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V. Il buon esempio.
ОглавлениеNel dormentorio dei ragazzi di un ospizio dei poveri in Madrid, non era suonata ancora la campanella che dà il cenno d'andare a letto. Quella sera faceva un gran freddo, ed era stato concesso lo scaldarsi. Intorno ad ogni caldano era un crocchio, dove più dove meno animato da vari colloqui.
Tutti questi ragazzi, per la maggior parte garzoni d'artigiani e di mestieranti, si raccontavano i fatti loro: parlavano delle loro speranze ed erano generalmente ilari, perchè il riposo dopo una giornata di lavoro mette allegria ed ispira buoni sentimenti. In una sola di quelle conversazioni, separata dalle altre con un tramezzo di tela, v'era meno contentezza, quantunque vi fosse maggiore strepito.
La componevano cinque o sei sciagurati giovinetti di nascita benestanti, rinchiusi nell'ospizio perchè pei loro mali portamenti s'erano resi indegni d'abitare nelle proprie case; e venivano quivi custoditi come in luogo di correzione. Ma o che non volessero pigliare esempio da quei miserelli operosi, docili e rassegnati alla loro condizione, o che non fossevi nell'ospizio chi si curasse di loro, se non una specie di bestiale aguzzino per tenerli a dovere; essi invece di ravvedersi pel gastigo, persistevano nel mal pensare e nel peggio operare. Non ci tratteniamo da loro; poichè vi sarebbe il rischio di udire stolti o disonesti ragionamenti. Ritorniamo tra i buoni ragazzetti, e facciamo conoscenza con uno di essi.
Si chiama Diego; ha quindici anni, e fa il battilano. La sua fisonomia è bella e civile, ed ha una bontà di carattere e di costumi veramente esemplare: tutti i suoi compagni lo amano e lo rispettano. Se tra loro accadesse qualche sconcerto, egli trova subito il rimedio; toglie di mezzo le dispute, corregge amorevolmente chi ha torto, modera il risentimento di chi ha ragione. La sera poi, dopo tornato dal lavoro, si mette lì con un libro in mano, e un po' per uno istruisce alla meglio quelli dei suoi compagni che non sanno leggere.
Mentre egli faceva, secondo il solito, questa buona azione, ecco a un tratto spalancarsi la porta, ed entrare un giovinetto ben vestito. Dietro a lui è l'aguzzino, il quale esclama ad alta voce, e con aria di villana ironia: «A lei, signor Contino, questa è la sua camera, e ci troverà dei garbati compagni.» A tali parole, il volto di quel giovinetto diventò a un tratto di mille colori, gli tremarono le gambe, e calde lacrime gli scesero lungo le gote. I ragazzi sospesero i loro colloqui, restarono per un momento in gran silenzio, e nei loro cuori si svegliò subito molta compassione per lui. Ma i cattivi soggetti della stanza di correzione, fattisi avanti con molta curiosità, e conosciutolo da lontano, gli corsero subito incontro, dicendo: «Come, come! il nostro Carlo! — Ci sei venuto anche tu! — Ma che hai? — Non piangere. — Che fanciullaggini sono queste? — Vieni, vieni, sarai de' nostri....» Egli dando loro un'occhiata severa, e facendo un passo indietro, esclamò con voce risoluta: «No! io non sarò più dei vostri!... lasciatemi;» e perchè forse non poteva più reggersi per la fortissima commozione, si buttò sul letticciuolo che gli era più vicino. I compagni, sconcertati da quella mossa, si ritirarono ristringendosi nelle spalle; l'aguzzino intimò d'andare a letto; e i ragazzi guardandosi tutti con aria di maraviglia, andarono a spogliarsi. Il letticciuolo, sul quale Carlo s'era buttato quasi fuori di sè, era appunto quello di Diego. L'aguzzino, dopo aver tolti i caldani e invigilati i discoli, voleva menar Carlo tra loro. Diego, con buon garbo, gli disse: «Lasciatevelo stare, povero ragazzo, se gli fa piacere di rimaner lì; tanto a me non importa d'andare a letto. Per questa notte posso dormire sedendo qui accanto.» — «Che cosa c'entri tu, ora, a fare il saccente? Bella pietà per un monello!» — «Non lo vedete, che è ancora mezzo svenuto? E poi laggiù con loro non ci starebbe volentieri.» — «Ebbene, vacci tu nel suo posto.» — «O questo poi no! la loro compagnia non piace neanche a me.» — «E che vuoi tu fare costì?» — «Se egli avesse bisogno di qualche cosa...» — «Finisci di sdottorare; non ci son io a badarci?» — «Ma voi non potreste sentire.» — «Perchè?» — «Perchè ve la dormite nella grossa...» — «Temerario! vorresti forse tacciarmi di non saper fare il mio dovere?» — E offeso della sincerità di Diego, quell'uomo brutale, e in quella sera, come spesso accadeva, con la testa alterata dal vino, cominciò a nerbarlo senza discrezione.
