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Capitolo III
ОглавлениеSempre la domenica
Il Questore non riusciva a vedere De Vincenzi, per la buona ragione che il commissario già da un paio d’ore si trovava in Piazza Mercanti, mescolato alla folla degli editori e degli autori.
Aveva persino assistito da lontano alla scoperta del cadavere e, quando Bertrando aveva mandato il suo grido di terrore, lui stava esaminando il prospetto di vendita delle opere complete di Stephan Zweig. La passione nascosta di De Vincenzi erano i libri. Ne aveva una stanza piena nel suo appartamentino, con grande disperazione della buona Antonietta, che si ostinava a volerli spolverare uno per uno almeno una volta alla settimana.
Il primo impulso del commissario naturalmente era stato di correre al banco del Libro dei Libri. Ma, affacciatosi al limite del Loggiato per rendersi conto dell’accaduto, alcune frasi pronunziate accanto a lui lo avevano fatto fermare.
— È il banco di Tuama!…
— Hanno ammazzato il vecchio!…
La voce che diceva queste parole voleva esser scherzosa, ma suonava soprattutto sarcastica.
— Che dici?!
— Lo meriterebbe, del resto!
De Vincenzi s’era voltato a guardare i due uomini, che facevano commenti di così strano genere e uno dei quali aveva annunziato quel che avrebbe dovuto ancora ignorare.
Riconobbe subito colui che aveva parlato pel primo. Era Vittoriano Sandri, l’autore noto di romanzi storici e di romanzi d’amore. Aveva conosciuto periodi di grande fama. In quel momento, il suo genere narrativo tutto miele era in ribasso. Ma lui continuava a rimanere una personalità di primo piano nel mondo degli scrittori, appoggiato a una grande Casa Editrice e così carico di denaro com’era, per aver sposato la figlia di un industriale lodigiano.
L’altro, che aveva previsto l’assassinio del nominato Tuama, De Vincenzi non lo conosceva. Era un giovanotto elegante, col monocolo, i baffetti all’americana, il naso aristocraticamente aquilino e affilato. Alto e sottile, teneva la persona leggermente curva e quando parlava faceva un curiosa smorfia con le labbra.
Dopo i primi istanti di sbalordimento e di panico, tutti avevano compreso che si trattava realmente di un delitto e che il morto era proprio quel Tuama nominato dal giovane elegante e De Vincenzi, anche per l’oscuro presentimento che sempre lo guidava nelle sue azioni, non s’era rivelato, né mostrato, preferendo tenersi nascosto tra la folla. Voleva approfittare dell’incognito per conoscere l’ambiente e potervisi poi muovere agevolmente, quando avrebbe dovuto condurre le indagini a viso scoperto.
Una volta sgomberata la piazza e mentre duravano le prime formalità, il commissario era tornato sul Loggiato, cacciandosi in mezzo ai gruppi, mescolandosi alle conversazioni, cercando di cogliere di ogni frase e di ogni occhiata il significato riposto.
Molti di quei letterati e di quegli editori avevano avuto rapporti col vecchio evangelista, che faceva soprattutto l’usuraio, prestando denaro a un tasso strozzinesco. E tutti costoro lo temevano e lo disprezzavano, sì da accogliere la notizia della sua morte violenta, senza rammarico e senza pietà.
Per circa due ore, fino a quando vide scomparire il gruppo degli agenti e dei testimoni e dietro a essi il Questore, De Vincenzi rimase sul Loggiato. Poi scese nella piazzetta e si avvicinò al banco delle Bibbie.
Il banco era piantonato da un agente, che aveva per compito d’impedire ai curiosi di avvicinarsi a esso e magari di asportarne i libri. Beniamino e Bertrando erano stati condotti a San Fedele e la merce sacra sarebbe rimasta incustodita.
De Vincenzi si chinò a esaminare il terreno attorno al banco, specialmente dalla parte interna, di dove presumibilmente era stato introdotto il cadavere. Non sperava trovar orme di sorta, naturalmente, con tutti coloro che v’erano passati. Ma piuttosto qualche piccolo indizio impercettibile. Lui di solito non si curava degli indizi materiali e non ne teneva conto che nei casi comuni, nei fattacci di cronaca nera. Il solito giro del mestiere. Le gocce, che cadono sempre negli stessi buchi. Per i casi complessi, egli teneva soprattutto conto degli indizi psicologici, dei caratteri morali del delitto. Suo assioma era: il delitto è una derivazione della personalità. E si affidava anzitutto all’onda psichica.
