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III. La buona e la cattiva compagnia.
ОглавлениеSulla panca degli scolari negligenti fu visto un giorno un giovinetto che per l'innanzi non v'era mai stato. «Enrico sulla pancaccia!» maravigliati sussurravano i condiscepoli sopravvenienti. A molti ne dolse, chè Enrico sempre buono e bravo era stato. Tre soli ne risero, e appunto sedevano sgraziatamente sulla medesima panca: era quello il loro posto dal principio alla fine dell'anno. Enrico sgomentato, a testa bassa, con una mano alla fronte e l'altra sopra la coscia, fissava gli occhi sul libro senza battere palpebra, non decifrava verso per la velatura del pianto. Stato così una mezz'ora immobile si risentì lamentandosi: «Perchè mi fermai io a quella rissa di mercatini? Che ne ricavai dagli urli, dalle bestemmie, dalle busse di quei disgraziati? Stava bene a un ragazzo vedere e sentire tali cose? Avessi potuto entrare di mezzo, a spartirli e farli tornare amici, non dico.... Ma per curiosità, per ispasso.... Oh! se in quel tempo avessi studiato la mia lezione, oggi non sarei venuto a questi ferri. Tutti mi passeranno avanti! E son vicini gli esami! Povero me! che passione!» Intanto egli non capiva la nuova lezione che il maestro spiegava pel giorno dopo. Punto nell'amor proprio, tormentato dai rimorsi di un primo fallo, avvilito dalla vergogna, trascurava il rimedio, e peggiorava il suo stato. «Non ti confondere (gli subornava il negligente matricolato); quaggiù si sta allegri.» — «Da' retta a me (gli rifischiava quell'altra buona lana): Vedi questo filetto[9]? è fuori del tiro del Maestro[10]. Animo! una partitina, e quel che è stato è stato.» Enrico inorridiva, e si turava gli orecchi. «Ancora non è tempo (dissero fra loro i due tentatori); è troppo cùcciolo.»
La lezione finì, gli scolari uscirono a coppia; Enrico se li vide sfilare davanti; e chi lo guardava compassionando, chi gli faceva animo, chi gli diceva: «Torna presto tra noi!»
Uno di essi, l'amico suo sviscerato, Giulio figliuolo d'un fornaio, gli strinse forte la mano, e con volto acceso d'affetto, gli fece capire che era pronto e facile il riparo alla sua disgrazia; che dovea far capitale del suo aiuto; che, per essere un giorno o due confinato laggiù, non avea perduta la stima di lui nè degli altri.
Passati i primi, si mosse anch'egli da ultimo intenerito, confuso e male in gambe. Di passo, rasente il muro, col capo in seno si ridusse a casa per la più corta.
La mamma non v'era: da tre giorni lavorava fuori a giornata. Gli aveva dato la chiave; sapeva di potersi fidare, che sebbene il figliuolo avesse appena dodici anni, mostrava senno per venti. Era una mamma di proposito; vedova e bracciante, ma contenta della sua condizione, confortandosi dell'avere un figlio savio, amoroso e di talento; e si procacciava col lavoro il necessario per campare, e per mantenerlo alle scuole le conveniva misurarsi a puntino, ma sapeva farci entrare ogni cosa; ed Enrico, benchè tutta non conoscesse la sua povertà, pure per naturale moderazione delle voglie, e per virtuosa semplicità di costumi, se ne stava contento di quel vitto e di quel vestito che aveva; teneva in ordine e custodiva bene ogni cosa, e benedicendo l'umile ma provvida e amorosa industria materna, studiava di proposito per arrivar presto a guadagnarsi il pane col suo sapere.
