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14. La conferenza di De Vincenzi

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Quell’uomo si sapeva difendere!

Ma il dispetto scomparve rapidamente dal volto di De Vincenzi. Troppo abile! S’era tradito.

«Quando avete letto quel giornale?» chiese il commissario, riprendendo l’interrogatorio.

«Stamane…»

«Qui, in casa, giornali non ce n’erano. Procurarvelo mentre eravate di là, adesso, non avete potuto. Quindi lo avevate con voi e lo avete letto prima di venir qui! È così.»

Il cameriere non capiva. Chiese naturalmente:

«E se fosse così?»

«Oh! Nulla!» disse il commissario con un breve sorriso. «Ma precisiamo: voi ammettete di aver letto quel giornale prima di entrar qui dentro, due ore fa?»

«Ma sì. L’ho detto. E non vedo che importanza abbia…»

«E allora, perché avete finto di non saper nulla, quando vi ho interrogato? Perché siete entrato in questa casa, come se nulla vi fosse accaduto? Perché avete giocato l’indifferenza dell’uomo, che non sa e che ha la coscienza tranquilla?»

Le domande s’inseguirono rapide e martellanti.

Giacomo era evidentemente colpito. Tacque. Si guardò attorno, come una bestia presa al laccio. I suoi occhi mandarono fiamme.

E per l’ultima volta, in quel giorno così pieno di avvenimenti drammatici, il trillante, innocente, inconsapevole campanello della porta d’entrata squillò a lungo.

Come le altre volte, tutti sussultarono.

De Vincenzi volse lo sguardo verso l’uscio quasi con ira. Poi guardò Giacomo e il volto gli s’illuminò. Aveva avuto un’idea. Disse a se stesso: è questo l’unico modo!

E ordinò al cameriere:

«Riprenderemo più tardi il discorso. Adesso, andate ad aprire, piuttosto…»

Come se avesse compreso che il commissario gli stava tendendo un tranello, l’uomo esitò. Ebbe un gesto. Guardò di nuovo attorno a sé e poi, senza affrettarsi, si diresse verso la sala d’ingresso.

Marchionni strinse i pugni e fece per seguirlo:

«Ma che cosa fate? È lui il colpevole. Fuggirà.»

De Vincenzi fermò il conte con un gesto brusco. Lo inchiodò quasi materialmente al suo posto con lo sguardo.

Giacomo, intanto, aveva aperta la porta e si era tratto da parte, per far entrare il giudice istruttore, seguito dal cancelliere. Poi richiuse la porta ed entrò nella sua stanza.

Il giudice istruttore avanzava rapido e sorridente. Era un uomo di una trentina d’anni, con un volto comune, un aspetto comune. Aveva gli occhiali sul naso e, poiché essi ogni tanto gli scivolavano, lui, con un movimento rapido, meccanico, da sembrare un tic nervoso, li riconduceva al loro posto.

Appena entrato nella sala, guardò in volto quei tre uomini e vide appena Maria Giovanna, che non s’era alzata dal divano.

«Il commissario?» chiese in giro.

De Vincenzi s’inchinò.

«Ai suoi ordini, signor giudice…»

«Ebbene? Abbiamo proceduto? Mi sembra un delitto di facile soluzione, vero? E poi…» aggiunse con ironia, «lei avrà certo le novità, che mi ha preannunciate!»

Accomodandosi gli occhiali, guardò il conte e Maria Giovanna, che, scossasi dal torpore, si era sollevata sulla persona e che si alzò lentamente.

«E questi signori?»

«Il conte Marchionni e sua figlia», presentò De Vincenzi:

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«Testimoni?» chiese il giudice, stringendo la mano al conte.

Il commissario assunse una leggera aria di trionfo.

«Credo che si possa fare a meno anche di loro…»

«Ah!» fece il giudice, fissandolo.

Poi mormorando: bene, bene, si diresse verso il tavolo e sedette, facendo cenno al cancelliere di sedergli accanto.

