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Capitolo dodicesimo
Оглавление«Povera figliaccia di mamma sua!»
Appena giù dal tassi, davanti al portone di San Fedele, il giovanotto si fece venire le convulsioni. Un vecchio trucco.
«Eccoci serviti!» mormorò tra i denti il brigadiere di scorta. «Su, ragazzi, afferratelo alle gambe e alle braccia…».
I due agenti s’erano gettati sull’energumeno, che springava calci come un ossesso. Il brigadiere ne ricevette uno in uno stinco e bestemmiò.
Dal portone uscirono due carabinieri e altri agenti. Fu tutto un ammasso di corpi in convulsione attorno a quel finto epilettico. Lui aveva la bava alla bocca e strabuzzava gli occhi. Non gli si vedeva — quando si riusciva a guardarlo in volto — che il bianco della cornea.
Finalmente, legandolo con le cinghie che si erano tolte dai pantaloni, riuscirono a immobilizzarlo e lo portarono dentro di peso. Ma lui gridava sempre. Come un cane alla luna, con un lungo ululato lamentoso, che si ripercuoteva sotto l’androne e poi pel porticato del cortile. Lo gettarono sul pavimento della camera di Sani che era vuota. Subito, dalla porta della sua stanza apparve De Vincenzi. «Il solito attacco…» disse e crollò il capo.
Era proprio l’individuo che la cartella segnaletica descriveva: un vigilato speciale, adusato a tutti i sotterfugi e a tutte le finzioni!
«Prendete quella brocca d’acqua, lì nell’angolo…».
Un agente l’afferrò dal lavabo a treppiede e ne rovesciò il contenuto sulla faccia dell’uomo. Quello ruggì. Ma smise di far smorfie e di digrignare i denti. Per la camicia aperta, l’acqua gli era entrata sul petto fino al ventre. Gli colava dai capelli. Steso per terra, il giovanotto ansava a mantice, con quel suo torace potente e popputo, come quello d’una donna.
Si lamentava sempre più debolmente. La commedia stava per finire.
«Mettetelo a sedere!».
Il brigadiere che sentiva ancora il dolore allo stinco, gli allungò un calcio.
«Che bestia! Tutti così! E che cosa ci guadagnano poi?».
Gli agenti lo afferrarono e lo sollevarono sulla seggiola.
L’uomo aprì completamente gli occhi, si guardò attorno e mormorò: «Chi siete? Dove mi avete portato?».
«In Vaticano!» ironizzò un agente.
«Toglietegli le cinghie» ordinò De Vincenzi. quando lo vide libero, gli si avvicinò.
«Stai meglio?» gli chiese senza ruvidezza, L’altro non capì perché mai il commissario lo trattasse diversamente dagli altri. Ebbe un moto di stupore e non rispose.
Attorno, gli agenti sogghignavano.
«Voialtri andate» disse freddamente De Vincenzi. «Lasciatelo qui. Ci penso io».
«Ma non c’è da fidarsi, commissario!» intervenne il brigadiere. «E un recidivo capace di tutto. E stato coatto».
«Lo so. Ma non farà nulla. Tornate al vostro commissariato. Basterà che rimanga un agente di guardia sotto il portico…».
E fece un cenno a uno della Squadra. Uscirono tutti.
Il commissario chiuse la porta dietro all’ultimo, poi tornò verso l’uomo seduto, che, temendo un tranello, aveva contratto il volto e teneva gli occhi strabici volti a terra come nel ritratto. De Vincenzi lo fissò. Somigliava alla sorella. Gli stessi lineamenti. Anche il medesimo colore degli occhi. Soltanto, in lui, la crapula e il vizio avevano inciso segni profondi. «Puoi camminare?».
Non ottenne risposta e gli mise una mano sulla spalla.
«Alzati e vieni di là. Ho da parlarti». Il giovanotto si alzò e camminò verso la porta, che vedeva aperta davanti a sé. «Siedi».
E quello si trovò nell’alone di luce della lampada, là dove poco prima stava seduta miss Drury, con le sue labbra troppo rosse, il corpo agevole e le gambe inguainate di seta.
«Ho da darti una cattiva notizia, ragazzo mio!…
Debbo farlo, anche se tu sei appena uscito da un attacco. Da quanto tempo soffri di epilessia?».
