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Quando ero bambino e arrivava la stagione fredda si aspettava che nevicasse. Si viveva quell’attesa con serenità: appena cadevano i primi fiocchi, i miei fratelli e io correvamo a giocare a palle di neve e a spalare. E poi, la sera, sedevamo davanti al caminetto, con il naso appiccicato alla finestra, ascoltando le storie della nonna in attesa del Natale. E dei primi turisti. I nostri genitori erano molto indaffarati, ma la sera della vigilia era sempre dedicata alla famiglia, e lo è tuttora. Era il suono della campanella ad avvertirci: è arrivato Gesù Bambino. La finestra era ancora aperta, Jesuskindl era già volato via e grande era la meraviglia di fronte all’albero addobbato, con tutti quei pacchetti e pacchettini in bella mostra. Ora la famiglia si è allargata ma l’attesa di Gesù Bambino è sempre carica di entusiasmo, e non basta più una bottiglia di Chablis, il vino bianco preferito di mamma.

Ho frequentato le scuole medie nel paese qui vicino: una volta nevicò così tanto che mi feci i quattro chilometri a piedi perché le auto non potevano circolare, tantomeno lo scuolabus. E noi via, di corsa, a metterci gli sci: quante volte l’ho fatto quel campetto, su e giù con quei pezzi di legno ai piedi, prima di poter prendere il primo impianto, a tre anni e mezzo. Me lo ricordo bene la seggiovia del Col Alt, con quelle seggioline che salivano piano piano. Eravamo bambini fortunati: appollaiati lassù a volte scorgevamo un capriolo, altre volte una racchetta da sci persa da un turista, e noi giù, nella neve fresca, a recuperarla. Ora quell’impianto è diventato una cabinovia ad agganciamento automatico, porta in quota 2.800 persone all’ora in pochi minuti, i sedili sono riscaldati e la connessione Wi-Fi è perfetta per controllare lo smartphone e spedire addirittura una e-mail: bisogna sempre essere online, anche quando si è in vacanza. Non ci chiediamo più se nevicherà, ma solo se farà abbastanza freddo per produrre la neve artificiale, pardon, ora si chiama neve “programmata” o “coltivata”, altrimenti i tecnici s’arrabbiano. Vi confido che mi piacerebbe tanto, dopo una fitta nevicata, non sentire più il rumore delle macchine spazzaneve, quello dei gatti battineve e di altri mezzi che circolano per le strade a spargere il sale mangianeve. Oramai bastano cinque centimetri per mettere in moto il festival degli spalaneve; capisco la necessità di tenere strade, marciapiedi e parcheggi agibili, è lo spirito dell’ottimizzazione a cui stiamo cedendo, che tuttavia ci fa perdere l’aspetto romantico, l’emozione vissuta di fronte agli spettacoli della natura. È una mania di controllo dell’uomo imprenditore. Tra piccole macchinette e grandi escavatori, sembra di essere in autostrada. E a proposito di neve “programmata” è forse necessario fornire qualche dettaglio in più. Per produrre 2,5 metri cubi di neve artificiale, vengono impiegati 1.000 litri d’acqua. L’intero arco alpino presenta 23.800 ettari di piste da sci innevate con neve “programmata”, per i quali annualmente si consumano circa 95 milioni di metri cubi di acqua, l’equivalente del consumo d’acqua di una città di 1,5 milioni di abitanti. In Alto Adige Südtirol siamo leader nell’innevamento artificiale, con l’80 per cento delle piste fornito di neve in questo modo, incentivati anche da sussidi statali che raggiungono il 23 per cento dei costi d’investimento. Un metro cubo di neve artificiale costa tra i 3 e i 5 euro. Per i 23.800 ettari di piste da sci alpine si stima un costo di investimento per gli impianti di innevamento che supera i 3 miliardi di euro. Questi sintetici dati, forniti dal Cipra in relazione all’Innevamento artificiale delle Alpi dovrebbero aiutare a focalizzare non tanto il problema, quanto la questione: che tipo di montagna vogliamo? Che tipo di consumatori di montagna stiamo diventando?

Torno ancora alle mie amate cartoline ricordo. Nel bel paesino ai piedi del Sassongher si moltiplicarono alberghi, locali, bar, arrivò perfino il cinema. Uno dei ricordi più belli di quegli anni è legato a Jesus Christ Superstar: andai a vederlo con Mike, l’amico del cuore. Con la sua giovanile bellezza risaltava in mezzo alla comunità di contadini, albergatori per caso, artigiani, della quale anche lui faceva parte e dalla quale voleva scappare, cercando un’altra strada. A dispetto della Honda 125 addobbata come una Harley Davidson, lui, Mike 1, impazzava con la disco music, io, Mike 2, invece ero preso dalla musica psichedelica, strizzando già l’occhio al punk. Nei fine settimana andavamo a fare i disc jockey alla Bussola di Corvara: dei dodici locali dove ci si scatenava, spirito da discoteca più metropolitano che non da paesello di montagna, non uno è rimasto. Vivere la musica in uno spazio dedicato mi faceva cogliere la struttura più profonda del mondo, quella che gli occhi mi impedivano di percepire. Ci andavano i miei idoli dell’epoca. Giorgio il latin lover, Pippo il bello, maestro di sci e Oswald, pace all’anima sua, proprietario dell’unica pellicceria della valle. Collezionavano ragazze e belle auto. Chi faceva parte del loro giro entrava di diritto nel gotha degli arrivati. Così, almeno, si pensava. Lui, Mike 1, infiammava la pista con l’irresistibile I Feel Love di Donna Summer composta dall’idolo locale, poi diventato star internazionale, Giorgio Moroder; quando invece ero io a mettere i vinili spaziavo dai Rolling Stones ai Clash, punk ma con cervello. Oggi, da oste, mi piace fare il paragone tra il dj e il lavoro del barman. Se ci pensiamo, anche il barman è un dj, capace di tramutare il bere in arte, uno sciamano che dialoga con gli spiriti per migliorare la serata di chi gli sta intorno. Il barman, quando è un buon barman, è un amico di cui ti puoi fidare. Anche del mio amico Mike si fidavano: sempre alla moda, era attorniato di ragazze, mentre il mio successo era limitato a qualche minorenne che stravedeva per i miei capelli, il giubbotto di pelle nera e per la mia trasmissione radiofonica su Rai Ladinia, “Mike’s Pop Shop” che si tramutava in “Mike’s Rock Shock” quando andavo giù duro. Facevamo festa, ci si divertiva e alla festa si va per questo, ma la festa passa presto. Mike 1 si schiantò con il suo deltaplano il 1° giugno 1981.

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