Il cancelliere tolse da una busta di pelle alcune carte e le dispose sul tavolo.

De Vincenzi si era messo in modo da poter osservare la sala d’ingresso. Era soprattutto alla porta della stanza del domestico, che teneva gli occhi fissi. Se i suoi calcoli erano giusti, adesso si sarebbe dovuto produrre il fatto decisivo. Ma intanto gli occorreva acquistar tempo, nell’attesa.

E parlò.

«Un delitto volgare, meravigliosamente concepito ed eseguito. I francesi chiamano i delitti di tal genere: crapuleux... Ma questo ha caratteri particolarmente intelligenti. Ha avuto per scopo il furto… Furto volgare di denaro…»

A queste parole, Marchionni e Giannetto, che sapevano come si fossero trovate cinquecento lire nel portafogli di Garlini, ebbero un gesto di meraviglia.

De Vincenzi, pur tenendo sempre d’occhio la sala d’ingresso, notò quel gesto ed ebbe un sorriso.

«Questa mattina, prima di venir qui,» disse rivolto ad Aurigi, «ho passeggiato anch’io e in piazza Cordusio mi sono fermato alla Banca Garlini. Ho interrogato gli impiegati della Banca e ho saputo che ieri sera Garlini aveva preso dalla cassaforte ventimila lire e se le era messe in tasca. Poiché ho potuto constatare che in casa sua quel denaro non c’è, è evidente che egli doveva averlo con sé, ieri sera.»

Si volse di nuovo al giudice.

«Questa sicurezza, mi ha permesso di escludere il movente passionale, per ammettere invece quello volgare. Certo… Sul principio, chiunque avrebbe seguita la pista della ricevuta del mezzo milione… e avrebbe commesso un errore irreparabile. Ma, se l’aver lasciate nel portafogli cinquecento lire è stato un tratto geniale, capace di fuorviare le ricerche al principio, esso rientra nel quadro generale della premeditazione e dell’accurata sottile preparazione. Non soltanto il ladro ha ucciso; ma ha ucciso, tendendo una così salda rete di indizi contro altre persone, che sospettare di lui sarebbe stato impossibile… se le pendole non avessero per compito di battere le ore e se io non avessi contati i colpi di quella pendola…»

Indicò col dito la pendola sul caminetto, che segnava adesso le sedici.

«Vede, signor giudice? Le sedici, mentre sono le quindici. E ieri segnava le undici, quando erano le dieci… Le undici meno una…

Fece una pausa. L’anticamera era sempre vuota. Si sarebbe ingannato? Per un momento temette che Giacomo fosse uscito da un’altra porta, ma si disse che era impossibile. L’appartamento era stato visitato in ogni parte. E in quanto alle finestre, non si poteva neppure pensare che un uomo facesse un salto di una ventina di metri.

«Vuole,» signor giudice, «gli elementi di fatto dai quali può dedurre in questo momento l’accusa, per ordinare l’arresto del colpevole e per procedere a cuor sereno alla sua incriminazione?»

«Non chiedo altro!» disse il giudice, che non capiva tutta quella loquacità del commissario.

«Eccoli: una pendola messa avanti di un’ora: una rivoltella chiusa in un cassetto; l’ammissione spontanea e non richiesta del presunto colpevole di aver ascoltato un colloquio svoltosi in questa stanza nel pomeriggio di ieri: una telefonata fatta al Commissariato Duomo, per far scoprire l’assassino al più presto e comunque durante la notte, ed infine alcune impronte digitali, che potranno rivelarci molto, ma che potrebbero anche non rivelarci nulla!»

Tutti così! pensava tra sé il giudice. Tutti chiacchieroni, presuntuosi, sicuri di se stessi, questi benedetti commissari. Loro indagano, scoprono e non forniscono mai prove sicure e chi poi si trova nei guai è il povero giudice!

«Vedo, vedo!…» mormorò accomodandosi gli occhiali sul naso.

