguardi dovuti a lui, barone commendatore Amedeo Venosti Flavi.

Insomma, di lì a pochi mesi, la Teresa volle riprender la sua libertà, tanto più che il signor console un giorno, in un minuto di buon umore, le aveva sottoposto l'idea di un matrimonio fra loro due, e in seguito alla sua sdegnosa ripulsa aveva cercato meno legittime consolazioni fra le braccia della sua cameriera.

Del resto, i rapporti ufficiali fra zio e nipote non erano mai stati interrotti, ed egli veniva a desinare da lei una volta o due al mese, senza contare gl'inviti straordinari che per compiacerlo ella faceva di tratto in tratto a lui e a qualche forestiero del quale egli desiderava accaparrarsi le grazie. Egli dal canto suo le inviava cerimoniosamente un paio di regali all'anno.

Scambiati i saluti, la Teresa accennò a di Reana che s'era levato in piedi.—Non occorrono presentazioni—ella disse.—Vi siete incontrati altra volta.

I due uomini, guardandosi in cagnesco, fecero un segno affermativo col capo, e si diedero la mano di malavoglia.

—Che buon vento?—ripigliò la padrona di casa rivolgendosi allo zio.—Ti credevo in campagna.

—Son qui da ieri, ma per poco. Ho un raccomandato.

La Teresa sorrise.—Per miracolo!

—Sì, un conte dei Schaumburg Waldeck, parente dei Radzivill per parte di donna. Un carissimo giovine… Aveva una lettera anche per la contessa Marvesi.

—Non sarà a Venezia…

—C'è… E siamo stati iersera da lei… Ci ha invitati a pranzo per domani. La contessa mi ha incaricato di salutarti.

—Grazie… Com'è che ha anticipato il suo ritorno?

—Vuol festeggiar qui le sue nozze d'argento.

—Con chi?

—O Teresa, come sei maligna! La Marvesi vive in ottimo accordo con suo marito… un vero gentiluomo.

—Sta bene. Parliamo d'altro.

Ma il dialogo languiva. Era evidente che il commendatore aveva qualche cosa da dire e che gli seccava la presenza d'un terzo. Di Reana, nonostante la promessa fatta prima alla Teresa, non dava segno di volersi muovere.

—E dove hai lasciato il tuo forestiero?—chiese la Valdengo allo zio, tanto per sentire s'egli aveva un impegno che lo chiamasse presto altrove.

—L'ho lasciato in albergo—rispose pronto Venosti.—Era stanco d'aver girato tutto il giorno a vedere i nostri monumenti… Essendo libero, ha voluto consacrar la serata a mia nipote… Ti disturba il fumo?

—Lo sai che non mi disturba.

Il barone estrasse di tasca un astuccio pieno di sigarette e ne offerse una al sottotenente.

—La ringrazio—disse di Reana—ma dopo un'infiammazione di gola il medico mi proibì di fumare… e poi… vado via.

Come chi prende una risoluzione eroica, si alzò di scatto dalla seggiola, e porse la mano alla Teresa.

—Buona sera—rispose questa, ricambiando la stretta in modo da lasciargli comprendere che gli era grata del sacrificio.

Di Reana la interrogò con lo sguardo; ella fece un gesto che significava:—Siamo intesi. A domani.—Indi sonò il campanello.

L'ufficiale salutò freddamente il commendatore Venosti Flavi ed uscì.

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