Poi entrava in gioco l’ambiente. L’influenza di esso sull’assassino e sulle azioni di lui. Così, per prima cosa, De Vincenzi cercava di assorbire l’ambiente. Per questo, da due ore girava sotto il loggiato e per la piazza. Ma questa volta aveva compreso subito che l’impresa era ardua. Il delitto appariva maledettamente misterioso, oltre che per la eccezionale personalità dell’ucciso, che era uno straniero, anche per il fatto che era stato commesso in circostanze e in luogo particolarmente strani. Così che lui si attaccava adesso agli eventuali indizi materiali, per avere un punto di partenza.
Chi era quel Giobbe Tuama che aveva tutta la apparenza di un fanatico religioso e che poi prestava denari a usura, avendo una clientela di scrittori e di editori? Da dove veniva? Per scoprire l’assassino occorreva cercare nel suo presente o nel suo passato?
In terra non trovò nulla. Alzò il tendone e poi la tela bianca, che fasciava i lati del banco. Il corpo era stato cacciato lì sotto e necessariamente l’assassino aveva dovuto fargli posto, spingendo verso l’esterno la cassa e i pacchi dei libri. A un tratto, De Vincenzi vide luccicar qualcosa tra gli interstizi di due lastroni. Si chinò e raccolse un pezzo di catenina di platino con una chiavetta attaccata al moschettone. Alcune maglie soltanto, quattro o cinque centimetri di lunghezza. Una catena da orologio. La chiavetta era di quelle, che servono solitamente per le serrature delle casseforti. Recava un numero e una cifra: M. 368.
L’agente lo guardava. Lui si mise la catenina in tasca.
— Ha trovato qualcosa, cavaliere?
— La firma dell’assassino! – disse lui, sorridendo. In verità non annetteva molta importanza alla scoperta. Sapeva troppo bene come quel pezzetto di platino e quella chiave potessero essersi trovati lì, in terra, anche prima dell’assassinio.
— Càcciati sotto, e guarda tra i libri, se ci fosse il sacchetto col denaro.
Aveva assistito, se pure a una certa distanza, al profondo sdegno di Beniamino, quando si era accorto della scomparsa del «denaro del Signore» e si era meravigliato che il suo collega non avesse provveduto a far cercare il sacchetto sotto il banco.
L’agente dovette cercar poco. Quasi subito si rialzò col sacchetto in mano, facendolo suonare.
— Dov’era? – chiese De Vincenzi, prendendolo e avvolgendolo nel giornale che aveva in mano.
— Là, in fondo… tra due pacchi di libri…
Così, era da escludere che Giobbe Tuama fosse stato ucciso da un ladro volgare. Questo, del resto, De Vincenzi non lo aveva mai pensato. Un ladro, occasionale e volgare non si sarebbe preso la pena di nascondere il cadavere sotto il banco e di incrociargli le mani sul petto. Il commissario aveva veduto il corpo di Giobbe, quando era rimasto sul gradino ed era stato subito colpito dalla strana compostezza che aveva il cadavere. Poiché il disgraziato doveva essersi indubbiamente dibattuto sotto la stretta del suo assalitore, era evidente che questi si era poi preoccupato di ricomporne le membra, disponendolo in terra come sopra un letto di morte.
Ma come aveva potuto operare con tanta tranquillità? Durante la notte la Fiera non era vigilata?
De Vincenzi si allontanò dal banco, attorno a cui, richiamata dai suoi movimenti, la piccola folla dei curiosi s’era infittita e si diresse verso il Loggiato.
Andò al banco centrale dell’Alleanza del Libro.
Dentro l’anello centrale di esso – il banco formava come un pozzo, il pozzo forse dell’acume esemplare – si trovavano due leggiadre fanciulle e un signore dall’aspetto severo e lugubre, conscio certo della propria cerebrale importanza.
De Vincenzi rifiutò con un sorriso l’offerta delle due giovanette, che gli porgevano i rotolini della pesca, e si rivolse all’uomo:
— Com’era guardata la Fiera, durante la notte? Giacché immagino che dalla mezzanotte in poi i banchi sieno rimasti deserti…
L’uomo corrugò la fronte.
— Come dice? Che cosa c’entra questo? Chi è lei? Parlava con sussiego, scandendo le sillabe.