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Non vedeva nulla, lui!

«Bene, bene!… Ma finora indizi, abilmente messi in valore; ma soltanto indizi. Nessuna confessione! E, se lei si sbagliasse, caro commissario? Se seguisse le orme ingannevoli di una fantasia giovanilmente ricca, per abbandonare quelle più sode della realtà? A me sembra, invece, che l’assassino, se leggiamo il nome scritto su questa porta, i bilanci della Banca, se esaminiamo la vita del morto e del presunto uccisore, ha… per così dire, firmato il proprio delitto!»

Giannetto non si era turbato. Sapeva troppo bene, lui, che le prove erano lì, chiare e lampanti, ad accusarlo. Ma davvero avrebbe preferito che tutto quel martirio finisse una buona volta e che lo accusassero, lo condannassero. Non poteva pensare di riprendere l’esistenza di prima, adesso che si sentiva l’anima smarrita e il cuore a pezzi.

«Infatti!» rispose De Vincenzi al giudice, chinando la testa.

Da qualche istante, si sentiva meno sicuro di se stesso. Quello che aveva preveduto non accadeva. Se realmente lui si fosse ingannato? Se tutti gli indizi avessero parlato contro il cameriere, come avevano parlato contro gli altri, vale a dire, per volontà del caso, contro un innocente?

Sapeva troppo bene, il commissario, che si stava giocando la posizione e la carriera. Quell’ometto magro, con gli occhiali che non stavano mai fermi, doveva essere molto tenace nelle sue idee. Come convincerlo, lui?

E fissava la sala d’ingresso, la porta della camera del domestico, con tutta l’anima negli occhi.

Ad un tratto il volto gli si illuminò.

Sulla porta aveva veduto comparire Giacomo e il cameriere aveva il pastrano in dosso e il cappello in mano. Si guardava attorno ed esitava.

Subito De Vincenzi si volse, per non far scorgere di averlo veduto. E riprese a parlare. Alzava la voce a disegno e faceva il maggior rumore possibile, per coprire i passi dell’assassino, che lui solo sentiva.

«Infatti! Tutto quanto lei dice è la pura ragione, che lo afferma. Il nome sulla porta… i bilanci della Banca… La vita del morto… Soprattutto l’esistenza condotta negli ultimi mesi dal presunto uccisore… Tanti fatti, tante prove… Ma vede, signor giudice, talvolta i fatti ingannano e le prove mentono… Che cosa occorre, perché si abbia la certezza? Sì, che cosa occorre?»

Sentì i passi avvicinarsi all’uscio d’ingresso sentì quell’uscio cigolare sui cardini lentissimamente; percepì il leggero scrocco della serratura, che scattava, per rinchiudersi.

Mandò un sospiro di sollievo e parlò con voce mutata.

«Ma la realtà è questa, signor giudice: che un assassino non firma mai il proprio delitto.»

Con accento di trionfo continuò:

«No, signor giudice, un assassino non firma mai il suo delitto, mentre talvolta firma la sua confessione. E il nostro assassino ha confessato!»

Il giudice sobbalzò in modo tale, che questa volta gli occhiali gli caddero sul tavolo.

Strizzando gli occhi miopi, si protese verso il commissario.

«Ah! Ha confessato! Ha detto proprio così, lei? Ma se poco fa diceva, invece…»

«Poco fa non aveva confessato! Ha confessato in questo medesimo istante, fuggendo…»

«Fuggendo?» urlò il giudice, alzandosi. «Ma che dice?»

Si guardò attorno realmente spaventato. Nessuno di coloro che aveva trovati nella stanza si era mosso dal suo posto.

«Chi è fuggito?»

Con semplicità, quasi dicesse la cosa più naturale e più ovvia, il commissario rispose:

«Giacomo Macchi, il cameriere, l’assassino…»

Il giudice lo guardò con stupore.