Ma postosi a tavolino, questa volta si ritrovò affatto diverso da quel di prima. Un passo falso, non riparato a tempo, uno scoraggiamento improvviso gli avevano fatto divenire ottusa la mente e duro il cuore. Non ricavava costrutto dai libri, si sconfortava della tardità dell'intelletto, si vergognava di se medesimo. Disperando di riuscire negli studi perdeva quella fidanza nelle proprie forze, quella pronta lucidezza di mente, quella volontà lieta, intrepida e costante che eccita, abbellisce e rende profittevole l'occupazione di un giovinetto. Amareggiato di questa lacrimevole condizione del suo animo, respinse da sè con dispetto i libri, e andò alla finestra per distrarsi con nuovi oggetti dalla passione che tanto lo tribolava. Dopo esservi stato qualche minuto, vide passare quei tre della panca dei negligenti, che spensieratamente sgloriati girellavano abbraccetto; vestiti con eleganza, e con una certa andatura da snoccolati che pareva non avesser mai avuto un pensiero al mondo. «Vedete? (disse egli tra sè) vedete chi se la gode? Essi sono ricchi, vestiti bene, si divertono e non fanno mai il loro dovere alla scuola; ed io per aver mancato una volta, la prima volta, ecco qui m'arrovello senza conclusione, son rovinato senza rimedio.» Se l'amarezza del pensiero non glielo avesse impedito, egli avrebbe pianto: ma invece si morse i labbri con ira, e cacciò le mani per entro a' capelli. In questo frattempo sua madre spuntò dalla cantonata. Veniva via lesta lesta, perchè l'ora del cibo era trascorsa, e temeva che l'indugio pregiudicasse il figliuolo. Quei tre storditi al vedere una femminetta tanto frettolosa, vestita all'antica, che batteva il tacco e faceva sventolare la gonnella, trovarono da riderci sopra e si presero il gusto di attraversarle, ora da una parte ora dall'altra, la via, beffandola con atti e parole da rompicolli. Enrico, acceso di sdegno, era per uscire precipitosamente dalla finestra e scendere nella strada, quando parvegli che la giustizia del cielo facesse le sue parti. Un signore autorevole capitò all'improvviso alle spalle dei temerari, e con un solenne ceffone per ciascuno, li fece fuggire a gambe, scornati e rincorsi a fischiate dai ragazzi delle botteghe. Calmato Enrico da questa inaspettata lezione a quei signorini, corse incontro alla mamma, proferendo invettive contro di loro. «Enrico, diss'ella, carezzandolo dolcemente, non ti curare di certa gente. Che male hann'eglino fatto a me? Avrai visto ancora a chi è toccata la peggio. Pensa a rispettarla tu la tua povera mamma, sebbene vestita da contadina. Mi dispiace per le mamme loro, perchè quando i figliuoli non rispettano quelle degli altri, vuol dire che non hanno mai saputo rispettare la propria. Tu grazie a Dio non rassomigli ad essi; e se io non ho da mostrare i vestiti belli e le gioje, mostro un figliuolo da potermene tenere, che è la gioja più preziosa d'una donna.» Enrico non seppe che cosa si rispondere; chinò la testa, arrossendo di quella lode che allora non meritava; di quella lode che altre volte lo riempiva di giubbilo, e lo moveva a slanciarsi al collo di sua madre; ma in quel momento... in quel momento gli stringeva il cuore lo spasimo del rimorso. Tornò a sedere compunto, fece proposito di cercare ogni modo per ajutarsi, riprese i libri; ma l'animo non gli resse alla prima difficoltà che incontrò. Il pensiero di aver tradito una madre così affettuosa e che riponeva tanta fiducia in lui, la memoria degl'insulti a lei fatti da quelli stessi dei quali in scuola era divenuto compagno nel posto ignominioso, avevano aumentato la sua confusione, e reso più disperato il suo caso.
