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Capitolo decimo
Оглавление«La Zaffetta» — Venetia 1531
Rimase a lungo nella stanza, con la porta chiusa. Sani lo sentiva andare e venire, come faceva sempre quando doveva risolvere qualche problema assillante. Il moto gli facilitava l’opera del cervello. A un tratto squillò il telefono. La voce di De Vincenzi disse: «Pronto» e poi un lungo silenzio. Evidentemente, ascoltava. La voce proferì: «Sta bene! Vengo» e seguì lo scatto del telefono che si richiudeva.
Poco dopo, la porta si aprì e il commissario apparve col soprabito in dosso e il cappello in testa.
«Se mi cercano, tornerò fra un’ora».
«Vuoi che venga con te?».
«Non importa».
E uscì nel cortile.
Camminava con le mani in tasca e il cappello sugli occhi. Un collega lo salutò, ma lui non lo vide.
Ci mancava quest’altra, adesso! Sì, tutto sarebbe stato chiaro, così; ma lui sentiva che così non era. Quella donna doveva essere isterica e il fatto che fosse fuggita dalla casa del senatore non dimostrava nulla. E poi, perché fuggita? Se n’era andata, semplicemente. Nulla di strano che fosse stata davvero l’amante del senatore… L’amante? Il capriccio di un’ora! Era bella, non aveva nulla d’una cameriera. Lui aveva dovuto prenderla, se pure lo aveva fatto, perché non era uomo da perdere una occasione, e lei invece aveva creduto chissà che.
Seppe che lo avevano ucciso ed era svenuta. Poi quella casa le sarà sembrata insopportabile. Forse, lo amava davvero, lei. Ed era scomparsa. Nulla di più semplice.
Quando fu dietro al Duomo, attese il tranvai. Rimase in piedi sulla piattaforma della seconda vettura. Per ora, lui non ci vedeva chiaro. Chiunque altro, al suo posto, avrebbe arrestato il dottor Verga, avrebbe rimesso la pratica al giudice istruttore e non si sarebbe neppur sognato di pensarci più. Ma lui viveva troppo intensamente le sue inchieste per poter agire a quel modo. Voleva trovare la verità, lui: attraverso i vari personaggi di ogni dramma. Faceva un lavoro esclusivamente psicologico. Era convinto che ognuno agisse soltanto come era capace di agire. Gli indizi materiali non gli servivano che come punti di riferimento.
Quando si trovò nell’atrio della casa di Magni, cercò di ritrovare la sua lucidezza e di sgombrare il cervello da ogni prevenzione.
Suonò e venne ad aprirgli un giovanotto in uniforme verde bottiglia, da autista.
«Annunciatemi alla signora. Sono il commissario De Vincenzi».
L’uomo si trasse da parte e De Vincenzi si trovò di nuovo in quell’anticamera severa, che la porta dell’ambulatorio chirurgico illuminava illogicamente di luce chiara.
«L’infermiera è di là?».
L’autista guardò la porta.
«Non saprei dirglielo. Miss Drury passa sempre dall’altra porta…».
E scomparve pel fondo.
Con un movimento rapido, il commissario andò alla porta dell’ambulatorio e l’aprì silenziosamente. Guardò dentro e non vide nessuno. Ma dalla seconda camera veniva il suono concitato e sommesso di due voci. Patt doveva trovarsi nel salotto con il dottor Verga. De Vincenzi richiuse la porta.
La signora Magni veniva lentamente dal fondo. Il suo pallore di avorio sembrava maggiore per l’abito nero, che aveva indossato. Più che mai appariva matronale e bellissima.
«Le ho fatto telefonare, perché la scomparsa di quella ragazza non mi sembra normale».
«Ha fatto bene, signora!».
«Vuole accomodarsi?».
E indicò il salottino dove già De Vincenzi era stato introdotto alla mattina.
«Preferirei dare un’occhiata alla stanza della cameriera».
«Venga».
Traversarono una camera da pranzo ricchissima, con le credenze cariche d’argenterie e quadri di fiori alle pareti. Poi un salotto chiaro e luminoso, una guardaroba e giunsero a un corridoio, sul quale si aprivano tre por te. La prima era la cucina, la seconda quella della cameriera. Nel passare davanti alla cucina, De Vincenzi vide una donna anziana, obesa, evidentemente la cuoca. La camera di Norina aveva il letto di ferro, un cassettone con uno specchio, un armadio e qualche seggiola. Il letto era rifatto. Sul cassettone due o tre fotografie di uomo. Sempre lo stesso: un giovanotto dal volto equivocamente bello e dallo sguardo falso e fuggevole. Una di esse lo riproduceva vestito da marinaio e in quel costume la bellezza troppo femminea del suo corpo appariva ancor più evidente. «Lei sa chi sia quest’uomo?».