Gli parlava con grande dolcezza. Sapeva benissimo che quello lì aveva fatto tutta una commedia; ma a che scopo metterlo di fronte alla propria finzione? Lo aveva giudicato al primo sguardo e aveva capito che non ne avrebbe cavato nulla a prenderlo di punta, con le minacce. E poi c’era quel cadavere sul marmo del Monumentale, che pure aveva il suo peso. Se davvero l’aveva strangolata lui, soltanto ad addormentarne la diffidenza, a fargli credere che non lo sospettava, poteva sperare di coglierlo poi di sorpresa e strappargli un gesto o una parola rivelatori. E se lui non l’aveva uccisa — e De Vincenzi era pronto ad ammetterlo — a che scopo incrudelire, ferendolo profondamente in un sentimento fraterno, che forse esisteva?
L’uomo alzò gli occhi e guardò il commissario per un attimo. Subito lo sguardo gli fuggì di traverso, sul pavimento. Continuava a tacere.
«Tu hai una sorella?».
Sussultò.
«Che c’entra con me?!».
«Le vuoi bene?».
«È per domandarmi questo che mi siete venuti a prendere nel mio letto, quando dormivo?».
«Se le fosse accaduta una disgrazia, ti dispiacerebbe?».
«Che dice?».
Adesso, cercava di guardare il commissario in faccia. Aveva corrugato le sopracciglia e lo sguardo gli si era fatto duro.
«Da quando non la vedi?».
«Saranno tre o quattro giorni».
De Vincenzi lo scrutò.
«Sei andato a trovarla in casa del senatore Magni?».
«Un paio di volte soltanto. Lei non poteva uscire… Avevo bisogno di parlarle…».
«Tu o lei?».
«Come fa a sapere che era lei?».
«Perché ieri l’altro… domenica… fu lei che chiese un permesso alla padrona e venne da te…».
«Non è vero. Domenica non l’ho veduta…».
«Ne sei sicuro?».
«Ho dormito tutto il giorno, domenica… Glielo può dire la mia padrona di casa… Nessuno è venuto a trovarmi…».
«Tua sorella ha detto alla signora che doveva incontrarsi con te… per salutarti, perché tu dovevi partire…».
«Fandonie!… Dove vuole che vada, io!».
«A che scopo avrebbe mentito?».
«Lo chieda a lei!».
«Vuoi proprio che glielo chieda?».
«Faccia come vuole!».
Voleva sembrar calmo. Ma ebbe uno scatto.
«Oh! Insomma, se è per quella storia del senatore, io non c’entro e ho persino consigliato Norina di andarsene da quella casa! Io sono quel che sono… ma lei è una brava ragazza e non voglio vederla battere i marciapiedi… E sempre così che si finisce!».
«Che vuoi dire?».
«Oh! Lei mi capisce! Ma si tratta di un signore e naturalmente tutta la colpa siete pronti a darla a quella povera stupida… Che è accaduto! L’hanno cacciata?».
«È scappata…».
Il giovanotto alzò le spalle.
«E voialtri l’avete ripresa!… Rimpatriatela. C’è la mamma a Livorno… Creperanno di fame tutte e due!… Dove sta?… L’avete messa in guardina?… Ma se non ha fatto niente di male!».
Sembrava sincero. Per quanto rotto alla continua lotta contro la legge, soltanto a essere un attore straordinario avrebbe potuto fingere con quella naturalezza, sapendo che sua sorella era stata strangolata e gettata nell’acqua melmosa della Darsena! De Vincenzi si convinceva sempre più che lui non c’entrava affatto nella morte di Norina. E in quella del professore? Poco probabile, a pensarci. Perché l’avrebbe condotto lì dentro, in quella libreria?… Ah! Sì, per via degli abitanti del casamento. Un ambiente appestato. C’era da contare sull’omertà di tutti.
«Che cos’hai fatto, Santini, nella notte dal 20 al 21… tra lunedì e martedì?».
Il giovanotto accennò un sogghigno.
«Ieri notte?».
«Sì. Cerca di ricordarti».
«A casa… a letto… come sempre… Io dormo a tutte le ore!…».
Sembrava ci si divertisse.