Il povero Diego, per non far peggio, si chetò, e andò a rannicchiarsi accosto al suo letto. Intanto un mormorio di biasimo si fece sentire per tutto. Allora l'aguzzino, accortosi forse di aver ecceduto nella collera, lasciando star Diego che non rifiatava, andò nel mezzo del dormentorio e agitando in aria il nerbo, disse con dispetto: «Così si fa ai temerari: e guai a chi parlerà!»
Dopo pochi minuti venne il superiore dell'ospizio a far la ronda consueta. L'aguzzino gli fece il rapporto di Carlo, ma senza parlare di Diego. Questi uscito allora dal suo ricovero seppe con sì buona maniera far conoscere al superiore lo stato di Carlo, la repugnanza che aveva mostrato a stare coi discoli, e il proprio desiderio di cedergli il letto per quella notte e stare a custodirlo che il superiore, umana persona e amorevole verso Diego, che era stato sempre irreprensibile, gli accordò ogni cosa, e ne lodò anche il buon cuore. L'aguzzino stesso fu compunto dalla generosità di Diego, mentre s'aspettava, tremando, un'accusa della commessa imprudenza.
Ora vediamo un po' chi era mai questo Carlo. Nato in una delle famiglie dei così detti Grandi del Regno, in mezzo alle ricchezze e a tutti i comodi e i piaceri della vita, allevato fra le mollezze, adorato dai genitori, che non avevano altri figliuoli che lui, ebbe la disgrazia di perdere la madre quando era sempre nell'età dell'infanzia. Oh! quella di non avere più madre è tra le più grandi sventure dei figliuoli. Chi può mai porgere ad essi le preziose cure materne? Chi ben conosce l'indole, i bisogni, le inclinazioni di un fanciullo, se non colei che gli ha data la vita, che lo ha educato, assistito fin dalla culla? Ah! ben diceva un grand'uomo: La madre è una seconda Provvidenza. A Carlo restava un padre amoroso, e che sarebbe stato capacissimo di fare le veci di lei. Ma costretto a star lungo tempo lontano dalla patria, a motivo della sua carica di ambasciatore, credè provvedere convenientemente all'educazione e all'istruzione del figliuolo collocandolo con ogni maniera di raccomandazioni in un collegio che passava per buono. Ivi, sia che mancassero allora direttori capaci e maestri abili, o che il fanciullo fosse di natura sua disposto a imitare piuttosto i cattivi che i buoni esempi, fatto sta che presto perdette ogni buona qualità, divenne vizioso, nemico dello studio, insubordinato, incorreggibile, e commise alla fine tanti falli, che fu cacciato dal collegio. Il padre afflitto per questa cattiva riuscita del figliuolo, e d'altra parte sempre costretto a star lontano da lui, pensò di affidarlo ad un onesto e sapiente precettore. Questi presolo ad amare e custodire come proprio figliuolo, avrebbe saputo adoperare ogni mezzo per ridurlo buono. Ma i mali abiti presi da Carlo in collegio lo avevano tanto e poi tanto sciupato, che pareva non esservi più rimedio nè speranza di farne, se non un bravo, almeno un onesto giovinetto. Certi compagni della stessa razza, alcuni dei quali erano stati suoi camerati in collegio, altri gli aveva imparati a conoscere fuori, trovarono insieme con lui il modo di deludere la scrupolosa vigilanza del precettore, e si diedero a commettere ogni sorta di azioni contrarie al decoro delle famiglie e alla buona riputazione.