«Ma se è stato lui ad aprirmi la porta. Almeno, immagino che sia stato lui, perché l’uomo che l’ha aperta aveva tutto l’aspetto di un cameriere. Come sa che è fuggito, lei?»

«L’ho visto fuggire… Da questo specchio…»

E De Vincenzi indicò uno specchio appeso alla parete, dal quale si poteva vedere l’uscio d’ingresso.

Adesso, il giudice trasecolava. Alzò le braccia al cielo.

«Ah! Perbacco! E lei lo ha guardato fuggire e non s’è mosso?!… E che cosa aspetta, adesso, per farlo inseguire?»

«Aspetto, che sia lontano… Che cerchi di nascondersi… Che firma in modo chiaro e lampante la sua confessione… Non avevo altro mezzo per farlo confessare, che questo: dargli la possibilità di fuggire! Lui è un abile furfante ma è caduto nel tranello, che gli ho teso. Non andrà molto lontano, non dubiti…»

Guardava il giudice, che non riusciva a riacquistare i propri spiriti e quasi sorrise. Poi lo toccò dolcemente sul braccio.

«Segga, invece, signor giudice… La prego, segga di nuovo…»

Come dominato da quella sicurezza tranquilla, il giudice sedette. De Vincenzi gli si mise di fronte e riprese.

«Ecco! Benissimo. Ora mi ascolti. Le esporrò il modo con cui Giacomo Macchi ha ucciso il banchiere Garlini.»

Fece una pausa, evitò di guardarsi attorno, sapendo che dietro di lui vi erano tre anime in pena, alle quali ormai le sue parole non avrebbero potuto portar alcun sollievo, perché la tragedia l’avevano dentro di loro e non era soltanto quella del delitto commesso da altri. E poi continuò:

«Che cos’è un delitto, signor giudice, quando esso non sia passionale? È un’opera artistica! Una opera perversamente, delinquenzialmente artistica! E per opera artistica m’intendo un componimento di fantasia, sobrio e conciso nella forma, equilibrato nei propri elementi costitutivi, serrato e logico, chiaro e armonioso, teso e vibrante. Orbene, nulla più del modo con cui questo delitto è stato concepito ed attuato può dirsi artisticamente perspicuo… Mi ascolti, signor giudice! Ecco l’antefatto: un groviglio d’interessi materiali e passionali fanno sì che almeno due persone desiderino ucciderne una terza. Una di queste due persone, ridotta all’estremo limite della disperazione, dice a se stessa e forse ad altri: «rovina per rovina, io lo uccido!» e dà un convegno alla terza, la vittima, in casa sua, per la mezzanotte… In questa casa, vale a dire, e per ieri notte. Questo convegno e lo stato di disperazione della persona di cui parliamo… Diciamo addirittura, signor giudice, di Giannetto Aurigi… Sono noti al suo cameriere, Giacomo Macchi. Questi è un delinquente, che ha avuto molti conti da spartire con la Giustizia. Egli è furbo e persino geniale. Sa che il proprio padrone è arrivato ad un punto, che può anche benissimo commettere un delitto, e pensa di poterlo prevenire, traendo ogni vantaggio per sé e facendo cadere tutti i sospetti su di lui… Mi segue, signor giudice? E, allora, cosa fa? Oh! Semplicemente questo! Sa che il padrone non porta mai orologio e, valendosi d’una tale conoscenza, che sembra insignificante e che è capitale, si appiatta, dopo aver messo per ogni buon conto la pendola di questa sala un’ora avanti. Egli pensa: se Aurigi ritorna prima e guarda la pendola, deve dirsi che è già trascorsa l’ora dell’appuntamento e che Garlini non verrà più… Così, l’assassino si affida al caso. Esso può favorirlo, facendo nuovamente uscire di casa Aurigi e allora lui avrà il campo libero… Ed è proprio questo, che è accaduto, signor giudice… Comprende, adesso?»

E De Vincenzi continuò, lentamente, pacatamente, ad illustrare la ricostruzione, che aveva fatta del delitto.

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