Per tutta risposta, De Vincenzi trasse dalla tasca e gli mostrò la placca di cuoio da commissario di polizia.
Quell’uomo gli dava ai nervi.
— Ah!
L’altro subito s’inchinò. Sorrise, scoprendo i denti bianchi. S’era fatto amabile e quello doveva essere il suo più bel sorriso; ma aveva impallidito come impallidiscono i bruni, facendosi cinereo.
— Dottor Ugo Piermattei… Sono segretario dell’Alleanza e presidente del «Cenacolo»… Il «Cenacolo» è un circolo di coltura…
— Lo so. Mi dica piuttosto chi ha sorvegliato la piazza e la Loggia questa notte…
— I vigili notturni… Ho telefonato io stesso ieri mattina al comandante del Corpo di Vigilanza, perché provvedesse al servizio…
— Grazie. Non m’occorre altro.
E fece per andarsene, ma non se ne andò invece e, tornato verso il banco, chiese, fissando negli occhi il segretario dell’Alleanza:
— Aveva avuto occasione di conoscere Giobbe Tuama, lei?
— Tu… ama? – compitò l’altro, affettando meraviglia.
— Giobbe Tuama. L’uomo che hanno assassinato.
— Oh! no, davvero!… Le pare?… Non credo. Sono tante le persone con cui ho rapporti più o meno effimeri… Può darsi che anche lui si sia rivolto a me, in questa occasione della Fiera… Ma conosciuto? No, certo…
De Vincenzi ebbe l’esatta sensazione che mentiva. Forse, era anche lui una vittima dello strozzino e adesso cercava di tener nascosto quei suoi rapporti, che dovevano essere stati tutt’altro che effimeri.
— Sicché lei non può darmi alcuna informazione sul conto del morto?
— No… Le pare?
Aveva l’accento scandolezzato. Quasi faceva l’offeso. Tanto più era evidente, quindi, che egli conosceva il mestiere del morto.
Due o tre persone s’erano avvicinate al banco. Una di esse era il giovanotto col monocolo, che aveva richiamato per primo l’attenzione di De Vincenzi.
— Questa Fiera si svolge sotto il segno della morte e della resurrezione. Che ne dici, Piermattei? Mortem moriendo destruxit. La morte di quel vecchio ha fatto tirare un sospiro di sollievo a molta gente. Non vedi quanti risorti, attorno a quel cadavere?…
Il dottor Piermattei si morse le labbra.
— Uhm!… – balbettò. – Stavo dicendo appunto al commissario che io non conoscevo quel… Giobbe Tuama…
Il giovanotto si volse di colpo verso De Vincenzi.
— Ah! lei è il commissario, che si occupa dell’inchiesta? Permette?… Io sono Maurizio Venanzi Jacobini… Se vuole informazioni sul conto di Giobbe Tuama, si rivolga a me. Posso dargliene quante ne vuole.
— Lo conosceva bene lei, eh?…
— Purtroppo, sì. E molti qui, attorno a noi, lo conoscevano quanto me… Non creda! Soltanto, non lo confesseranno mai, perché ne hanno vergogna… Non è vero, Piermattei?
Il segretario dell’Alleanza, che era anche presidente del «Cenacolo» – un circolo di coltura con un tal nome leonardesco per insegna!, pensava De Vincenzi – affettò un’aria maledettamente annoiata.
— Se t’ho detto che non lo conoscevo! Non so nulla di lui!…
— Già! Tu non lo conoscevi… – riprese il loquace giovanotto, con quella sua smorfia, che questa volta da cinica s’era smorzata in comicamente ironica. – Che vuole, commissario? Io ho il coraggio delle mie azioni. Non è colpa mia, se le commedie e i romanzi non mi danno tanto da farmi vivere! Il pubblico fischia le prime e non compera i secondi. Che cosa posso farci? Non so far altro, io! E del resto ho la profonda convinzione che sia il pubblico ad aver torto… Così ho dovuto ricorrere parecchie volte a quell’irlandese della malora. Il vecchio il danaro lo dava. Cento lire e ne rivoleva duecento… A me ne ha date seimila e ha in mano… voglio dire, aveva, perché credo che all’inferno dove è andato non abbia potuto portarsele, più di diecimila lire di cambiali… Ecco!