Sapute queste cose il padre di Carlo ordinò addirittura che questo figlio ingrato fosse posto in un luogo di correzione, dove potesse restarne umiliato l'orgoglio, e piegata la volontà, se non agli studi, almeno all'esercizio d'un'arte o d'un mestiere. Scrisse che non voleva oramai considerarlo più come figliuolo, fino a che non avesse affatto mutato condotta. In conseguenza di questo severo comando, Carlo fu fatto chiamare da un magistrato di Polizia. Questi dopo avergli fatta conoscere la gravezza delle sue colpe, e come non correggendosi avrebbe potuto ridursi a peggior partito, gli palesò la volontà paterna, e lo confortò a sottoporvisi per suo bene. Il giovinetto a questa notizia diede nelle furie; ma raffrenato presto dall'autorità della persona che gli parlava, cominciò a riconoscere i propri falli ed a pentirsene; ma troppo tardi. Allo sdegno successe la vergogna, il pianto, la preghiera. «Non è in mio potere,» gli rispondeva il magistrato, «di fare altrimenti in questo punto. Vi siete reso immeritevole dell'indulgenza di vostro padre. Dovete sopportare un gastigo; il mondo è rigoroso, non lo nego; la vita che dovrete menare nell'ospizio per voi assuefatto alla insubordinazione, ai divertimenti, all'ozio, sarà un po' dura; ma quanto più sollecitamente ripiglierete il sentiero della virtù, tanto più presto vi sarà restituita la stima e l'affetto del padre, la riputazione altrui e quella libertà della quale avete abusato.» Accortosi Carlo che quella non era più una semplice minaccia, e che per forza o per amore bisognava obbedire, prese la sua risoluzione, e si sottopose alla meritata pena, lasciandosi condurre nell'ospizio, e proponendosi in cuor suo di correggersi davvero.
Infatti quel ricusare di far lega nell'ospizio coi cattivi compagni non corretti, fece vedere che il proposito era fermo, e che non era ancora spento in lui il sentimento dell'onore. E ci voleva, io non lo nego, un po' di coraggio a perseverarvi anche dopo aver visto il locale e conosciuti i mali trattamenti che vi si usavano. Che se consideriamo che prima Carlo abitava uno dei più bei palazzi di Madrid, era servito di tutto punto, aveva carrozze e cavalli al suo comando, soleva frequentare (quantunque non vi fosse troppo bene accolto) le case dove gli oziosi si studiano di scacciare la noia coi balli ed i giuochi; e ora si ritrovava in quel ricovero di poveri ragazzi, in un dormentorio piuttosto sudicio e nauseante, sopra un meschino letticciuolo senza materassa e con biancheria ordinaria; e sottoposto non solamente al superiore del luogo, ma ancora a quel brutale aguzzino; e che questo gran rovescio di medaglia era avvenuto da un momento all'altro; bisognerà convenire, che il suo animo doveva essere oppresso da straordinario travaglio. Almeno avess'egli potuto buttarsi a' piedi di un padre ed implorare perdono, o meno severa punizione; ricorrere alla pietà di una madre, cercare i conforti e gli aiuti di un amico! Ma no! Il padre era lontano, sdegnato; la madre gli era morta fino da quando era piccino; amici..... oh! ne aveva molti, ma di nome soltanto, ma di quelli che sono anzi indegni del venerato e carissimo nome di amici; di quelli che si accordano a fare il male invece di consigliare il bene, e fanno la corte a chi gli accoglie finchè pare felice; lo scherniscono e lo fuggono quando si propone di essere virtuoso; lo abbandonano allorchè diventa infelice. Ma Diego che non gli era amico, anzi non lo aveva mai conosciuto, e che a vederlo in quel luogo doveva giudicarlo colpevole, pure pensando solamente che era infelice, ebbe compassione di lui, e sopportò anche di essere maltrattato per assisterlo. Chi lo avesse detto un giorno a Carlo, orgoglioso nel suo palazzo, che si sarebbe trovato ad aver bisogno della protezione di un povero orfanello!