«Il fratello di Norina».
De Vincenzi tolse una fotografia dal portaritratti e se la mise in tasca.
«Come si chiama la sua cameriera?». «Norina Santini… So che è nata a Livorno…». Il commissario scrisse il nome sul margine d’un giornale, che aveva in tasca.
Si guardò attorno. Nessuna traccia di fuga. Aprì i tiretti del cassettone. Biancheria abbastanza fine. Un pacco di cartoline illustrate. Qualche lettera. Tutto in ordine. In un angolo della camera, in terra, una valigia. Nell’armadio qualche vestito e un mantello pesante. «Non ha portato via nulla. Tornerà…». «E strano, però, che abbia abbandonato la casa prima di mezzogiorno, senza dir nulla… quando sapeva che avrebbe dovuto servire a tavola…».
De Vincenzi guardava sempre nei tiretti. Cominciò a rimuovere il pacco delle lettere e delle cartoline. A un tratto prese in mano un ritaglio di giornale, che riproduceva il ritratto di un uomo e lo fece sparire lestamente nella tasca.
«Ha trovato qualcosa?».
«Uhm…» fece il commissario e corse all’armadio, fingendo di osservare con grande attenzione un vestito, per non rispondere.
Il ritratto riprodotto dal giornale era quello del senatore.
«Qui non c’è null’altro da vedere, signora».
Tornarono in anticamera.
«Da quanto tempo era al suo servizio, Norina?».
«Un paio d’anni, mese più, mese meno…».
«Lei ne era contenta?».
«Non posso dir che bene di lei. Rispettosa, abile, lavoratrice…».
«Il fratello veniva a trovarla?».
«Mai, fino alla settimana scorsa. Fu giovedì o venerdì dell’altra settimana che io, sentendo una voce sconosciuta in anticamera, qui dove ci troviamo adesso, venni a vedere e trovai Norina con un giovanotto. Mi disse che era suo fratello. Avevo già notato le fotografie e lo riconobbi. Poi tornò ancora. E ieri Norina mi chiese di poter uscire un paio d’ore, perché suo fratello doveva partire e voleva salutarla. Così mi disse».
De Vincenzi si diresse verso la porta.
La signora fece un gesto.
«Lei non ha da dirmi nulla?… Hanno trovato qualcosa?».
Il commissario scosse il capo.
«Chi ha ucciso mio marito?» chiese la donna con voce bianca, tanto più drammatica quanto apparentemente immobile.
«Le prometto che il delitto non rimarrà impunito, signora!».
La donna aveva gli occhi gonfi di lacrime. Si vedeva lo sforzo che faceva per non scoppiare in singhiozzi.
«E terribile!» mormorò sempre con quella voce opaca.
«Sì, è terribile» ripeté De Vincenzi come un’eco. E le si avvicinò.
«Lei non ha sospetti? Non può supporre chi potesse nutrire verso suo marito un odio tale da…».
«No!» rispose la donna e la voce si fece tagliente. «No! Non so immaginarlo. Non conosco i nemici di mio marito, più di quanto non ne conosca gli amici». Forse, avrebbe voluto dire le amiche. «Che cosa pensa lei di miss Drury, l’infermiera?». Gli occhi della signora si fecero duri. «Che cosa vorrebbe sapere con precisione da me? E proprio necessario che le risponda?». «No, grazie. Mi scusi».
Vi fu un altro silenzio. Poi il commissario fece un gesto, per prender commiato. Quando fu sulla porta, si volse. «Farò ricercare la cameriera, naturalmente… Ma se dovesse tornare, le sarò grato se mi avvertirà…». La signora assentì col capo.
Appena in istrada, De Vincenzi si volse a guardare le finestre dell’appartamento del senatore. Erano tut te chiuse e le tendine abbassate. Eppure lui avrebbe giurato che, dietro una di quelle finestre, qualcuno lo stava osservando.
Scese in fretta via Corridoni ed entrò nel negozio del libraio. Davanti al portone dello stabile, vide la portinaia belloccia, che teneva circolo. Parlavano evidentemente del delitto. Quello sgorbio di suo marito doveva trovarsi al deschetto, a meno che non fosse all’osteria, a tener circolo anche lui. E dentro lo stabile su per quel cortile a imbuto, i miasmi di tutto un putridume d’anime e di corpi continuavano a salire in sempiterno…
Nel negozio Pietrosanto stava sfogliando un grosso volume illustrato davanti agli occhi dei due agenti di Maccari.
