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VI. La vera beneficenza.

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Carlo usciva dall'ospizio dei poveri industriosi con l'animo migliorato dall'esempio della loro virtù, e il cuore intenerito dalla dolcezza dei loro sentimenti. La superiorità che essi avevano naturalmente acquistata sopra di lui invece di abbassarlo nell'opinione di se stesso, lo aveva liberato dai folli pregiudizi dei giovani vanagloriosi, e fattogli conoscere che la vera nobiltà dell'uomo consiste nella illibatezza dei costumi e nel sapere. In mezzo alla gioia del dover rivedere tra poco suo padre, e del sentirsi degno di perdono e d'amore, gli doleva non solamente di essersi dovuto separare a un tratto da Diego, ma anche di aver lasciati gli altri buoni compagni, e quelle mura testimoni del suo ravvedimento e gli arnesi del suo mestiero onorato, e l'umile strapunto sul quale aveva dormito tanti sonni tranquilli. Avrebbe voluto tornare ad abbracciar Diego, perchè gli pareva di averlo lasciato troppo freddamente; per due o tre volte rivolse lo sguardo alla porta dell'Ospizio, e sospirò pensando che tante anime amorevoli e virtuose, tante menti svegliate vi fossero quasi che imprigionate sotto un duro governo; ma poi si rammentò che quei giovanetti erano rassegnati e contenti della loro sorte, che sapevano condursi in modo da non aver a temere la più severa disciplina, che non conoscevano cosa fosse la invidia; e che egli v'era entrato con la fronte bassa e il volto coperto di rossore, ed ora ne usciva pieno di fiducia in se stesso, e con la coscienza tranquilla. Tanto egli era occupato da questi pensieri che solamente quando fu presso il portone del palazzo di suo padre, e in mezzo allo splendore del gran lampione che ne illuminava l'atrio, vide luccicare la piastra d'ottone che aveva sul petto e s'accorse che era sempre vestito dell'uniforme dei poveri. Il segretario di suo padre, la persona che era andata a pigliarlo, ne lo aveva avvertito prima che lasciasse l'Ospizio; ma egli impaziente di volare ai piedi del genitore, non gli aveva potuto dar retta, nè trattenersi un istante per mutarsi le vesti. Quando erano per salire le scale del palazzo preceduti dai servi con le torce accese, cosa che fe' venire sulle labbra di Carlo un sorriso di compatimento a quel fasto ridicolo, il segretario gli ripetè: «Vostra Eccellenza vuol presentarsi in quest'abito?...» Carlo dolcemente lo interruppe, dicendo: «Quando mio padre saprà quanta virtù ho conosciuta sotto queste vesti, non si offenderà di vedermele indosso.» — «Ne sono persuaso, Eccellenza; ma se le poteva mutare. Io avevo fatto già ritrovare le sue all'Ospizio.... Non vorrei che Don Alonzo mi rimproverasse.» — «Ma egli ha mandato a ripigliar me, e non le mie vesti;» e così dicendo, faceva in due salti gli ultimi quattro gradini della scala di marmo.

Appena entrato nella sala, vide spalancarsi la porta di una stanza, ed apparire sulla soglia suo padre; suo padre che lo aspettava a braccia aperte e con la gioia dipinta sul volto. Carlo non badò che fossero presenti il segretario ed i servi; ma subito corse a buttarsegli ai piedi, esclamando:«Perdono!» — «Sì, figlio mio, ti ho già perdonato. La tua buona condotta nell'Ospizio ti rende meritevole di tutto l'amor mio. Alzati: dammi un bacio....»