Già gli altri dormivano, e Diego si provava a richiamare alla mente la fisonomia di Carlo vista alla sfuggita, ma sembratagli molto espressiva. Infatti Carlo aveva un bel volto, occhi neri e vivaci, ed una capigliatura folta ed inanellata; il colorito di salute, e svelta la persona. Quando questi, sollevandosi sulla sponda del letto dalla parte di Diego, gli prese una mano, e gliela strinse. Diego, alzandosi, gli domandò subito se aveva bisogno di qualche cosa; ed egli, con voce sommessa: «Vieni sul tuo letto; io anderò sul mio se tu m'insegni dov'è. Grazie della garbatezza che m'hai usata. Dimmi il tuo nome perchè io possa benedirlo come il nome di un mio benefattore.» — «Sentite, sarà meglio che seguitiate a stare costì; io v'aiuterò a spogliarvi perchè possiate dormire con più comodo. Le lenzuola son di bucato: un po' grosse, ma pulite.» — «No, no, questo sarebbe troppo» rispose Carlo, e voleva scendere dal letto: ma le forze gli mancavano. «Lo vedete, è meglio che proseguiate a starvi. Tanto io ci sono avvezzo a dormire così.» — «Ma credi tu che io meriti questa tua compassione? Non sai che sono un figliuolo colpevole.... scacciato dalla casa paterna;... che fa orrore a me stesso la vita che ho menato fin qui?» — «Ma se riconoscete di aver fatto male, vuol dire che adesso siete pentito, e che cercate di correggervi. Sentite, io mi son messo qui accanto a voi perchè non ho potuto fare a meno. Quando vi ho visto venir qui con quell'aria tanto afflitta, e quando avete ricusato di far lega con quelli là, mi son sentito intenerire; ho cominciato a stimarvi... a volervi bene.» Carlo da queste parole inaspettate ebbe tanto conforto, che ripreso coraggio e vigore gli buttò piangendo le braccia al collo, e gli diede un bacio. «Dunque tu mi compatisci, tu mi ami? Io non avrei sperato questa consolazione. È tanto, se tu sapessi, è tanto tempo che tutti mi disprezzano! Mi ricordo che da fanciullo quando io era buono, tutti mi accarezzavano, ed allora ero felice. Da che incominciai ad essere cattivo non ebbi più l'amore di nessuno... neanche quello del babbo! Ora... ora forse non sarò più in tempo per ottenerlo... No! mi ha messo fuori di casa; io sarò infelice e svergognato per sempre.» — «Non dite così; quando vostro padre saprà che vi portate bene, dimenticherà il passato e tornerà ad amarvi; ne sono sicuro. Dopo un castigo come questo, si fa celia? Io, vedete! io sono infelice davvero e senza rimedio, perchè non ho babbo nè mamma, e non gli ho neanche conosciuti: mi morirono quando io era piccino. Tutti mi chiamano Diego, ma nessuno mi dice figliuolo, nè fratello.» — «Dio mio! la tua disgrazia è grande davvero; ma tu sei innocente; la tua coscienza non ti rimprovera come a me d'esserti reso indegno d'averli i genitori. Mio padre mi scaccia da sè, mi toglie il nome di figlio.» — «Ma c'è la speranza del perdono.» — «Se non fosse questa, sicuro, non potrei vivere.» — «Dunque state tranquillo, riposatevi, e se avrete bisogno di me, chiamatemi. Sono qui accanto.» E si rimetteva a sedere, giacchè Carlo aveva lasciato la sua mano. «Se ho bisogno di te?...» Soggiunse questi, «sì certo, tu sei il mio protettore; so quanto hai già sofferto per me; veggo proprio che mi sei stato dato dal Cielo per aiutarmi. Nella mia desolazione, in un luogo come questo, con la vergogna che ho, mi era necessaria un'anima che avesse compassione di me. Oh! se io fossi meno colpevole, mi arrischierei a chiamarti amico; ma no!... no..., non sono ancora degno di avere un amico!» — «Sentite, io posso essere buono a poco; ma farò tutto quello che potrò per aiutarvi.» — «Aiutami, sì, aiutami a ritornare virtuoso; per incoraggiarmi, dammi