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La presunzione di sapere.

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Amico,


Ti lagni tu forse del mio silenzio? Hai ragione, ma eccoti alfine una lettera, anzi una bazzoffia che non finisce mai. Così puoi vedere che, anche in mezzo agli svaghi della villeggiatura, io mi rammento della scambievole promessa di darci contezza delle cose più notabili che ci accadono ora che siamo separati.

Per alcuni giorni è stato nostro ospite un valente professore di Botanica[1], amico intrinseco del babbo. Oltre al desiderio di vederlo, egli venne quassù per erborare[2] nelle vicinanze; ed io lo accompagnai in tutte le sue gite. Ecco perchè fin qui non ho avuto tempo di scriverti.

Ora ti narrerò ciò che m'intravvenne nella prima di queste gite scientifiche.

Ma innanzi è bene che tu sappia che il nostro botanico è uomo d'età avanzata, di aspetto autorevole e di temperamento robusto; ha modi cortesi, disinvolti e gioviali, e tanta modestia con molto sapere, che sebbene egli abbia viaggiato lungo tempo e fatto parecchi lavori di grande utilità per l'avanzamento delle scienze, tuttavia non parla mai di se stesso: e quando entra in discorso di Storia naturale, procede con la medesima cautela di un novizio negli studi. «Per dubitar meno di ciò che asseriamo intorno alla botanica» diceva egli «bisognerebbe studiare ed osservare di continuo senza mai concedere al corpo o alla mente il necessario riposo; tanti sono i progressi che ogni giorno fa questa scienza e le rettificazioni che occorrono nell'ordinamento e nella nomenclatura[3] delle piante, soprattutto ora che molti uomini distinti, in ogni parte del globo, la studiano con ardore e viaggiano dovunque, e moltiplicano miglioramenti e scoperte! Linneo sarà sempre, per così dire, l'Omero della botanica; ma dal tempo in cui fiorì sino ai nostri giorni, si è fatto in essa un così gran numero di variazioni fondamentali, che la sola cognizione degli scritti di quel grand'uomo non potrebbe bastare per istruire un botanico...»

Dipoi rammentati della mia ridicola arroganza scientifica. Tu sai che avendo io scartabellato vari libercoletti dove si parla della vegetazione e della coltivazione dei fiori; che imparando a mente il sistema organico di Linneo dalla prima classe delle Monandrie fino alla ventiquattresima delle Crittogame, e le distribuzioni delle piante in famiglie, in generi, in specie e in varietà; ed ora raccogliendo mostre per comporre l'erbario[4], ora facendo dissezioni[5] e disegni di fiori e di frutti, m'era finalmente dato a credere d'essere poco meno che un altro Linneo, o un Vallisnieri, e o un Micheli od un Savi in erba; e che di questa presunzione m'aveva rimproverato più volte mio padre, senza che mai fosse riuscito di correggermi, stimando io sempre che l'imparare una scienza fosse quasi la stessa cosa che intrattenerci dei nostri fanciulleschi balocchi. «M'è a grado che tu sia preso da tanto amore (soleva dirmi) per questa occupazione utile e dilettevole; ma tu ne meni troppo vanto, e t'immagini d'aver imparato la botanica su quei compendiòli. E' ti potranno somministrare alcune cognizioni elementari, e procacciarti una ricreazione preferibile alle inezie infantili, e non altro. Sfuggi, figliuolo mio, sfuggi il difetto oggimai troppo comune di dare tanto valore alla dottrina acquistata in cotal modo. Gli elementi del sapere sono cosa di molta importanza, ed è difficile esporli bene; e tuttavia non bastano per conoscere a fondo una scienza. È anche vero che quanto più è semplice l'insegnamento, tanto più s'accosta alla esattezza; ma vi vuole anche la modestia; altrimenti la facilità dell'imparare fa sì che le cose gravi passino per inezie, e all'opposto; ovvero la mente crede essersi provvista d'idee, mentre non possiede altro che vane parole.»