Alzò le spalle, si tolse il monocolo e lo pulì col fazzoletto di seta, che sfilò dal taschino del petto. Gli occhi miopi apparvero spenti e lui guardò De Vincenzi, socchiudendo le palpebre. Il volto aveva cambiato espressione; si sarebbe detto che si fosse spogliato, mostrandosi nudo, e appariva stranamente infantile.
— Se non glielo avessi detto io, caro commissario, lei lo avrebbe saputo ugualmente! Immagino che nel lurido antro in cui Giobbe Tuama viveva sieno rimaste tutte le cambiali, che aveva in suo possesso… Sarà facile trovarle!
— Dove abitava, Giobbe Tuama? – chiese De Vincenzi.
— In via Bramante. Il numero non lo ricordo. Ci sono andato tante volte, che non avevo più bisogno di guardarlo… È la terza o quarta casa, a sinistra, dal Piazzale Lega Lombarda…
— Bene. La ringrazio. Venga da me oggi nel pomeriggio, signor…
— Maurizio Venanzi Jacobini… Vedo che la mia fama non è giunta fino a lei, commissario!
De Vincenzi rise. Era simpatico, dopo tutto, nonostante quel suo cinismo di maniera, che doveva essere una vernice, una posa e null’altro.
— Sì… Venga da me, alla Squadra Mobile. Commissario De Vincenzi.
— Ah! lei è De Vincenzi! Il suo nome, invece, io lo conosco benissimo… Ci verrò certo… e sono felice di averla conosciuta…
De Vincenzi non lo lasciò finire e si allontanò. Quando stava per scendere la scaletta della Loggia, verso via Mercanti, si voltò e vide il dottor Piermattei parlare concitatamente col loquace Venanzi. Evidentemente, gli rimproverava le sue compromettenti indiscrezioni.
Il commissario si diresse a San Fedele. Quelle due ore gli erano state utili. Un primo passo verso la conoscenza della figura dell’ucciso, lo aveva fatto. Un piccolo passo, ancora, ma indispensabile.
Camminava lentamente, riflettendo. Era tanto assorto, che urtava i passanti, senza evitarli, come se non li vedesse. Viveva già la sua inchiesta. Come preso dal risucchio di un vortice, si sentiva trascinato nel gorgo di quel dramma. Perché, anche a parte il fatto dell’uomo strangolato, per essere un dramma, quello lo era. È tutt’altro che semplice. Quel vecchio venditore di Bibbie cominciava ad assumere ai suoi occhi una personalità stranamente complessa. Si poteva pensare che a ucciderlo fosse stato uno dei suoi debitori, per evitare una scadenza minacciosa o per vendetta? Troppo semplice! E sopratutto improbabile, dato il genere speciale delle persone, che ricorrevano a lui per denaro. Tutti letterati o editori. Gente, forse, cinicamente spregiudicata, come quel Venanzi Jacobini, o pavida e piena di sussiego come il dottor Piermattei, ma non certo capace, per definizione, di un delitto così particolarmente atroce. A meno che non si trovasse tra loro uno squilibrato, un paranoico, con qualche tara ereditaria o acquisita di alcoolismo o di droghe. Ambiente strano, assolutamente diverso dagli altri, ma per questo appunto più facilmente caratterizzabile. E poi c’era da considerare ancora l’altra personalità del bifronte Giobbe Tuama! Quella che lo faceva appartenere alla milizia operante della Lega Evangelica, che gli faceva vender Bibbie e lo induceva a mescolarsi tra la folla per propagandare il verbo del Signore. Un crimine di fanatismo? Poco probabile anche questa ipotesi, ma non da escludere. E per di più quel Tuama era straniero. Un irlandese, aveva detto il giovane scrittore col monocolo, che certo lo conosceva bene. Altro aspetto del problema. Più fanatici degli irlandesi dove trovarli?
Entrò nel portone di San Fedele e vide subito Sani venirgli incontro.
— Scusami! Ma dove diavolo t’eri cacciato? Ho mandato Cruni a cercarti e non t’ha trovato. Il Questore ti vuole subito!
De Vincenzi sorrise.
— Lo immagino!
— È furibondo…
— Non preoccupartene. Ho qui di che calmarlo – e diede un colpetto all’involto, che aveva in mano.
Il Questore lo accolse, senza eccessiva cortesia.
— Lei vuol rimanere in ufficio tutta la notte, anche quando non ce ne sarebbe bisogno e poi la mattina diventa irreperibile! Sono due ore che ho bisogno di lei!