Di lì a poco tempo il desinare fu all'ordine. Enrico mangiava svogliatamente; la madre lietamente affaccendata, ancora non se n'era accorta. Quand'ebbe ripreso fiato e si fu posta a sedere di faccia a lui: «E oggi» gli disse «che cos'hai tu di bello da raccontarmi de' tuoi studj?» — «Nulla, mamma, nulla.» E tacquero. Poi: «Mi pare che tu non abbia il tuo solito appetito. Cosa vuol dire? Pensi forse a quell'incontro di poco fa? Giuccherello! se te l'ho detto! Io per me non ne fo caso davvero. Non ho nulla che fare con loro. Sono maleducati, saranno ignoranti... Sicuro, non può essere a meno; scommetto che se andassero a scuola, sarebbero in quella panca che tu m'hai raccontato a volte... come si chiama?... la pancaccia, mi pare; sì, la panca dei negligenti, dove tu, benchè non abbia la giubba bella, e la mamma ricca, non sei mai stato, nè mai...» — «No, mamma (esclamò Enrico fremendo), no, mamma, non ne parliamo più!» — «Così è; non amareggiamo questo boccone da poveri braccianti, che non ha astio ad un pranzo, specialmente quando il mio Enrico ha da darmi una buona nuova. Domenica, eh? domenica ragioneremo delle tue cose, perchè tu sai che due paroline teco mi fanno tanto piacere.» In questo mentre un pigionale che scendeva le scale in compagnia d'un altro, diceva forte: «O non sarebbe meglio palesare ogni cosa? Più che s'aspetta, peggio è...» Enrico non intese altro. Queste parole, dette chi sa per qual motivo, ma venute a proposito per lui come una buona ispirazione, lo fecero a un tratto cambiare di colore, e restare immobile a riflettervi. Sua madre s'era alzata. Ritornando a sedere, diceva: «Animo, dunque, da bravo: mangia...» La sua voce lo riscosse dalla riflessione; e la buona donna tutta compresa dall'idea di custodire un buon figliuolo, non sapeva raccapezzarsi perchè egli fosse tanto serio quel giorno, e non le passava neanche per la mente un sospetto che lo potesse offendere. Attribuiva tutto al dispiacere da esso provato nel vederla insultare. «Povero ragazzo! (ella diceva tra sè, sparecchiando) è tanto sensibile, mi vuol tanto bene, che non può soffrire che mi venga torto un capello. Tira da suo padre, buon'anima. I soprusi, e poi da certa gente che non ha altro merito che di avere in tasca qualche soldo più di noi, non li poteva patire: era di sangue caldo.» Sparecchiato ch'ella ebbe, ritornò sollecita al suo lavoro, non pensando neppure per ombra che a lasciar libero Enrico gli potesse venire la tentazione di non studiare, o che so io, da quanto era grande la fiducia ch'ella aveva nella sua saviezza.
Egli ebbe così molto campo a riflettere, a studiare; ma inutilmente. Lacrime, lamenti, disperazioni, propositi vani, e poi daccapo disperazioni. Venne la sera; non aveva concluso nulla. Sul punto di lasciar la mamma per coricarsi, quand'essa lo abbracciò e lo baciò teneramente, gli ribollirono in capo quelle parole: non sarebbe meglio palesare ogni cosa? Ma egli, divenuto pusillanime, sempre scacciò la buona idea che gli attraversava la mente nelle più favorevoli congiunture. Quella notte gli pareva essere sopra un letto di spine; mai eragli intravvenuto di stentar tanto per addormentarsi. Alla fine serrò gli occhi, ma non ebbe altro che sogni stravaganti e paurosi. La mattina si levò che pareva melenso; la madre considerando come fosse tra il sonno, andò al suo lavoro. «Caro piccino!» diceva per via «studia con tanta passione, che anche dormendo vi pensa... Ma gli farà poi male tanto sizio?... M'hanno assicurato di no; a studiar di genio, nessuno patisce; e poi se è bianco e rosso come una rosa! Nelle vacanze che si trova meno occupato, non ha tanto brio, e pare che mi dimagri. Ora vien su proprio sano e robusto...;» e più altre cose, tutta lieta d'un bene che non le era giammai paruto fallace.