«Non hanno mandato a sostituirvi, voialtri?». «No, cavaliere» rispose uno di essi. «Ma non fa nulla» fece l’altro con un sorriso. «O qui o altrove, per noi…».
«Già? E state meglio qui dentro, del resto». Pietrosanto aveva chiuso il volume. «Stavo mostrando loro le illustrazioni del Dorè al Don Chisciotte…». «Il proprietario?». «Non è più tornato». «Di là è entrato nessuno?». «No, cavaliere» disse subito un agente. De Vincenzi si diresse verso il corridoio, ma prima di entrarvi si fermò.
«È proprio sicuro lei, di non aver notato nulla d’in solito nella saracinesca, stamane, quando ha aperto il negozio?».
«No… non credo… Gliel’ho detto: io non apro mai…».
«Era chiusa bene?». «Mi sembra…».
Pietrosanto aveva esitato nel rispondere e De Vincenzi lo notò.
«Che cosa l’ha colpita? Dica!».
«Colpito? No. Ma, ripensandoci, ho l’impressione che una sola delle due serrature fosse chiusa, mentre ieri sera certamente, furono fatte girare tutte e due…».
«È sicuro di questo?».
«Sicuro? No».
«Chi aveva le chiavi?».
«Il portinaio, qui accanto…».
«Vengono sempre consegnate a lui?».
«O a lui o a sua moglie. E non è mai mancato neppure un libro».
«Già… E quel libro raro… che lei dice che manca?…».
«Ah! Il libro! Vuole il titolo?».
«Perbacco!».
Pietrosanto prese dal tavolo un cartoncino: «Ho ritrovato la scheda…» e gliela porse.
De Vincenzi lesse: La Zaffetta — Venetia, 1531 — in 8° — Piccola opera rarissima piena di oscenità, attribuita falsamente all’Aretino, mentre autore ne fu Lorenzo Veniero, nobile veneziano, che la pubblicò per vendicarsi di una cortigiana veneziana chiamata Angela, che si nasconde sotto il nome di «Zaffetta» e cioè, in veneto, figlia di sbirro. Il volume, a grossi caratteri romani, non porta né indicazione, né date. Contiene un sonetto del Ventero allo Aretino. Consta di 114 ottave. Si vendeva 48 fr. nel 1805.
Il commissario alzò gli occhi verso l’impiegato della libreria.
«Strano!… Quanto può valere?». «Qualche centinaio di lire… Ci si regola a seconda dei clienti… È un’opera erotica…». «Pornografica?».
«Secondo l’intenzione di chi legge». «E l’hanno rubata!».
«C’erano volumi più rari e più costosi in quello scaffale!…».
«Ci capisce qualcosa, lei?».
Pietrosanto per quanto si fosse rimesso dallo spavento del mattino, non ci capiva nulla, naturalmente.
De Vincenzi si mise la scheda in tasca ed entrò nel corridoio.
Stette in quelle tre camere una mezz’ora e, quando uscì, aveva l’aria soddisfatta.
«Il suo padrone, torna mai in negozio di sera o di notte?» chiese a Pietrosanto.
Quello spalancò gli occhi glauchi.
«Il signor Chirico? Ma no davvero, che io sappia…».
«E la portinaia, può aver dato la chiave a un estraneo?».
«Non avrebbe dovuto, naturalmente!».
«Già, non avrebbe dovuto; ma può averlo fatto…».
«Ha trovato qualcosa?».
De Vincenzi non rispose e uscì, dicendo: «Tornerò».
Appena nel suo ufficio, chiamò Sani. Gli diede la fotografia e le generalità della cameriera.
«Falla ricercare dovunque. Avverti i commissariati e le stazioni. E poi va’ all’ufficio antropometrico e vedi se c’è qualcosa di costui». Sani guardò la fotografia.
«Ha l’aria di un invertito o di uno sfruttatore di donne, questo giovanotto…». «È quel che penso anch’io». Sani uscì.
De Vincenzi si mise a riflettere. Lentamente estrasse dal taschino del panciotto una piccola pallottola di piombo. Era soltanto un poco deformata. La guardò e la pose accanto ai ferri chirurgici.
Poi disse al telefono che gli trovassero al Monumentale o alla Guardia Medica di via Agnello o a casa sua il dottor Sigismondi. Poco dopo il telefono squillava. «E lei, dottore?».