— Mi scusi… – disse pacatamene De Víncenzi. – Eccomi qui.
— Eccomi qui… Eccomi qui… – borbottò il Questore. – Anche il soccorso di Pisa arrivò, ma la città era già caduta!… Scommetto che lei non sa neppure che hanno assassinato un uomo in Piazza Mercanti alla Fiera del Libro… Che il cadavere è rimasto tutta la notte sotto il banco della Lega Evangelica… Che hanno rubato un sacchetto contenente gl’incassi fatti ieri, circa mille lire e forse più…
— Questo non è esatto, commendatore. Il sacchetto non lo hanno rubato! Eccolo.
E glielo mise sulla scrivania, liberandolo dal giornale in cui era avvolto.
Il Questore spalancò gli occhi.
— Oh! come ha fatto a trovarlo? Dov’era lei?
De Vincenzi glielo disse. A mano a mano che parlava il volto del Questore si distendeva e gli occhi gli s’illuminavano.
— Meno male! Una volta almeno, la sua passione pei libri le è stata di qualche utilità! Dunque, lei sa tutto! Vada, allora. Vada nel suo ufficio e proceda all’interrogatorio di coloro, che son giù. Il commissario Micheli deve aver fatto chiamare anche i due vigili notturni, che eran di servizio alla Fiera questa notte e spero sia riuscito a trovare il Pastore evangelico dal quale dipendevano l’assassinato e i suoi due compagni.
De Vincenzi s’inchinò e mosse verso la porta.
— Un momento. Affido a lei l’inchiesta e le do carta bianca. Ma veda di arrivare a qualcosa di concreto il più presto possibile.
— Farò del mio meglio, commendatore.
E scese in fretta. Si sentiva stranamente leggero. Per quanto sapesse che stava per andare incontro a difficoltà d’ogni genere e a un periodo di lavoro intenso e di intimo arrovellamento, il caso era di quelli che piacevano a lui.
— Fammi venire i due compagni del morto… Voglio sbrigarli per primi, perché desidero che ritornino al loro banco – disse a Sani, passando ed entrando nella sua camera.
Beniamino e Bertrando entrarono nella stanza di De Vincenzi accompagnati da Cruni, che fece un gesto di meraviglia, quando vide il commissario. Il brigadiere lo aveva cercato dovunque e non era riuscito a trovarlo.
— Rimani nella stanza del vice-commissario, Cruni… Ti chiamerò, se avrò bisogno di te… Sedetevi, voi due.
Il colosso sedette subito e mise le braccia conserte, nascondendo le mani sotto le ascelle. Il suo volto rincagnato era duro e immobile e lui teneva gli occhi bassi e soltanto di sfuggita volgeva qualche occhiata al commissario. Bertrando appariva irrequieto e, appena seduto, cominciò ad agitarsi sulla seggiola. De Vincenzi li guardava. Ma perché il destino aveva riunito proprio attorno al banco della Lega Evangelica quei tre tipi tanto fisicamente insoliti e li aveva messi, tutti e tre, il colosso dalla testa di galeotto, quel giovane galletto di cresta rossa e il fu Giobbe Tuama, dal naso a clava e dalle gambe d’uccello, a vender Bibbie protestanti rilegate in nero?
Un po’ perché li osservava e un po’ perché voleva stancarne preventivamente la resistenza morale, fece pesare su di loro coi suoi sguardi un lungo silenzio. Il colosso rimaneva immobile, massiccio, come un blocco di pietra deposto pesantemente su quella seggiola, che c’era da chiedersi come mai non si frantumasse sotto di lui. Il giovanetto dava sempre maggiori segni d’irrequietezza. Si passava le mani nei capelli, si accarezzava nervosamente le gote, agitava le gambe, preso da un tremito convulso.
— Come ti chiami tu? – e la voce di De Vincenzi, breve e secca, suonò di colpo, facendo trasalire persino Beniamino.
— Io!… – Lo spavento si leggeva negli occhi di Bertrando. – Io?
— Sì, tu.
— Bertrando Vitali… Ho diciott’anni… Abito in Verziere con la famiglia… Mio padre fa il calzolaio… Vado a far pulizia nella chiesa e servo il Pastore… Ho scoperto io per il primo il corpo del povero Giobbe!… Perché mi chiede tutte queste cose?… È sparito il sacchetto col danaro, vero?… Chi ha fatto una cosa simile? Ah! che orrore!…
Si coprì il volto con le mani. Aveva parlato tutto d’un fiato, come una macchina sotto pressione, che esplode. Beniamino gli lanciò un’occhiata di traverso. De Vincenzi sorrise.