Ma queste savie ammonizioni io le credeva fatte per moderare la mia grande inclinazione a quello studio, e non per liberarmi dalla vampa dell'orgoglio.

Preparandoci adunque a visitare i nostri poggi, il professore, che non v'era mai stato, chiese la compagnia di un contadino che fosse pratico dei luoghi e conoscesse a modo dei campagnoli le piante silvestri che vi germogliano. Io, che sfoderando tutto il mio sapere aveva già detto d'aver girato ed erborato più volte nei medesimi poggi, mi tenni offeso di questa ricerca, sebbene non ardissi di manifestarlo. — Come può egli intendersi di botanica un contadino? — pensava tra me: — avrà notizia delle piante ch'egli coltiva, e notizia grossolana e imperfetta; degli studj dei quali dobbiamo occuparci noi e' non ne può saper nulla. — Intanto mio padre mandò con noi un certo Betto, figliuolo del contadino, buon ragazzo, vispo, intelligente, e quasi dell'età mia.

Betto voleva togliere al professore l'impiccio dello scartafaccio da riporvi le piante; ma questi postoselo ad armacollo ne lo ringraziò, dicendo che era solito di portarlo se medesimo. Io non fui tanto discreto; io mi lasciai servire; e la mia cartella era più voluminosa e legata con più eleganza di quella del professore. Inoltre io aveva meco un arnese fatto apposta per tagliare o sradicare le piante, e un grazioso astuccio per fare le dissezioni dei fiori: egli un semplice coltellino e un bastoncello... Insomma, vedendoci insieme, e considerando la mia gravità, avresti detto ch'io tenessi il posto del maestro, e il professore quello del discepolo.

Non istò a descriverti le belle vedute di cui godemmo, nè il diletto di quella gita, nè le piante che furono raccolte dal professore: sarebbe faccenda troppo lunga, e non è questo l'oggetto della mia lettera. Io voglio solamente accennarti come rimanessi scorbacchiato della mia presunzione, e (almeno lo spero) corretto.

Quel ragazzo che a parer mio non doveva essere altro che il nostro somarino, diventò, sto per dire, il nostro oracolo. Il professore interrogava prima me intorno al tempo della fioritura d'una tal pianta, alla qualità del terreno dove germoglia, al nome volgare, ed a varie altre notizie, ma io non sapeva che cosa rispondergli; e allora volgendosi a Betto, questi lo soddisfaceva a puntino di ogni sua richiesta. Io m'affaticava a indicargli or una pianta ora un'altra, già sembratemi cose rare, ma non erano quelle che al professore importasse gran fatto conoscere; io voleva descriverne alcune, ma Betto garbatamente mi correggeva ad ogni parola; mi rimase per ultimo refugio l'astuccio, ed incominciai a contar petali, a tagliare stami e pistilli, a spaccare ovarj[6] e che so io; ma il professore, dopo un'occhiata, diceva parergli che quei fiori appartenessero al tale ordine o alla tale famiglia, e tutto ciò che gli pareva era poi esattamente vero; volli provarmi a proferire i nomi scientifici, e di rado ne azzeccai qualcuno, e spesso il professore dicevami: — Un tempo fu nominata così quella pianta: ora s'è conosciuto che non appartiene alla stessa famiglia, e conviene appellarla così e così... — in conclusione tutta la mia dottrina se n'andò in fumo: e intanto il professore stava attento alle parole di Betto, le notava nel taccuino, e confessò poi che dalla semplice esperienza di quel garzoncello aveva ricavato argomento per utili osservazioni, e sopra tutto per un lavoro che aveva intrapreso intorno alla nomenclatura volgare ed alla fisiologia[7] di parecchie piante. Da me, senza ch'ei lo dicesse, ma pur troppo io stesso me n'ero accorto, da me non aveva ricavato altro che strambottoli e passi inutili.