Le lacrime del vecchio e del giovinetto si unirono insieme: e dopo un lungo sfogo di tenerezza, Don Alonzo esclamò sospirando: «Perchè non è ella viva tua madre? Povera Cristina! Sarebbe questa la più bella ora della sua vita!» Carlo a tali parole si sentì commovere più che mai; e più vivamente gustò la consolazione di avere riacquistato l'affetto di un padre. Quando furono rimasti soli, Don Alonzo appoggiato alle spalle di Carlo andò a porsi a sedere, e si tenne il figliuolo fra le braccia con lo stesso giubbilo col quale era solito accarezzarlo da piccino. Lo guardava fissamente, e vie più se ne compiaceva scorgendo nell'espressione dei suoi lineamenti la contentezza di una coscienza pura, la verecondia dell'età, e le sembianze venerate e care della estinta sua sposa. «Dopo tre anni di separazione, diceva egli, dopo aver tanto sofferto per te....» (a queste parole Carlo si sentì stringere il cuore, e chinò il volto pieno di rossore) «dopo aver corso tanti rischi ne' miei gravi uffici, il ritrovarti meritevole di tutto l'amore di un padre, è una consolazione sovrumana, figliuolo mio! Godiamola tutta, non ci addoloriamo più del passato; cancelliamo ogni memoria funesta. Sì, tu sei il mio Carlo. Oh! non saremo mai più separati.» E così dicendo, fissava i suoi sguardi in un quadro di Murillo[12] che rappresentava il Figliuol prodigo della Scrittura. — «Ma tu non sai, caro padre, disse Carlo, chi ti ha salvato il figliuolo.» — «So tutto: e vedrai se io saprò esser grato al nostro Diego.» — «Oh sì! toglilo, per pietà, toglilo dalla sua misera condizione. Egli era nato per avere un padre come te.» — «E lo avrà.» Carlo gli si buttò al collo, ricoprendolo di carezze.

«Impara, soggiunse Don Alonzo, impara, figlio mio, a rispettar l'indigente che per nostra vergogna è tanto vilipeso tra noi. Vi sono degli uomini inetti che non si degnan considerarlo come loro simile, mentre essi non hanno meritato giammai un grado nella società. Non valutano altro che le ricchezze e i titoli, perchè il debole intelletto e lo stolto orgoglio non si solleva a idee generose. Tu hai avuto in tempo una bella lezione, e spero che tu ne saprai approfittare per sempre. Tu vedi intorno a te le ricchezze; ma ricordati continuamente che a te non appartiene altro che la virtù e il talento di saperle adoperare a vantaggio de' tuoi fratelli, e che la più bella compiacenza dell'uomo facoltoso è quella di sentirsi degno della stima e dell'amore di tutti.» Così quella sera fino a notte avanzata, la passarono in dolce colloquio, fecero dei progetti per Diego, e non si saziarono di stare insieme.

La sera dopo i parenti e gli amici di Don Alonzo andarono in buon numero, e con tutto il fasto dei grandi di Spagna, a visitare l'ambasciatore. Le stanze erano sontuosamente addobbate e illuminate. Tutti si rallegravano coll'ambasciatore di rivederlo in patria, sano e in prospera fortuna, per aver con molta riputazione, e con buon esito compiute le gravi incombenze affidategli dallo Stato. Ma egli ringraziandoli delle loro congratulazioni, andava ripetendo agli amici più confidenti e più stimabili: «Or ora avete a rallegrarvi meco per una fortuna di gran lunga superiore a queste.» Niuno di essi sapeva di qual fortuna egli intendesse parlare, e stavano in molta aspettazione. Quando egli, dopo essersi per alcun tempo separato dalla comitiva, ritornò in mezzo ad essa, conducendo per mano Carlo e Diego col loro abito dell'Ospizio, dicendo ad alta voce: «Ecco, io aveva perduto un figliuolo, e ne ritrovo due: questi è il mio Carlo, e questi è Diego suo amico;» e così dicendo li baciava e gli abbracciava ambedue. A tale scena inaspettata molti cuori si intenerirono, e si alzò un applauso generale di approvazione e di affetto per quel padre virtuoso e per quei buoni giovinetti.

Vi fu non pertanto taluno al quale parve che quell'azione del vecchio ambasciatore e quell'abito del suo figliuolo dovessero oscurare il decoro della famiglia; ma costoro veramente erano di quei cotali cortigiani abietti che giudicano della dignità e del valore di un uomo dal numero dei servi e delle carrozze che ha, dai titoli della famiglia, e massimamente dalla copia e dalla squisitezza delle vivande. Tutti gli uomini di senno goderono di cuore con Don Alonzo della sua felicità, e cercarono di far conoscenza con Diego. Don Alonzo, presentandolo ad essi, narrava come la sua virtù gli avesse indirizzato sulla via dell'onore il figliuolo, e Carlo stesso ne faceva risaltare i meriti. Ma Diego col suo fare un po' rozzo, ma bello perchè sincero ed energico, rispondeva che tutto era dipeso dalle buone disposizioni e dal pentimento di Carlo; che egli non aveva fatto altro che volergli un gran bene, giacchè il cuore di un orfano quando trova corrispondenza ama davvero, ama costantemente.

Finita la conversazione, Diego voleva tornare all'Ospizio; ma era tardi, e non gli sarebbe stato possibile entrarvi. Sicchè dovè restare nella casa del suo amico.