Questa volta Enrico, per andare a scuola, aspettò che le ore gli suonassero in casa; a mezza strada si ritrovò senza libro; tornò indietro con fretta; fatti pochi passi, l'idea di entrare degli ultimi a scuola lo spaventò: passare e ripassare fra mezzo alla scolaresca... vedersi tutti gli occhi addosso collocarsi laggiù... no no! sarebbe troppa vergogna. Ma come fare? andarvi senza libro. Corse e arrivò che appunto il maestro apriva la scuola. Tutti gli alunni erano voltati alla porta: entrò l'ultimo non veduto: subito si strisciò nel suo posto. Ma per tre volte parecchi sguardi si volsero a lui, quando un dopo l'altro giunsero sfrontatamente i suoi nuovi compagni di posto, e per tre volte arse di sdegno, raccapriccì di doverli ricevere accanto e dover sentire i loro discorsi inverecondi, i loro dileggi villani. Oh! se non fosse stato in scuola, chi lo teneva dall'abbandonarsi a un eccesso? Eppure in quei momenti si ritrovava per forza congiunto a loro, avea quasi bisogno di loro per rimanere confuso nel numero, per divider con alcuno e alleggerire in parte la vergogna di quella panca.
Già il punto della ripetizione si avvicinava, ognuno s'apriva davanti il libro, e cercava il segno. Enrico non l'ha: se il maestro lo vede, se lo rimanda a casa sdegnato... povero Enrico! povera madre sua!
In quel punto l'amico Giulio, emulo di Enrico, ma generoso, troppo sofferendo nel vederlo così umiliato, pensava: Chi sa come Enrico avrà studiata la nuova lezione! dicerto la saprà meglio di tutti; egli che è tanto bravo a fare le ripetizioni. Se la sorte toccasse a lui!... Tornerebbe subito al suo posto: e io glielo renderei tanto volentieri! Non posso sopportare d'esser cresciuto di grado a scapito d'un amico, sebbene sia stato per colpa sua.... Ma proprio per colpa sua? io non mi so raccapezzare, ancora non lo credo. E cogliendo il momento opportuno palesò una sua idea a un compagno. L'idea piacque, la parola passò di posto; e fino in quaranta si trovarono del medesimo sentimento. Allora Giulio salì alla cattedra e disse alcune parole nell'orecchio al maestro, il quale fece segno di approvazione. Quando egli agitò la scatola, nessuno dei primi e i più diligenti batteva palpebra desiderando che uscisse a sorte il suo numero. Enrico poi a quello strepito spiritò dalla paura, e fece il viso di mille colori. Se tira su il mio numero! pensò egli con terrore. Il numero è fuori, è il 3, appunto quello di Giulio che era passato al suo posto. Enrico si rincorò, ma che! Giulio non si muove: il maestro parla: «Oggi gli scolari delle prime panche hanno lasciato d'accordo la ripetizione ad Enrico, perchè egli possa tornare più presto fra loro. Mi gode l'animo d'annunziare questa riprova di fratellanza tra' miei alunni. Venga Enrico.» Un applauso di tutta la scolaresca tenne dietro a queste parole. Enrico restò come colpito da fulmine. Acciecato dalla paura, non pensando chi gli era accanto, supplichevole chiese il libro a uno dei persecutori di sua madre; questi leggeva un romanzo. L'altro, che lo aveva, ma chiuso, glielo dette con un sorriso maligno, che fece in un tratto rammentare ad Enrico tutto l'avvilimento in che lo gettava quel benefizio. Tremando uscì dalla panca; s'avanzò a passi vacillanti; arrivato presso gli amici, balbettò a capo basso un grazie che appena fu inteso; essi gli fecero animo colle parole e coi gesti; e quando al primo scalino della cattedra inciampò ed ebbe a cadere, Giulio corse a sostenerlo e a dargli di braccio fino accanto al maestro, dicendogli sotto voce: «Coraggio!» Enrico aperse il libro, e cercava il punto: silenzio profondo per tutta la scuola. Egli era solito fare le ripetizioni meglio degli altri; aveva voce sonora, gradevole; si animava ai passi più eloquenti; la ripetizione di quel giorno ne conteneva parecchi; ognuno se l'aspettava bellissima. Ma Enrico non trovando tosto la pagina si sgomentò più che mai; cincischiava...; quaranta libri gli furono sporti dai condiscepoli; non se ne accorse, ma trovò allora la pagina che cercava. La vista gli si era abbagliata; a stento proferì la prima parola; la seconda era scorbiata: la pagina imbrattata tutta di fregacci, di figure sconcie, di parole tradotte in margine; era difficile spiccicarne un senso. Sul primo il suo imbarazzo era stato preso per commozione, per timidezza; il maestro gli fece animo, gli mise in bocca le parole; ma pur vedendo che non andava innanzi, si accorse che Enrico non ne sapea buccicata, e vide quel libro così straziato. Allora toltoglielo di mano, e mostratolo alla scolaresca, esclamò: «La vostra generosità, ragazzi miei, è stata inutile, come vedete. Enrico per ora non merita compatimento. Torni al suo posto; venga il numero 3; non perdiamo più tempo coi negligenti.» Tutti rimasero maravigliati ed afflitti; molti se ne sdegnarono; Enrico si trascinò piangendo laggiù, e cadde a sedere quasi svenuto; non ardiva scolparsi d'un fallo non suo col palesarne un altro suo proprio; il padrone del libro, per viltà si tacque; Giulio obbedì mortificato e confuso.