Tu già ti avvedi che il mio orgoglio fu rintuzzato pel dì delle feste. Tornai a casa tutto sgomento; e chiusomi nella mia cameretta, sotto colore di riposarmi dalla stanchezza di lunga gita, mi posi mestamente a deplorare la mia disgrazia: — Un ragazzo che non sa neanche leggere, soverchiar me che ho raccolto ed esaminato tante piante, che ho libri ed erbari, e stampe ed arnesi, che studio da lungo tempo, e coltivo e disegno fiori? Dunque tutto quello che fin qui ho fatto è inutile! un visibilio di cose che ho imparato, non mi valgono a nulla! Eh via! smettiamo quest'occupazione, leviamoci di torno tutti questi ninnoli! — E con sì bel proposito andai a tavola.

Ogni parola che fu fatta intorno alla nostra gita era puntura al mio amor proprio. Non già che il professore avesse in animo di mortificarmi, chè anzi si contenne da uomo indulgente, non adulò nè biasimò; e parlando di Betto sfuggì qualunque confronto che mi potesse umiliare. Ma io, prima della gita, era già persuaso di dover fare a tavola una bella figura, di dover raccogliere il frutto dei miei sudori... Eccomi tornato con le trombe nel sacco!

Sebbene mostrassi disinvoltura, mio padre conobbe lo stato del mio animo, e il giorno dopo, quasi avesse indovinato anche il proposito ch'io aveva fatto di non impicciarmi più di botanica, chiamatomi a sè, mi disse da solo a solo con affettuose parole:

«Figliuolo mio, vedo bene che tu sei stato poco sodisfatto della tua gita scientifica; ed è avvenuto a te ciò che avviene a tutti coloro i quali credono di aver imparato molte cose con poca fatica. Bada di non incolpare i libri nè gli uomini, e nemmeno te medesimo, se non in quanto la tua immaginazione e la tua vanità abbiano potuto trarti in inganno. Io t'ho ammonito più volte a non credere che un'occupazione ricreativa intorno ad una scienza possa tener luogo di studio fatto di proposito; ma il nome e le parole t'hanno sedotto. Volli compiacerti concedendoti tempo e modi per conoscere i principj di questa parte della Storia naturale, poichè ho avuto sempre più caro di vederti occupato in essa che nei passatempi puerili; e finchè tu voglia essere naturalista per riposarti dagli altri studj, tanto il professore che io confessiamo che tu hai saputo adoperar bene le ore della ricreazione. Ma tu non potevi avere imparato la scienza. Questa presunzione t'ha finalmente nociuto. Lo stesso accaderebbe a qualunque altro giovinetto, e in qualsivoglia ramo del sapere umano. I tuoi studj presenti sono rivolti alle belle lettere italiane e latine; e sai che i maestri sono soddisfatti della tua buona riuscita. Or bene, t'è egli mai caduto in animo di fare sfoggio di sapere letterario con essi? Credi tu che la botanica richieda minori fatiche della letteratura per poter giungere a saperla davvero? Ma non ti sconfortare, nè ti dispiaccia d'essere rimasto umiliato nel paragone con Betto; anzi ciò ti porga occasione a riflettere che un semplice campagnolo, con la comodità d'osservare di continuo le produzioni della natura, conosce molte cose che lo scienziato non può imparare studiando nella sua stanza. Il professore non si vergognava d'apprendere da Betto ciò che avrebbe potuto sapere anche da te, se tu dimorassi, come quel giovine, tutto l'anno in campagna, e udissi di continuo i colloquj dei vecchi agricoltori. Ora dunque noi ti confortiamo a non perdere l'amore per questa occupazione, e ti promettiamo ogni aiuto per renderla più proficua; giacchè moderando la tua presunzione, non puoi ricavarne altro che vantaggio e decoro. E se l'inclinazione per la botanica t'indurrà a coltivarla a preferenza di ogni altra cosa, io non m'opporrò alla tua volontà; ed allora, a suo tempo, e dopo assidui studj, potrai diventare botanico e scienziato.» Ciò detto mi lasciò, ringraziandolo io di così affettuose parole e di così bella promessa, e sentendomi ritornare la quiete nell'animo.