il nome di amico, amami come un tuo fratello; io cercherò di meritarmi la tua amicizia e il tuo amore.» Diego non poteva rispondere da quanto era intenerito; e a quelle parole si sentiva come sollevare dalla sua misera condizione di orfano. Tante volte aveva egli pianto in segreto pel dolore di non avere una creatura che lo amasse quanto egli sentiva di poter amare! Gli affetti soavissimi di figlio e di fratello che la natura pone in cuore a tutti, erano in lui repressi, ma non distrutti; non gli aveva potuti gustare, ma era sempre avido di gustarli; e ora questi affetti erano tutti compresi in quello dell'amicizia che gli veniva offerta in sì commovente maniera.
Fino da quel momento adunque i due giovinetti si sentirono inclinati ad amarsi come fratelli: e appena conosciuta dai compagni di Diego questa amicizia, essi cominciarono a dimostrare per Carlo una parte di quella stima che avevano per Diego. Senza di ciò, Carlo sarebbe stato da tutti considerato come un di quei sciagurati della stanza di correzione; e lo avrebbero sfuggito con ribrezzo. Egli poi ottenne licenza di non dormire in quella camera; ma sì di avere il suo letto accanto a quello di Diego.
Il giorno dopo gli convenne sottoporsi ad una umiliazione che gli sarebbe costata molto, se non avesse già rassegnato l'animo a dimenticarsi della vita passata. Fu chiamato in una stanza terrena e gli fu detto di mettersi a sedere; e poi un perrucchiere gli recise tutta la bellissima chioma che gli scendeva inanellata fino alle spalle. Se due giorni prima il suo cameriere gliene avesse strappato un capello nel pettinarlo, il vanaglorioso contino si sarebbe talmente sdegnato da scacciarlo subito dalla sua presenza. Ora bisognava essere rapato come gli altri. Dopo di che ebbe a spogliarsi dei suoi vestiti, e mettersi la camicia di canapa, l'uniforme dell'ospizio, con le mostre d'un altro colore e i bottoni di metallo, il berretto numerato, e la piastra d'ottone da attaccarsi al petto. In ultimo gli fu detto di scegliersi un mestiere. Egli domandò qual fosse quello esercitato da Diego; e udendo che Diego faceva il tessitore di lana, scelse il medesimo, pensando che così sarebbe stato continuamente con lui.
Fu condotto nel lanificio, e consegnato al maestro di quella officina. Oh! quella officina era ben diversa dal suo elegante salotto di studio. Figuratevi un lungo stanzone con 10 o 12 telaj che facevano un continuo strepito, che unito a quello di varj incannatori e al brusìo de' lavoranti assordava; e aggiungete il molestissimo odore della lana unta, i motteggi di qualche ciarlone, che parevano lanciati contro di lui, e la meschina figura di chi non è buono a far nulla. Per allora fu fatto incannatore. A poco per volta il moto che si dovè dare, la vista dei nuovi oggetti, il buon umore di quelli onesti manifattori, valsero a distrarlo dalla sua malinconia. Ma il suo primo pensiero fu quello di ricercare di Diego, il quale peraltro non v'era. Ne interrogò il suo maestro, e questi gli fece sapere che quel buon giovine andava a tesser fuori dell'Ospizio, perchè insieme con altri pochi aveva ottenuto questo privilegio per la sua abilità nell'arte della lana. Se questa notizia dovè piacergli da un lato, come conferma del buon carattere del suo amico, lo contristò dall'altro, riflettendo che erano pochi i momenti nei quali poteva stare insieme con lui. Invece dunque di trovar Diego nel lanificio, ebbe la mortificazione di incontrarvi due o tre di quelli della camera di correzione, incannatori come lui, rassegnati a quella condizione, e in conseguenza svogliati, e spesso umiliati dai rimproveri dei loro maestri, dagli strapazzi, dai castighi.