«I testimoni ce li hai?».
«È venuta la visita alle dieci… mi hanno trovato. Le posso far vedere la firma sul libretto. Lo chieda al pattuglione».
«E dopo le dieci?».
«Mi sono voltato dall’altra parte e ho russato…».
«Dormi solo?».
«È per saper questo che mi fa tante domande?».
«Lo faccio per te. Non vedi che cerco di aiutarti?».
L’altro alzò le spalle.
«Ieri notte ero solo!».
«Male! Proprio ieri notte hanno ammazzato il senatore Magni…». «Ah!…».
Era sorpreso, più che colpito. «Guarda!… Gliel’hanno fatta! E chi è stato?».
«Tu!».
«Sciocchezze! Non mi ci prende! Non ho mai sparato io, né fatto occhielli nella pelle di nessuno. Ladro quanto vuole! Ma i trent’anni non li becco! Cerchi meglio, commissario! Questa qui non attacca!».
«Lo vedremo! E stamattina che hai fatto?».
«Vuole l’alibi? Per tutto il giorno di oggi ce l’ho. Lo domandi al commendatore… Sono stato con lui tutto il giorno per affari…».
«E questo tuo commendatore, chi è?».
«Via della Madonnina 13… Ci vada… È il Restelli di Fiori Chiari… Fa il mercante, lui…».
«Ah!» fece il commissario, che conosceva il ricettatore. «La testimonianza non è delle migliori!…».
«Lo so! Anche perché lui avrà paura di dire che mi ha tenuto nella sua bottega ad aiutarlo… Ma è la verità…».
«E hai veduto tua sorella, oggi?».
«No. Ma ho saputo che è stata a cercarmi a casa. Io non c’ero».
«Ci avrai i testimoni, almeno di questo, eh?».
«E come!… Il portinaio di casa fa l’informatore… Lo conoscete bene!».
«A che ora è venuta!».
«Saranno state le sei, credo…».
De Vincenzi fece una pausa.
Il giovanotto si asciugava l’acqua sul corpo, fregandosi con la camicia. Tutta quella storia non sembrava interessarlo. Ogni tanto guardava il commissario di sottecchi e sogghignava.
«Adesso, starà tranquilla Norina, se quello è morto!».
«Eh?!» fece quasi di scatto De Vincenzi, perché quella frase era stata detta con tale accento da non lasciar dubbi: lui credeva sinceramente che sua sorella fosse ancora viva.
«Ho detto che adesso finirà di pensare al senatore, mia sorella! Lui s’era divertito con lei e Norina c’era cascata. È una sentimentale, povera stupida!».
«Non è più sentimentale» articolò De Vincenzi lentamente.
L’uomo alzò la testa, sorpreso soprattutto dal tono di quelle parole.
«Perché?».
«Perché hanno ammazzato anche lei!».
«No!… Per la…».
E bestemmiò con ferocia.
S’era alzato, stringeva i pugni.
«È vero? È proprio vero quel che dice? Perché se lo fa, per tentare di prendermi in trappola… non so neppur io con che sugo, del resto!… Ma, se mente, è una porcheria!».
«Non mento. Qualcuno ha strangolato tua sorella questa notte e poi l’ha gettata nella Darsena di Porta Ticinese!…».
L’uomo si fece livido. Tutte le corde del collo gli si gonfiarono. Ansava. Sembrava che volesse lanciarsi contro il commissario. C’era in lui l’impeto di una collera furibonda. Gli occhi torbidi vedevano rosso.
«Se mi dice chi l’ha ammazzata…» urlò; ma improvvisamente, di colpo, sembrò afflosciarsi… Fu come se, per la prima volta in vita sua, fosso stato invaso da una grande commozione spasimosa. Gli occhi gli si empirono di lacrime. Una specie di rotto singhiozzo gli uscì dalla gola. Ricadde a sedere e si prese la faccia tra le mani. Piangeva. Mormorò: «Povera creatura! Povera figliaccia di mamma sua…».
De Vincenzi dovette voltar la testa da un’altra parte e poi allontanarsi verso il fondo della camera. Quel dolore buono, sano, in quell’anima depravata, era profondamente patetico.