Infatti, dopo questi avvertimenti, il conversare intorno alla Storia naturale col professore e col babbo mi riuscì più dilettevole e più utile che per l'innanzi. Convinto di saper poco, senza che l'orgoglio rintuzzato mi facesse sdegnare con me medesimo, allora acquistai molte cognizioni che prima l'arroganza giovanile m'avrebbe reso più difficili. Allora conobbi che la mente è più lucida quando siamo disposti a confessare di buona voglia la nostra ignoranza, che quando l'amor proprio ci domina tanto da minorare la nostra attenzione, e da farci rimanere offesi delle altrui riprensioni. Il colloquio tornò a cadere sopra Linneo e, fosse caso o accortezza del professore, egli s'intrattenne molto nel descrivere le gravi difficoltà che il sommo naturalista dovè superare, e le fatiche enormi che dovè intraprendere prima di far palese il suo sapere e di trarne profitto per la scienza. Era necessario aver grande ingegno ed infaticabile ardore per ordinare i principj, quei medesimi principj che ad un giovinetto parranno sì facil cosa a imparare; e nello stesso tempo bisognava cercare scrupolosamente l'esattezza della verità, perchè le prime sue dottrine non inducessero gli altri in errore. Un ingegno meno vigoroso si sarebbe perduto d'animo: un naturalista meno diligente avrebbe forse acquistato fama in quel tempo nel quale pochi si volgevano a siffatto studio; ma il suo nome sarebbe rimasto oscuro ai posteri. Quanti studj, quanti viaggi penosi, quante osservazioni ripetute e pazienti prima di poter dire: Io so; — d'arrischiarsi ad ammaestrare gli altri!

Toccando alcune più minute particolarità della vita di Linneo, disse che gli pareva anche d'aver letto che per l'amor della scienza e' si ridusse a vivere sì poveramente, che non potendo comprarsi tante scarpe quante gliene occorrevano pei suoi viaggi, non isdegnava d'accettare in dono quelle già logore dei suoi discepoli, e di ricucirle da se medesimo, rattoppandole talora con la cartapecora dei suoi scartafacci di studio. — La conclusione poi di questi ragionamenti fu che la dottrina, in qualunque scienza, non consiste nelle cognizioni leggiere acquistate a guisa di semplice trastullo, nè in una filastrocca di parole imparate a mente. È vero che in generale ogn'insegnamento, e soprattutto quello così dilettevole della Storia naturale, deve essere agevolato dalla semplicità dei metodi[8]; ma non bisogna immaginarsi di potere imparar bene alcuna cosa senza fatica. Aggiunsero ancora che l'abilità e l'ingegno non hanno mai avuto bisogno di vanagloriose apparenze per riuscire utili e per manifestarsi; e che gli uomini, i quali giovarono più degli altri alla società facendo progredire le scienze con l'ingegno e con la fatica, sdegnarono le superflue agiatezze del vivere; e, sempre modesti, non usarono mai di quelle artifiziose dimostrazioni che paiono fatte per incantare gl'idioti. Allora sì che rivedendo il mio erbario legato con eleganza, il mio astuccio botanico pieno di graziosi strumenti, e ricordandomi d'altro lato delle scarpe rotte accettate dal sommo Linneo, ebbi ad arrossire della mia presuntuosa vanità fanciullesca! — Io studierò la botanica, perchè mi sento sempre inclinato a questa scienza, e perchè le savie parole del professore e di mio padre me ne hanno fatto innamorare più di prima. Essi conoscono questa mia volontà, e a te, mio amico, io non poteva nasconderla; ma serba il segreto, il quale a niun altro sarà palese, finchè non vedrò di poter fare sicuramente buona riuscita in questo studio. — Addio.

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