Per avventura in quel giorno il maestro dovè assentarsi dalla scuola per poco tempo, e aveva chiesto che fosse mandato in suo luogo il Prefetto. Ma invece del Prefetto, comparve, come alcuna volta soleva accadere nell'anno, il Superiore. «Eccomi da voi,» disse egli con lieta faccia, «voglio vedere un po' da vicino i migliori tra gli scolari. Appunto ora che abbiamo gli esami a ridosso, mi preme di conoscere quelli che faranno buona passata.» E si trattenne alquanto ora con l'uno, ora con l'altro lungo le prime panche. «Ora poi ho da darvi una notizia, soggiunse accostandosi un poco verso il fondo: abbiamo deliberato di purgare le scuole dai più negligenti. So che in questa scuola vi sono alcuni scalda-panche,» e ingrossò la voce, «i quali hanno abusato della nostra tolleranza, e pare che se ne tengano del cattivo esempio che danno. Lo dico innanzi, perchè abbiano tempo a ravvedersi, e ad esaminare se torni loro più conto frequentare la scuola uniformandosi agli altri, od essere rimandati alle loro case.» Enrico soffriva, soffriva crudelmente. La vergogna di trovarsi compreso tra quelli sciagurati sotto gli occhi del Superiore; la minaccia autorevole che fulminava anche lui meno reo, ma con tutte le apparenze della colpa; la memoria di sua madre tradita nelle più care speranze; lo scoraggiamento aumentato rendevano sempre più lacrimevole la sua condizione. «Intanto (continuò il Superiore), voglio una memoria di quelli che ho trovato oggi nei primi posti; il segretario della scuola me la faccia: io gli detterò i nomi. Essi poi verranno da me domattina prima d'entrare in scuola, e riceveranno un attestato di diligenza per farne dono ai respettivi genitori il prossimo Capo d'anno.» E andò da se stesso di mano in mano chiedendo il nome agli alunni. Giunto al N. 3, Giulio si alzò francamente, e interrogato rispose: «Enrico...» I fanciulli stupirono, e accompagnarono quel nome con segni di gioia. Ma Enrico non potè contenersi: «Ah! non lo merito (esclamò egli, slanciandosi dal suo posto). Signor Superiore, egli nomina me invece di se stesso, perchè jeri l'altro io era in quel posto, ed oggi sono quaggiù; ma se vi sono, l'ho meritato pur troppo! La mia condotta mi ha reso indegno di un amico e del suo sacrifizio generoso!» — «Enrico, rispose Giulio, io conosco il tuo cuore. E tu non puoi essere tanto colpevole quanto apparisci. La tua disgrazia, forse una sola negligenza, ti ha ridotto costà, ma il resto dipende dal tuo carattere troppo sensibile e troppo timido.» — «Giulio, tu vuoi salvarmi, lo vedo, sì, il tuo affetto, la tua amicizia, mi rendono quella forza che mi è mancata fin qui. Confesserò la mia colpa; il signor Superiore mi giudicherà.» E chiestagli licenza di parlare, palesò la prima cagione della sua sventura, l'avvilimento che glie ne derivò, la irrisolutezza che lo tratteneva, la mancanza di fiducia nella madre, nel maestro, negli amici, in se stesso; ma tacque ogni altro particolare che potesse nuocere ai tre negligenti, e in quanto al libro malconcio si contentò di dire che non era suo, scongiurando il Superiore a non volerne essere informato