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5 - Incantesimo perverso (Fiaba)

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Ormai il ghiaccio era rotto e la Fata di Ferro non teneva più solo per sé i suoi segreti. Anzi, burrosa e languida, aveva deciso di darsi alla principessa Alba, anima e, se possibile, pure corpo.

Ad Alba non sembrava vero: il pomeriggio, dopo i compiti, facevano una merendina e chiacchieravano come due amiche del cuore. E visto che Alba non era mai stata così brava e volenterosa, nello studio, alla fine, arrivava il premio. Il premio era rappresentato dalla confidenza e dall'intimità.

La fata, rassegnata, le si donava completamente, affinché soddisfacesse la sua lussuria e i suoi sentimenti lascivi, di giovane curiosa e impertinente. Allora la screanzata si sedeva accanto a lei.

Spesso si servivano di un piccolo plaid con la fantasia scozzese, in quei casi Alba gioiva ancora di più. Guardavano la televisione o Flora leggeva qualcosa, nelle lunghe serate invernali; si piazzava sul divano e seguiva con finta attenzione qualsiasi programma, pur di starle vicino.

Le loro gambe, celate sotto la coperta, iniziavano a strusciarsi, il suono del tessuto che frusciava eccitava entrambe. Ad Alba non mancava mai la scusa adatta: ora per lo spasso, ora per la paura, ogni pretesto era buono per stringersi alla Fata di Ferro. Allora, specialmente se protette dal plaid di lana, le piccole dita sottili cominciavano a frugare. La ragazza abbracciava la donna in cerca di protezione e ne esplorava ogni rotondità, ogni curva. Vagava sul cotone del camice, a volte perdendosi tra roselline sul fondo nero, altre, cogliendo le margherite della vestaglia lilla; e più la Fata taceva, più le mani si prendevano confidenze.

Quando cominciava, voleva sfiorare con delicatezza e fingendo poco interesse: carezze distratte, occasionali, come se nascessero spontanee e senza scopo. Ma poi l’eccitazione aumentava; i movimenti diventavano sempre più rabbiosi, sconnessi, convulsi. Quelle mani “possedevano”, letteralmente, il corpo della grossa fata.

Alba le toccava i fianchi abbondanti, poi strisciava serpeggiando fino alla pancia di lei, che era generosa e morbida, allora, di piatto, si infilava sotto il cotone e carezzava l’inguine. Poi tornava su, cercava le mammelle e tirava, e premeva, e giocava con il seno abbondante. I capezzoli si rilevavano al tatto, gonfi e costipati sotto la veste e pressati, nel reggipetto matronale.

Poi le dita esploravano il collo, la nuca, titillavano i lobi… e la fata moriva lentamente di languore. Il cuore impazziva e piccole gocce le imperlavano la fronte.

Il plaid era complice di Alba…

La ragazza iniziava col lamentarsi di aver caldo e, da sotto la coltre, faceva scivolare via la gonna dalle gambe di gazzella restando solo in mutandine e calzettoni. Adesso, la carne nuda cercava di nuovo il contatto, scostava il cotone, scivolava sulla seta e trovava, infine, la pelle dell’altra. E quando la carne s’incontrava, per entrambe era il tripudio.

Quel desiderio era tanto più grande quanto più era proibito e sofferto. Il silenzio, falso, della fata, quella sua impossibile indifferenza, faceva fremere la giovane principessa; a ogni istante temeva di essere scoperta e quindi allontanata, scacciata. Sapeva che stava approfittando di tutte le magie della Fata di Ferro, ma non riusciva a trattenersi! Doveva bere a quella fonte vietata.

Ogni sera, tornando a casa, si riprometteva di resistere a quella sete ma, il pomeriggio successivo, i buoni propositi capitolavano e lei si rituffava in quel corpo: arrendevole, morbido, materno.

Che gioie provava, e quanto si umettava il suo fiore nascosto! Spesso si ritrovava con le mutandine bagnate sì, ma dal fuoco della lussuria.

Peccati Erotici Delle Italiane, Volume I

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