«Forse ti dispiacerebbe, gli diceva Don Alonzo, di abitare con noi, e non più nell'Ospizio? di abbandonare il tuo mestiero, onorato sì, ma faticoso e misero, per istruirti nelle scienze e nelle arti, e per coltivare con ogni mezzo il tuo ingegno? Ecco, tu sei infelice perchè non hai una famiglia; e qui trovi un padre e un fratello. La tua virtù, il servigio grandissimo che tu mi hai reso, aiutando Carlo a perseverare nel suo proposito di correggersi, meritano una ricompensa molto maggiore di quella che io ti offro. Sì, Diego, sì, figliuol mio: Carlo ed io vogliamo oramai tenerti per nostro; tu porterai il nome della mia famiglia, goderai insieme con Carlo delle mie ricchezze; io avrò due sostegni, due difensori nella vecchiaia, e in questo modo mi renderai un beneficio più grande di quello che io ti fo. Sarai sempre compagno fedele del mio Carlo; ed io morrò con la consolazione di non averlo lasciato solo.

«Il Direttore dell'Ospizio ti ha già accordato la libertà. Non manca altro che il tuo consentimento. Rispondi, e seconda i miei desiderj per accrescere la nostra fortuna.» Così dicendo egli teneva le sue braccia sulle spalle di ambedue i giovinetti, e Carlo posando una mano su quella del padre, stringeva con l'altra la destra di Diego, e lo guardava fisso fisso, come per interpetrare i suoi pensieri dall'espressione del volto. Ma Diego immerso a tal discorso in profonda riflessione, teneva la testa chinata sui petto, non corrispondeva alle strette di mano di Carlo, e vi furono alcuni minuti di silenzio prima che proferisse queste parole: — «Che ho io fatto per poter accettare le vostre offerte? Null'altro che il mio dovere. Tutti dobbiamo essere buoni, ed aiutare il nostro simile, e chi lo fa, non ha bisogno di premio; e poi il premio, v'è chi ce lo dà segretamente qua dentro. Ma di qual servigio parliate, io non lo so. Carlo mi chiese amicizia; io mi sentii disposto ad amarlo.... Tu, Carlo, rispondi a questo affetto, e mi consoli tanto col chiamarmi fratello; voi mi volete esser padre; che posso io desiderare di più? O perchè dovrei io abbandonare il mio mestiero, lasciare il nome dei miei poveri genitori, che io non ho conosciuti, ma sono sempre loro figliuolo; che io non vedo, ma so dove sono sepolti e vo a piangere sulla terra che ne ricuopre le ossa? Non potrete voi forse continuare ad amarmi nella mia condizione? Oh! io sento per voi un affetto che non so dire, tanto egli è tenero e grande; ma sono anche affezionato agli arnesi del mio mestiero, ai compagni che ho lasciato nell'Ospizio, alle speranze che ho per la mia sorte avvenire. Continua ad amarmi, sì Carlo; non potrei vivere senza questa certezza; e voi, Don Alonzo, continuate a chiamarmi figliuolo, perchè alleggerite così l'afflizione di un orfano; ma lasciatemi nella mia condizione oscura e tranquilla. Queste grandezze, lo sento, non sono fatte per me. Finchè avrò salute e voglia di lavorare, avrò tanto che basti per soddisfare a' miei bisogni. Tra un anno il mio principale mi passa lavorante; esco dall'Ospizio se voglio, sono liberissimo di me stesso. Non potrei rinunziare a questa speranza, tradire così i miei compagni e gli obblighi che ho contratto nel mio mestiero. Oh! se non mi fossi già incamminato in una professione, potrei chiedervi consiglio ed aiuto; ma or ora sono lavorante, ed ho in mano un'arte che può fare dei passi, e darmi un pane discreto e una buona riputazione.»

Carlo rimase maravigliato a questo discorso. Don Alonzo ne riconobbe la saviezza, ed esaminando con più attenzione i tratti di Diego, si accôrse che egli doveva avere una di quelle anime elevate che si congiungono al vero merito, si accorse che il volerlo porre nel grado suo non era un farlo salire ma piuttosto un farlo scendere, giacchè errano molto coloro i quali si argomentano di sollevare a maggiore stato gli uomini ponendoli in mezzo alle pompe o fregiandoli di titoli. Il proprio merito è la vera, la sola dignità che possa mettere l'uomo al di sopra degli altri. Sicchè Don Alonzo rispose tosto:

«Così parla un bravo Spagnolo: Diego, tu sei il mio amico. Fa' dal canto tuo quello che giudichi meglio. Io so cosa apparterrà di fare a me.»