altrimenti. Questi encomiando affettuosamente l'azione di Giulio, e riprendendo con dolcezza il fallo d'Enrico in quanto avesse mancato per la prima volta al suo dovere, trasse argomento ad ammonire i fanciulli dall'esempio che avevano sott'occhio; e ne ricavò molte riflessioni, opportune a premunirli contri i primi falli, a incoraggirli ad emendarsene, a sapervi rimediare con buoni proponimenti, e concluse con queste parole: «Enrico, dunque non ti scoraggire, poichè non hai ancora perduta la stima dei tuoi condiscepoli, nè la fiducia del maestro; ed hai un amico che ha fatto proposito di salvarti. Studia indefessamente per ricuperare il tuo posto: Giulio ti ajuterà. Dopo scuola resterai mezz'ora con lui per quanti giorni ci vorranno a rimetterti in pari con gli altri. Scriverò io stesso ai vostri genitori perchè ve ne diano il permesso. Intanto esci, Enrico da codesto luogo funesto; sederai per ora al tavolino del segretario. Non è giusta che chi ha confessato il suo fallo e se ne è pentito, seguiti a occupare un luogo svergognato. Così possa ognuno di voi averlo sempre in orrore, e sappia liberarsene chi ha avuto la disgrazia d'esservi stato da lungo tempo. Il ravvedimento, benchè tardo, è sempre utile a qualche cosa. E voi tutti, o fanciulli, rammentatevi che il sapere senza la virtù non val nulla, e che la nobile emulazione deve essere sempre accompagnata da generosa amicizia.» Uno scoppio di evviva tenne dietro a questo discorso. I due amici si abbracciarono, e piansero di tenerezza e di giubbilo. Enrico dopo tre giorni ritornò al suo posto, e lo abbandonò solamente per seguir Giulio, quando questi per i suoi meriti diventò il primo della sua parte. Dopo una settimana la panca dei negligenti era vuota. Due di essi si convertirono; chiesero ajuto; lo ebbero dal maestro, e da tutti i condiscepoli, e specialmente da Enrico e da Giulio. Il terzo, benchè sfrontato, non potè più a lungo soffrire la vergogna di vedervisi solo; ma invece di ravvedersi, preferì di abbandonare la scuola. Il suo cuore era ormai troppo corrotto. Infelice lui, se nelle altre vicende della sua vita si sarà lasciato vincere dalla medesima difficoltà a liberarsi dal male!
Ma non ci funestiamo ora con così tristo pensiero. Torniamo piuttosto al nostro Enrico. Vediamolo in quella domenica, nella quale aveva promesso alla mamma di parlare dei suoi studj. Eccolo a confessare il suo errore, a descrivere i patimenti sofferti per nasconderlo a una madre tanto amorosa, i rimorsi, gli scoraggimenti; a dipingerle con l'energia della riconoscenza la bella azione di Giulio: essa a perdonare al suo Enrico con tutta l'espansione degli affetti materni; a benedire il Cielo che nella sua povera vedovanza le accordava un figliuolo di sì amorevoli e teneri e delicati sentimenti, e faceva dono al figliuolo di un amico sì virtuoso; a piangere di consolazione, e giubbilare delle più liete speranze.... Ma questi sono momenti ed affetti di maravigliosa dolcezza. Non v'è lingua, non v'è parola che valga a narrarli. Chi ha intelletto aggiustato, chi è figliuolo amoroso, chi è padre, li sente, li concepisce e ne gode.