«Ma sì, sono io» rispose la voce del dottore dall’altro capo del filo. «Perché mi ha chiamato? Sarei venuto tra un’ora a portarle il rapporto». «Ha fatto l’autopsia?». «Sì».
«Trovato il proiettile?».
«Sì. Uno solo, mentre le ferite sono due. Calibro 25. Un’automatica molto piccola, la più piccola forse che esista. Un gingillo da borsetta di signora…».
De Vincenzi sorrise.
«Non è stata una donna, dottore!».
«Io non lo so».
«E neppur io…».
«Allora verrò tra poco».
«Come vuole. Se non mi trovasse, lasci il rapporto».
«Sì… Ah! Ascolti. Un particolare. Nelle viscere abbiamo trovato alcool in abbondanza. E sono convinto, che se non fosse stato colpito dai proiettili alla testa, avremmo potuto riscontrare l’iperemia delle meningi».
«Il che vuol dire?».
«Che il senatore aveva bevuto molti liquori prima che lo uccidessero».
«Ah!… Bravo dottore!».
Riappese il cornetto. Nulla di strano che avesse bevuto. Dalle venti, quando aveva lasciato il Sempioncino, alle due di notte circa, ora in cui presumibilmente lo avevano colpito, in qualche luogo doveva esser pur stato e nulla di strano che fosse un caffè…
Premette il campanello. Al piantone ordinò di chiamargli il brigadiere Padovani.
Accorse un giovanottino elegante, che sembrava un maestro di ballo o un «ballerino» da tabarin, più che un poliziotto.
«Brigadiere, deve chiedere al suo commissario di lasciarla libero questa notte. Ho bisogno di lei».
Il giovanottino si gonfiò di soddisfazione.
«Ai suoi ordini, cavaliere. Questa notte sarei stato di riposo e la cosa è facile».
«Ebbene, vada da Bertolò, il fotografo sul corso Vittorio Emanuele, e si faccia consegnare una fotografia del senatore Magni… Ne avrà certamente qualcuna pronta, perché anche i giornali gliel’avranno chiesta… Con quella fotografia, giri tutti i locali, caffè, birrerie, ristoranti, che rimangono aperti dopo la una e s’informi se la notte scorsa il senatore è stato in uno di essi e a che ora e con chi era, dato che non fosse solo…».
«Ho capito, cavaliere. Lasci fare a me…». E il brigadiere uscì, con la vita lievemente ondeggiante, stretta nella giacca attillata.
De Vincenzi sorrise. Per una notte almeno, le infelici girovaghe notturne sarebbero state tranquille! Sani rientrava.
«Ho dato gli ordini per la ragazza. In quanto al fratello ho trovato la pratica».
E gliela porse assieme alla fotografia. Era voluminosa. Il commissario diede un’occhiata alla cartella riassuntiva. «Furto; furto; possesso abusivo d’armi; oltraggio e violenza agli agenti; altra condanna per oltraggio; furto; sfruttamento di donne; contravvenzione al monito; violenza carnale; spendita di monete false; inosservanza alla vigilanza speciale. Inviato a Ustica, ni Domicilio Coatto, ne esce il 5 marzo 1917, perché la sua domanda di redimersi, combattendo per la patria viene accolta. Dal 1918 al 1924, due condanne per sfruttamento di donne». «Un bel tomo, eh?» commentò Sani. «Non c’è male» rispose De Vincenzi. «Fallo fermare, se lo trovi. Incaricatene tu stesso».
«Questa notte, uscirò col pattuglione. Vuoi che faccia la “retata”?».
«Sì. Ti farò dar l’ordine dal Questore…».
«Io farei una perquisizione anche nel casamento di via Corridoni. Lo conosco e ci troveremmo tutti buoni clienti di San Vittore».
«No. Lì dentro no. Non voglio che si spaventino. Ho bisogno di farli parlare».
De Vincenzi si alzò e sospirò: «Adesso, vado su dal Questore…».
Mentre faceva lentamente le scale per salire al primo piano, pensava che tutto quanto aveva fatto e osservato da quando l’inchiesta s’era iniziata non lo aveva avvicinato di un centimetro all’assassino del senatore Magni…
A meno che… A meno che non dovesse tutta la sua riconoscenza all’ottimo Gualtiero Gerolamo Pietrosanto, il quale aveva saputo accorgersi subito della scomparsa di un volume erotico, pubblicato a Venezia nel 1531, e rubato dalla libreria di via Corridoni nella notte dal 20 al 21 marzo 1926…
E quella mattina il sole, entrando in Ariete, aveva segnato il principio della primavera!
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