Carlo che aveva poca esperienza degli uomini, ed era tanto persuaso che Diego avrebbe accolto l'occasione di mutare stato, non potè subito indovinare quel che passava per la mente di suo padre, e ne rimase mortificato. Non volle insistere, perchè sapeva quanto Don Alonzo fosse fermo nei suoi proponimenti, e perchè vide ritornare sul volto di Diego la serenità d'un animo contento.

Pur diceva tra sè: «Io non capisco come un meschino artigiano possa ricusare la fortuna di diventare a un tratto ricco signore.» E infatti a molti altri giovanetti abituati a vivere signorilmente, e che non hanno avuto mai occasione di conoscere la condizione di un artigiano onesto e capace, potrebbe questa parere una cosa strana.

Ma siccome Carlo aveva già goduto delle dolci soddisfazioni della vita operosa, così non indugiò molto ad accorgersi che Diego poteva ragionevolmente preferirla a qualunque altra. Infatti non avendo più da darsi tanto moto nella giornata, cominciò a dormire sonni meno profondi, e le morbide materasse del suo letto parato gli facevano spesso desiderare lo strapunto dell'Ospizio.

Benchè avesse già preso ad occuparsi di qualche studio con ordine e buona volontà, pure talvolta una certa malinconia lo tormentava. E riuscivagli gravoso il dovere stare in sussiego alla presenza dei grandi che incontrava, l'udire le adulazioni dei servi o dei protetti di suo padre, l'essere trattato per tutto con complimenti affettati, il doversi sottoporre spesso a noiose cerimonie.

Sapeva bene egli accordare il dovuto rispetto a ciascuno, e si studiava di seguire le buone regole della civiltà; ma queste non bastavano con i grandi, avvezzi a cerimonie ampollose e stucchevoli; ed egli, semplice e schietto, si nauseava di tutti quei modi artificiosi. — Diego intanto, ritornato nell'ospizio, fra' suoi compagni, al suo telaio, continuava a vivere tranquillamente, e non si era pentito del suo rifiuto.

Carlo andava spesso a visitarlo tanto nell'Ospizio che a bottega; e quivi ritrovava tutta la ingenua letizia, si godeva la dolce domestichezza degli onesti artigiani, la loro sincera affezione, la semplicità e la franchezza delle loro maniere.

Diego poi qualche volta visitava Don Alonzo, e in specie le domeniche si tratteneva con Carlo a continuare il suo studio dei principj di geometria. Questi in poco tempo, aiutato da un maestro, riacquistò le cognizioni dimenticate in quella scienza, e così poteva ripeterle a Diego che vi aveva presa una passione grandissima. Una volta Don Alonzo assisteva a una di queste lezioni. Arrivati a mezzo, nasce una difficoltà; e Carlo non sa più andare avanti.

Diego, quasichè non accortosi del suo imbarazzo, pare immerso in profonda meditazione.

Don Alonzo, come uomo molto istruito, avrebbe saputo levare la difficoltà, quantunque non fosse delle più leggiere; ma accortosi che l'ingegno di Diego tentava di superarla con le proprie forze, fe' cenno a Carlo di tacere, e aspettò. Infatti Diego non tardò a far conoscere sorridendo che aveva trovato la soluzione del problema, e si pose ad aiutare Carlo ad intenderlo. Lo scolaro era divenuto maestro. Così fu d'allora in poi; e allorchè Don Alonzo, che teneva dietro con gran premura ai progressi di Diego, propose lo studio della meccanica, allora sì che l'ingegno dell'orfano si manifestò veramente straordinario.

Appena conosciuto l'effetto e le proprietà delle macchine elementari, Diego seppe intendere l'artifizio delle più complicate, immaginarne delle nuove e applicarle ai lavori del suo mestiere.

Bisognava proprio dire che la natura lo avesse fatto nascere per i progressi di quella manifattura. Intanto Don Alonzo, unitamente al principale di Diego, provvedeva in segreto ai modi adattati a coltivare un ingegno che poteva riuscire utilissimo al suo paese.