— Conoscevi bene Giobbe Tuama?
— Era molto gentile. È stato lui che mi ha insegnato le pratiche religiose. Mi commentava la Bibbia… Gli altri non gli volevano bene, ma io sì. Con me era buono. Un po’ strano… Prima aveva voluto che andassi a far pulizia in casa sua… la mattina… poi a un tratto non volle più…
— Dove abitava?
— Via Bramante, 9.
— Aveva amici? Qualcuno frequentava la sua casa?
— La portinaia mi diceva che durante il giorno salivano da lui parecchie persone. Ma io l’ho visto sempre solo. Per la strada non si accompagnava mai con nessuno. Certo, lo hanno ucciso per togliergli il denaro!
— Ieri che cosa ha fatto? Hai notato che abbia avvicinato qualcuno?
— No, nessuno… Vendeva le Bibbie… Era lui che gridava… Sapeva farlo con garbo… Parlava bene, dava le spiegazioni con precisione… Era istruito, Giobbe Tuama, e avrebbe potuto sostituire il Pastore nelle prediche…
De Vincenzi si alzò.
— Ho capito. Non ho bisogno di altro da te. Torna al banco della Fiera e vendi pure i libri, come se nulla fosse accaduto. Il banco è custodito da un agente, fatti aiutare da lui, fin quando non verrà il tuo compagno.
Lo accompagnò alla porta.
Beniamino non s’era mosso. De Vincenzi tornò verso di lui e gli posò una mano sulla spalla. – Veniamo a voi, come vi chiamate?
— Beniamino O’Garrich.
— Irlandese come Giobbe Tuama?
— Sì. Ma naturalizzato americano.
— Conoscevate Tuama da molto tempo?
L’uomo esitò. De Vincenzi andò a metterglisi di fronte, appoggiandosi al tavolo. Lo fissava.
— Siete venuto a Milano assieme al vecchio?
— No! Questo no!… Ci siamo ritrovati per caso a Milano.
— Dunque, lo conoscevate?…
— Avevo avuto occasione di conoscerlo.
— In Irlanda?
— No. Né lui, né io siamo nati in Irlanda… Siamo americani di origine irlandese…
— Lo avete conosciuto in America?
Altra esitazione.
— Sì… anche in America…
— E dove ancora?
— Nel Sud Africa..
— Transvaal?
— Se vuole…
— Voi che ci facevate laggiù?
— Che c’entro io? Non vorrà mica conoscere tutta la mia vita!
— E se volessi proprio questo?
Gli occhi del colosso mandarono fiamme, ma si spensero subito.
— Si divertirebbe poco! Lasci andare! Io non ho ucciso Giobbe Tuama…
— Non vi ho detto che lo abbiate ucciso. A che ora lo avete lasciato, ieri sera?
— Sarà stata mezzanotte. Gli ho chiesto se veniva via con Bertrando e con me; mi ha risposto che andassimo… che lui comunque faceva un’altra strada… E rimase presso il banco. Per maledizione, ebbi l’idea di consegnargli il sacchetto col denaro, dicendogli di andarlo a portare questa mattina a casa del Pastore… Così hanno rubato il denaro dei poveri… I poveri che noi soccorriamo soffriranno…
— Non lo hanno rubato. Il sacchetto è stato trovato sotto il banco… Era stato gettato accanto al cadavere…
Beniamino alzò gli occhi verso De Vincenzi e il commissario li vide pieni di terrore. L’uomo s’era fatto livido. Per qualche istante non riuscì a pronunziar parola. Sembrava che tutta la sua sicurezza fosse caduta e la mole poderosa del suo corpo ebbe come un insaccamento. Qualcosa in lui s’era rotto.
De Vincenzi l’osservava, cercando di non manifestare lo stupore, che gli procurava quel turbamento improvviso e inspiegabile.
— Ma allora… non lo hanno ucciso per derubarlo?!
— Evidentemente. A meno che Giobbe Tuama avesse avuto addosso a sé somme assai più rilevanti delle mille lire del sacchetto…
L’altro scosse la testa.
— È poco probabile.
