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II. Fiducia nella Provvidenza.
ОглавлениеIl bellissimo cielo che s'apre nel vasto orizzonte di Napoli, la marina infinita, placida e sparsa di navi con le vele biancheggianti, il Vesuvio, che spinge al cielo vortici immensi di fumo, la Baja con ampia e maestosa curva coronata dalle selve d'aranci, i castelli antichi e le torri merlate, le ville magnifiche, le ruine venerande, e il sole splendidissimo che illumina tanta e sì maravigliosa copia d'oggetti, parevano occupare la mente di un giovinetto, che sedeva immobile meditando sopra una rupe lungo la costa di Margellina. Ai piedi aveva una carta, e nella destra la matita.
I suoi sguardi vivaci erano immobilmente rivolti alle rovine della tomba di Virgilio. La faccia aveva pallida e addolorata, la positura come quella di chi è spossato da sfinimento, le vesti logore per miseria. Presso di lui una fanciullina e un bambinello, coperti di pochi stracci, talora si spassavano a coglier fiori, tal'altra si fermavano piegando la testa sopra le spalle a contemplare il fratello: e parevano presi dalla stessa malinconia: e i fiori già colti cadevano loro di mano. Di lì a poco tempo comparve un uomo ben vestito, che passeggiava deliziandosi nella bellezza del luogo. La fanciulla ristette a considerarlo, guardò incerta prima il fratello, poi lui; quindi movendosi risoluta col fratellino per mano, si ridusse a' piedi di quel signore, e in atto supplichevole mostrandogli il bambinello, stese la destra per l'elemosina. «No!» esclamò allora con fuoco il giovinetto alzandosi prestamente, e slanciandosi in mezzo ad essi. «No, Maria, non chiedere l'elemosina!» — «Ma, abbiamo fame, rispose ella con l'accento della disperazione: e tu, ah! tu sei più digiuno di noi!» — «La mamma è malata, gridava piangendo il piccino.» Il signore impietosito poneva la mano in tasca; ma Salvatore, rattenendogli il braccio con dignitosa risolutezza: «Io posso lavorare » gli disse: «finchè sarò vivo io, non chiederemo l'elemosina.» — «Ma quali assegnamenti hai tu oggi che è festa?» gli rispose il signore. Salvatore additando il sepolcro di Virgilio e mostrando la sua matita: «Fra due ore, disse, avrò finito un disegno. Se qualcuno lo comprerà...» — «Lo comprerò io: vediamo intanto cosa tu hai fatto.» Salvatore esclamando: «Che siate benedetto!» corse a raccor la sua carta che conteneva la veduta della tomba di Virgilio abbozzata, e gliela mostrò: «Ma colui che fu degli poeti onore e lume, disse con enfasi il giovinetto, meriterebbe un monumento più splendido e la mano di Raffaello per disegnarlo.» Quel signore intanto esaminava attentamente il disegno, e gli pareva maraviglioso per esser fatto da quel povero ragazzotto. «Finiscilo, finiscilo,» gli disse abbracciandolo con trasporto. «Lo compro io. Eccoti il prezzo» e gli donò tutto il danaro che aveva in tasca. «Domani verrai a portarmelo in via Toledo al numero 24; cerca di Giovanni Lanfranco!» — «Giovanni Lanfranco!» esclama Salvatore; «voi forse quel pittore famoso?...» — «Sì, io son pittore, e tu lo sei forse più di me. Come ti chiami?» — «Salvator Rosa.» — «Scolaro del Francanzano?» — «Per l'appunto.» — «Ne ho visti altri dei tuoi disegni, ma non davano da sperare come questo. O perchè sei caduto in tanta miseria?» — «Mio padre morì, e lasciò nove creature senza campamento. Io mi industrio con questi disegni, perchè ora non ho modo di fare i quadri, e li vendo in piazza per aver pane quando trovo chi li voglia comprare.» — «Ebbene! da qui innanzi non sarai più tanto povero! Non aver paura. Non vi sarà più pericolo che dobbiate andar mendicando. La Provvidenza ha assistito me, ed io posso farti da padre. Va', corri a consolare la tua famiglia.» Salvatore e i bambini gli caddero ai piedi abbracciandolo. Il pianto della riconoscenza impediva le parole. Il pittore si affrettò ad andare subito a levar d'angustia la madre.
Essi a fatica si staccarono dalle sue ginocchia; ma poi balzando dalla gioia volarono in traccia della madre. Lanfranco ristette a guardarli, considerando come i casi della fortuna sogliano travagliare i grandi ingegni sul principio della loro carriera.
E Salvator Rosa fu davvero uno dei grandi ingegni non tanto nella pittura quanto nella poesia. Con l'aiuto generoso del Lanfranco si fece presto noto all'Italia ed al mondo intero, pe' suoi quadri di paese, per le sue satire e pel suo bizzarro ingegno nell'arte comica. Nacque il 1615 nell'ameno villaggio della Renella due miglia distante da Napoli, e morì in Roma il 15 Marzo del 1673. Nella chiesa di S. Maria degli Angioli alle Terme ha il sepolcro ornato di belle statuette di marmo, col ritratto e la seguente iscrizione:
D. O. M.
SALVATOREM ROSAM NEAPOLITANUM
PICTOREM SUI TEMPORIS
NULLI SECUNDUM
POETARUM OMNIUM TEMPORUM
PRINCIPIBUS PAREM
AUGUSTINUS FILIUS
HIC MOERENS COMPOSUIT
SEXAGENARIO MINOR OBIT
ANNO SALUTIS MDCLXXIII
IDIBUS MARTII.
Questa iscrizione si crede composta dal celebre Padre Gio. Paolo Oliva. Eccone la traduzione.
A Dio Ottimo Massimo. Salvator Rosa Napoletano, non inferiore ad alcun pittore de' tempi suoi, pari ai primi fra i poeti di tutte le età. Lo pose qui, piangendo, il suo figliuolo Agostino. Morì in età di poco men che sessant'anni, l'anno della salute 1673 agli idi di marzo (il dì 15).