Era già trascorso un anno, e Diego doveva passar lavorante. Nel medesimo giorno nel quale un anno fa il garzoncello preferiva alle ricchezze e ai piaceri di una vita signorile la speranza di esser fatto lavorante, Don Alonzo e Carlo andarono a trovarlo nel lanificio, e insieme col suo principale lo condussero fuori. Arrivati in una delle primarie strade di Madrid, si fermarono di faccia ad un edifizio costruito di nuovo, e che aveva l'aspetto di una fabbrica per la manifattura della lana. Don Alonzo cavò fuori le chiavi dello stabile, e vi introdusse la comitiva. Era esso spazioso, elegante senza fasto, corredato di tutti gli arnesi della manifattura i più perfezionati, come telai, incannatoi, cardi ec., e provveduto di tutti i comodi immaginabili. V'era un vasto magazzino ripieno delle lane più pregiate che dar potessero i merini di Spagna; una buona quantità di acque sorgenti, un vasto cortile, un comodo scrittoio. Dopo aver tutto visitato minutamente, e riconosciuti i pregi di quella officina, formata come per incanto, Don Alonzo disse: «Questo è un bel corpo, come vedete: ma gli manca l'anima.»

Tutti guardarono Diego; e Carlo che aveva già indovinato il pensiero del padre, correndo all'amico e abbracciandolo, esclamò: «Eccola qui, eccola qui l'anima che ci vuole.» — «Così è, Diego mio, soggiunse Don Alonzo; oggi il tuo principale ti fa lavorante, e sei libero di te. Ecco la tua officina, egli ti sarà compagno ed aiuto; scegli fra i tuoi amici dell'Ospizio i lavoranti e i garzoni dei quali avrai bisogno per la tua manifattura. Carlo sarà il tuo ministro, il tuo segretario: io ho già messo a tua disposizione una somma che ti servirà di capitale; e tutti i miei greggi di merini son tuoi. Ecco qui un contratto col quale sei dichiarato perpetuamente possessore dell'edifizio, delle macchine, dei merini e del capitale.

«Prendine il possesso, lavora e prospera. Spero che oggi non mi risponderai come un anno fa.» — «No, uomo generoso, riprese egli baciandogli la mano con un trasporto di riconoscenza, io non ricuso i vostri benefizi; avete secondato la mia inclinazione; saprò approfittarmi degli aiuti che mi porgete, ma permettete che io gli accetti come imprestito, e non come dono. Questo edifizio, questi oggetti, il capitale, ogni cosa sia vostra per ora; io voglio acquistare tutto ciò coi miei guadagni. E se un giorno potrò dire, come spero, che tutto è frutto dei miei sudori, allora il vostro sarà vero benefizio, allora io mi compiacerò d'averlo meritato. Se non mi accordaste questa grazia, io sarei costretto a ricusare di nuovo le vostre offerte generose.» — «Ebbene, rispose Don Alonzo, sia fatto come tu vuoi. Io ti ammiro sempre più, e non mi vergogno a confessare che sei più savio di me. Rispetto l'indipendenza dell'ingegno, e convengo che è meglio che tu ti adoperi con le tue proprie forze a venire in miglior condizione. Hai ragione, i ricchi non debbono donare, ma somministrare al povero i modi perchè lavori, e così acquisti prospero stato con la propria industria. È vero tuttavia che io non aveva intenzione di soverchiarti, ma solamente mi muoveva ad operare così il molto desiderio che ho di farti conoscere la mia gratitudine, e di rendere giustizia alla tua virtù.» — «E a me parrebbe di essere troppo ingrato se non riconoscessi queste buone intenzioni. Perdonatemi: io mi son sentito costretto a parlare in quel modo da un interno sentimento che non saprei come spiegare.» Tanto Don Alonzo che il principale convennero di nuovo che Diego aveva ragione, e che andava lasciato libero di fare in quella maniera.

Carlo non intese alla prima la ragionevolezza di quelle riflessioni; trasportato con ardore dal suo affetto per Diego, avrebbe voluto dargli tutto se stesso, avrebbe barattato condizione; ma poi si avvide che appunto questo suo desiderio di trovarsi nella condizione di Diego piuttosto che nella sua, veniva anche dal vederlo incamminato ad una professione conforme alle sue inclinazioni e alla sua capacità, e dal conoscerlo tanto pieno di saviezza per sapersi regolare nelle diverse occorrenze. Voleva esser Diego, perchè Diego ne' suoi diciotto anni era già uomo fatto per abilità e per senno.

Qui fermiamoci, e godiamo nell'immaginare come Carlo sapesse usar bene della sua fortuna, e come Diego divenisse abilissimo e facoltoso principale di fabbrica, e potesse adoperare l'ingegno per il bene della patria.

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