Carlo si sottoponeva volentieri ai più rozzi lavori del suo mestiero, e cercava anche delle fatiche per lui troppo gravi, come se avesse voluto con quel continuo affaccendarsi soggiogare l'orgoglio che di quando in quando ricompariva a tentarlo. Ma per tramischiare a quelle facili occupazioni qualche cosa di più soddisfacente per il suo spirito, si pose poi ad ajutar Diego nell'insegnare a leggere, cominciò una lezione di scritto a lui ed agli altri, e si proponeva poi di far loro conoscere l'aritmetica, e qualche elemento di geometria. Quando poteva si occupava con ardore appassionato a richiamare alla memoria certe poche nozioni di meccanica che aveva acquistate nei tempi scorsi.
Questa nuova vita ei l'avrebbe chiamata felice, se il pensiero del padre da lui offeso non l'avesse afflitto continuamente. La sua buona condotta poi era premiata dall'amore di Diego e dalla benevolenza degli altri che volentieri si familiarizzarono con lui.
Quindi mostrandosi ognora più umile e compunto, anche dal direttore fu valutata la sua costanza nella virtù. E siccome ogni sabato sera i lavoranti andavano nello scrittojo dell'ospizio e veniva loro distribuita una certa sommerella di quattrini, la quale cresceva o diminuiva secondo il maggiore o minore lavoro che avevano compito nella settimana, così anche Carlo fu dopo qualche tempo ammesso a questa distribuzione. I compagni se ne rallegrarono molto; e qualche volta spontaneamente gli rendevano giustizia, e ne facevano elogio alla presenza del superiore e di Diego. Oh quanto gli erano care quelle lodi sincere dei poveri e virtuosi artigianelli! Che differenza tra esse e la vile adulazione degli stolti che lo corteggiavano ai tempi addietro! Ma sebbene Carlo avesse ripreso fiducia nella virtù, e si sentisse ormai la coscienza tranquilla, pure quante volte pianse con Diego il silenzio di suo padre! Egli aveva perfino incominciato a temere che quel genitore giustamente sdegnato si fosse affatto scordato di lui, e lo avesse abbandonato per sempre. Quand'ecco una sera, mentre erano per andare a letto, Carlo, fuori di sè dalla gioja, corse da Diego e gli disse: «Bisogna separarci per ora; stasera rivedrò mio padre che è tornato, e mi ha perdonato; la mia gioja è indicibile; una sola cosa mi dispiace: di non ti poter condurre meco; ma conoscerà mio padre, conoscerà colui che gli ha salvato il figliuolo. Addio.» E abbracciatisi teneramente i due amici si separarono; l'uno per correre al seno di un padre non veduto da tre anni, l'altro per rimanere orfano nell'ospizio dei poverelli. Diego non potè proferire alcuna parola; ma tutto lieto della felicità dell'amico, si coricò sul meschino suo letticciuolo accanto a quello abbandonato da lui. Per qualche ora non potè addormentarsi. Con una soavissima compiacenza si figurava tutte le consolazioni che in quella sera l'amico suo avrebbe gustate: il perdono, il riacquistato affetto di un padre; la stima riottenuta da tutti; il rivedere l'abitazione e le cose sue; il ritornare a godere di una libertà di cui non avrebbe più abusato. In mezzo a questi dolci pensieri gliene venne uno sinistro: Carlo, nella sua nuova vita si ricorderà dell'orfano lasciato nell'Ospizio?... Ma presto lo scacciò dalla mente: era tanto grande il loro affetto, s'era manifestata così bella l'anima di Carlo, che Diego lo avrebbe troppo offeso dubitandone per un solo istante.