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Dolomieu le origini del cambiamento
ОглавлениеC’era una volta un paesino di montagna. Le alte cime che lo sovrastavano erano guardate con rispetto e soggezione da chi lo abitava. Non erano da conquistare, solo da ammirare. Facevano paura. Là, in alto, dimoravano gli spiriti dei morti, e il demonio si faceva sentire nelle fredde e lunghe notti invernali. Ogni tanto, in mezzo a quelle guglie capitava qualche cacciatore di camosci. No, lassù, non era utile andarci. A quei tempi c’era poco da mangiare, ma per i pochi abitanti che qui si erano stabiliti era pur sempre meglio che vivere laggiù, in basso, avvinghiati alle paludose e malsane pianure. Le semplici case le avevano fabbricate l’una accanto all’altra, il terreno era prezioso e non si poteva certo sprecare per costruirvi sopra solo un’abitazione. Ci si aiutava anche perché diversamente non si poteva fare.
Su quelle montagne, un giorno, arrivò un geologo. A quei pinnacoli alpini diede il nome di Dolomiti, richiamando l’attenzione di altri studiosi e dei primi turisti, nello stupore dei contadini che – all’inizio del Novecento – non capivano come le loro povere montagne potessero attrarre gente ricca da ogni dove, giunta non più a cavallo o a dorso di mulo, bensì a bordo delle prime automobili. La natura restava luogo di fatica e stenti per chi ci viveva, ma iniziava a diventare trionfo del riposo e della libertà per chi vi transitava. In poco tempo da aristocratica, la vacanza divenne patrimonio dell’egemonia culturale borghese che tentò, fino all’avvento del turismo di massa, di preservarne l’essenza elitaria. Biarritz, Costa Azzurra, Sankt Moritz, Capri, Cortina: non tanto località turistiche, quanto modelli di potere e privilegio. Ben presto, a inizio Novecento, fu costruita la Strada Statale delle Dolomiti chiamata anche la “Grande Strada delle Dolomiti”, e una linea di autobus collegò la Val Badia a Brunico determinando un iniziale ma inesorabile cambiamento della valle. Il diplomatico George F. Kennan la chiamò Urkatastrophe, “the great seminal catastrophe of this century”, la catastrofe originaria. È come se si fosse aperto il vaso di Pandora dal quale uscì un male che sarebbe stato il veleno che intossicò tutta la storia del XX secolo. La prima guerra mondiale spense i sogni di una vita tranquilla con il fronte dolomitico che si estendeva tra le cime della Marmolada, del Col di Lana, del Lagazuoi e delle Tofane. Anche la guerra, alla pari dell’ospitalità, si fa con gli incontri e chi si scontrava sulle cime delle bellezze naturali di questi luoghi non sapeva che farsene; le montagne per quei disgraziati giovanissimi ragazzi chiamati a morire a migliaia non erano altro che neri monti e le primavere di quegli anni devono essere apparse come mortificate dai lunghi mesi invernali. Seguirono tempi difficili e un altro terribile conflitto bellico. I forestieri tornarono sulle Dolomiti solo negli anni cinquanta, e nel 1956 l’Olimpiade di Cortina fece parlare di sé. Anche in Val Badia vennero costruiti i primi impianti di risalita e, con questi, i primi alberghi. Lo sviluppo fu graduale ma costante, fino agli anni settanta; arrivarono, assieme agli italiani, turisti tedeschi e inglesi e con loro il benessere economico.
Furono anni per certi aspetti memorabili, estratti da qualche cartolina ricordo che appartiene alla memoria personale di un bambino figlio di albergatori. Mio papà Ernesto faceva l’idraulico d’estate e divenne uno dei primi maestri di sci italiani d’inverno: il lavoro permise a lui e ai suoi compari di vivere in spensieratezza la gioventù, di guadagnare due soldi in un luogo che fino a pochi anni prima viveva di povertà. Suo papà, mio nonno, la povertà l’aveva conosciuta eccome: la mancanza di scarpe, di giorni liberi, di senso di sazietà erano la normalità. Ed ecco la prima motocicletta, i vestiti alla moda, avventure che vanno e vengono; poi quell’antico detto, “donne e buoi dei paesi tuoi”, fece presa anche su Ernesto: conobbe mia madre, si sposarono, aprirono l’Hotel La Perla. La nonna in cucina e la mamma che faceva di tutto; pieni di energia, da subito tutto funzionò molto bene. È innegabile, ci si divertiva: i miei genitori facevano festa con gli ospiti fino a notte fonda. Ernesto, ormai, non insegnava più sulle piste da sci. La sua vita, conosciuta mami Anni, era diventata l’albergo. La figura del maestro di sci si andava intanto affermando sempre di più; istruttore in pista, accompagnatore e amico fuori. Papà si dimostrò un vero anfitrione; cantava e intratteneva il pubblico nel nostro Club 44, un locale di tendenza, con l’irresistibile Gegè di Giacomo alla batteria. Lo straordinario successo internazionale del trio di Renato Carosone, del quale Gegè faceva parte, era dovuto anche grazie alle performance comiche del multi-talentuoso napoletano. Con Ernesto ci andava a nozze, quel locale notturno viaggiava a mille. Mamma Anni ci raccontò di quando venne a farci visita Nino Benvenuti, idolo nazionale, campione mondiale dei pesi medi tra il 1967 e il 1970. Il grande Nino – “facevamo pugilato perché c’era una doccia calda gratis” era una delle sue massime – ordinò un astice. Anni, come si conviene, servì una fingerbowl, o lavadita. Benvenuti la prese la ciotola con l’acqua calda e con un unico sorso la bevve tutta. Tempi memorabili.