Poteva fingere? Soltanto la lunga dimestichezza, che De Vincenzi aveva coi delinquenti gli
suggeriva che sì, che poteva anche fingere, che anzi avrebbe proprio finto in quell’unico modo, se lo avesse fatto. Ma non fingeva. Non fingeva, per l’unica ragione che non era stato lui a ucciderla e che non sapeva neppure che l’avessero uccisa.
Un’altra pista da scartare. Un’altra figura, che entrava e che usciva dal dramma. Si sentiva lontano dalla verità, più lontano che mai! Se soltanto avesse interrogato la ragazza, quando era viva!
Andò nella camera di Sani, lasciando solo quel disperato, per non sentirlo più piangere. Gli faceva male.
Pensava al cadavere della donna, bianco, sporco di melma, con quei suoi capelli biondi molli, opulenti…
Rivide un’altra figura femminile. La donna obesa e un poco inflaccidita, che prediceva la morte a distanza. Se davvero attorno a noi esistesse un altro mondo, che non conosciamo? I morti tornano? Parlano? Allora, Norina avrebbe potuto parlare… Lei amava il senatore, lei pure! Povera creatura! Povera figliaccia di mamma sua!
Uscì sotto il portico e chiamò l’agente che passeggiava, fumando.
«Vieni qui!».
«Ai comandi» e quello spense il sigaro, fregandolo contro il muro.
De Vincenzi rientrò seguito da lui.
Gl’indicò il giovanotto, che stava sempre curvo sulla seggiola, con la testa fra le mani.
«Portalo via. Chiudilo in guardina. È inutile che torni a casa stanotte. Mettilo solo. E… trattalo bene! Non ha fatto niente…».
L’agente si avvicinò all’uomo e gli batté sulla spalla: «Andiamo, su!… Vieni con me!…».
Quello si alzò. Teneva sempre le mani sulle guance. Sembrava un automa.
Quando fu in piedi, si prese un dito fra i denti e lo morse rabbiosamente. «Maledetta la vita!…».
Poi seguì l’agente, senza più guardare nessuno. De Vincenzi sentì il loro passo che si allontanava, risuonando sotto il porticato. La pendola in camera di Sani batté le due. Adesso, il commissario s’era seduto. Si sentiva invadere da una grande stanchezza. Aveva sonno. Che poteva fare ancora per quella notte? Non metteva più insieme due idee. Quella era l’inchiesta degli innocenti. Persino i gaglioffi diventavano mondi! Eppure c’erano due cadaveri. Uno per notte. Tutti e due sul marmo dell’ospedale! Si alzò di scatto.
Se ne sarebbe andato a dormire. Aveva bisogno di riposo. Pensò con un senso d’infinita voluttà al refrigerio delle lenzuola.
Spense la lampada sul tavolo, senza pensare che quella del soffitto era spenta. Si trovò al buio. Vide il quadrato della porta illuminato e la camera del vicecommissario.
Vi si diresse quasi di corsa, perché quel buio era pieno d’ombre, materiali, palpitanti. Un mondo che non conosciamo…
E, giunto nell’altra camera, quasi mandò un urlo poiché si vide un uomo davanti. Basso, sorridente, roseo, lindo. Era entrato, senza far rumore. «Ma per Dio! Che cosa fa qui, lei?!». «Mi scusi» proferì sorridendo il dottor Marini. «Mi è stato impossibile venir prima. Gli ammalati… la grippe… il morbillo…».
«E viene a quest’ora?».
«M’hanno detto che lei veglia tutta la notte…».
«Io l’avevo invitata a venire nel pomeriggio…» interruppe gelidamente il commissario, ritrovando il suo equilibrio.
«Infatti! Ma la grippe… il morbillo…».
«E lei sta fuori tutte le notti?».
«Qualche volta».
«Ebbene, mi accompagni a casa, se vuole. Parleremo».
«Volentieri. Camminare di notte per le strade deserte è uno dei miei piaceri preferiti… Mai come di notte ho il cervello lucido».
De Vincenzi uscì pel primo e l’altro lo seguì. Il commissario vide l’ombra del dottore proiettarsi sulle pietre del cortile, illuminato dalla luna piena, e notò che era breve e quasi tonda, tanto l’uomo era basso, e, col soprabito aperto, appariva tozzo.
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