— Una vendetta, allora. Voi sapete che il vecchio avesse nemici?…
— Non so… C’è da supporlo; ma io lo ignoro.
— Che cosa faceva Giobbe Tuama nel Sud Africa?
— Era cassiere di una società per la ricerca e l’estrazione dei diamanti.
— In che anno?
— Millenovecentodue… tre… non ricordo…
— E voi?
— Io… io ero impiegato nella stessa società…
— E dite che vi siete ritrovati a Milano per caso?!
— Già.
— Bene. Lo vedremo. C’è altro che vogliate dirmi, Beniamino O’Garrich?
— No.
— Quando lasciaste Tuama, a mezzanotte, dove andaste?
— Bertrando mi accompagnò fino a via Cappellari. Presi il tranvai per Lambrate. Io abito in via Cesarotti, alla Martesana…
— E Bertrando?
— Se ne sarà andato a casa a piedi. Abita al Verziere.
De Vincenzi girò attorno al tavolo e trasse dal tiretto il denaro del Signore.
— Prendete e tornate al banco. Desidero che la vendita delle Bibbie continui come se nulla fosse accaduto.
Di nuovo il terrore lampeggiò negli occhi dell’uomo.
— È necessario? – balbettò.
— Sì.
— Io non vorrei star lì… Debbo, tornarmene a casa…
— Ci tornerete stasera. Andate. Verrò anch’io tra poco laggiù.
Il colosso si alzò e si avviò alla porta. Camminava pesantemente. Doveva sentirsi le gambe molli. Qualcosa di terribile s’era abbattuto su lui.
De Vincenzi lo seguì con lo sguardo assorto. Il dramma si presentava assai più terribile di quanto gli fosse apparso al principio. E Beniamino O’Garrich sapeva molto più di quanto non volesse dire.
Il commissario ebbe un gesto e tese la mano verso il campanello. Poi si trattenne. Andrò io, pensò. E del resto, accanto al colosso alla Fiera c’era già un agente.
Procedette rapidamente all’interrogatorio di tutti coloro che eran stati condotti a San Fedele e, come prevedeva, da essi non tirò fuori nulla di importante.
Avevano veduto Giobbe Tuama, lo avevano notato – come non notarlo con quel suo tait nero, il cappellaccio a melone e il naso a clava, quando poi per tutto il pomeriggio non aveva fatto che gridare il Libro dei Libri? – e se ne erano andati a mezzanotte o prima, senza occuparsi menomamente del vecchio e di quanto accadeva attorno al banco delle Bibbie.
Soltanto Tino Fiamma poté dire qualcosa di più. E lo fece con la sua scelta loquela, pesando le parole, arrotondando le frasi, illudendosi di dare a De Vincenzi l’impressione che era mosso solo dal desiderio di aiutare la polizia nella ricerca dell’assassino. In realtà era preoccupato esclusivamente della propria posizione di debitore dell’ucciso!
Il commissario lo lasciò andare. L’attività strozzinesca di Tuama non era che un aspetto del problema e non il più importante, secondo lui. Avrebbe avuto sempre tempo di occuparsene con comodo.
Chiamò Cruni.
— Chi rimane ancora di là?
— I due vigili notturni e il Pastore, che è arrivato in questo momento. È un giovanotto… Se lo vede, sembra un damerino… Oh! che i preti sono così?…
De Vincenzi sorrise.
— Chiamalo reverendo, quando gli parli e fallo venire pel primo.
Ma il telefono squillò. Istintivamente, il commissario fece cenno al brigadiere di fermarsi. Prese il cornetto e alle prime parole che ascoltò, ebbe un sussulto.
Uno straniero era stato trovato morto in una camera dell’Hôtel d’Inghilterra, in Corso Vittorio Emanuele. Lo avevano ucciso. Un certo Giorgio Crestansen, danese, proveniente dall’America. E il Questore gli diceva che tra le carte del morto c’era una lettera in cui si nominava Giobbe Tuama. Il primo sopraluogo era stato fatto da Micheli, il medesimo commissario che si era recato in Piazza Mercanti quella mattina, e per questo aveva potuto rilevare subito la coincidenza.
— Sta bene, commendatore. Vado.
— Fa’ aspettare il Pastore e i due vigili… Non debbono muoversi finché non torno…
Prese il cappello e uscì di volata, dicendo a Sani:
— Vieni con me all’Hôtel d’Inghilterra.
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