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VII.
Influenza di Rousseau.
ОглавлениеI germi della prima idea erano nati dietro alle prime scoperte dei grandi scienziati di quel secolo di Newton, Spallanzani, Reaumur, che tutti o scettici o panteisti o deisti, tendevano ad atterrare l'ortodossia religiosa e politica; se non che quelle idee in gran parte giuste, si guastarono attraversando le menti pervertite dal classicismo, pronubo alle tristi nozze, un delinquente e pazzo di genio, il Rousseau.
Costui a vicenda cieco e veggente, poeta malato, in luogo dei fatti vedea i propri sogni, prendeva per atti i suoi propositi, e per propositi le sue velleità.
Sognatore e selvaggio, dominato dalle idee di persecuzione e dall'ambizione, si foggia gli uomini sul proprio stampo. “L'uomo è buono, l'ambiente lo guasta, tornate alla natura.„ E perciò egli invece di punire il malvagio, “puniva il gendarme che deve contenerlo„. La proprietà, secondo lui, è ingiusta, il ricco diceva al povero: vi do il permesso di servirmi ma in compenso dovete darmi tutto quello che vi resta. La società dunque è basata su un contratto iniquo, il popolo è il sovrano, il governo invece in realtà ne è men che il commesso.
Chi leggeva queste strane sentenze non ricordava che chi le dettava era un lipemaniaco, già ladro, già apostata, già cerretano, che aveva percorse tutte le gamme della scienza, e del vizio, che ritiratosi, come un selvaggio nei boschi, credeva di esser perseguitato dalla folla e che poteva ben dir col Tasso che così spesso citava:
Sempre fuggendo avrò me sempre appresso.
E qui le prove sovrabbondano[9].
“Io ho (scrive egli stesso nelle sue Confessioni), passioni ardentissime; mentre queste mi agitano, non conosco più riguardi, non amore; non vedo che l'oggetto; tutto ciò dura un istante, e l'instante che segue mi accascia, mi prostra.
“Dominato dai sensi, egli continua, non seppi resistervi mai; il piacere più piccolo, ma presente agli occhi, mi seduce più che tutte le gioie del paradiso.„ Infatti per il gusto di una cena fratesca (del padre Pontierre) si faceva apostata; per un lieve ribrezzo abbandonava crudelmente un amico epilettico sulla via.
Nè le passioni soltanto erano in lui morbose e violenti, ma l'intelletto pur anco era nella sua compage e fino dai primi anni guasto ed alterato, e ne siano prova queste confessioni:
“La mia immaginazione non è mai montata sull'allegro come quando sto male davvero. La mia testa non sa abbellire le cose veramente piacevoli che m'accadono, ma sì bene le immaginarie. Se voglio dipingere bene la primavera bisogna che sia d'inverno.„
“V'hanno tempi in cui sono sì poco simile a me stesso, che mi si prenderebbe per uomo di carattere affatto opposto. Prendetemi nella calma: sono l'indolenza, e la timidità stessa, e non so esprimere nulla dei miei pensieri; se io invece mi passiono, subito trovo ciò che ho da dire; le idee circolano imbarazzate, lentamente, sordamente, e non si presentano mai che dopo l'occasione. I piani più bizzarri (Confess., I, 129) più matti e fanciulleschi mi seducono, mi piaciono, mi paiono verosimili.„ Difatti a 18 anni si mette con un altro amico in viaggio con una fontanella di bronzo, e crede di poter vivere ed arricchire facendola vedere ai contadini.
E così quest'infelice percorre la serie di quasi tutte le arti, dalle più nobili alle più vili, da quelle dell'apostata a denaro, a quelle dell'oriolaio, del cerretano, del maestro di musica, del pittore, dell'incisore, del servo e del segretario diplomatico in erba, e nella letteratura e nelle scienze si abbarbica alla medicina, alla musica, alla botanica, alla teologia, alla pedagogia. L'abuso del lavoro intellettuale, tanto più dannoso in un pensatore in cui le idee svolgevansi lente ed imbarazzate, e lo stimolo sempre crescente dell'ambizione, a poco a poco trasformano l'ipocondriaco in melancolico e per ultimo in maniaco.
“Le mie agitazioni, scrive egli, le mie ire mi commossero, sì che durai in delirio dieci anni e non sono calmo che ora!„ Calmo!? Quando il morbo incronichito non gli lasciava omai distinguere più, nemmeno per brevi lampi, la parte reale dei dolori dalla immaginaria!
E infatti ei si ritira dal gran mondo, in cui anche prima s'era trovato a disagio, e fugge nella solitudine; ma anche nella campagna il mondo della città lo perseguita; i vapori dell'amor proprio, i tumulti del mondo appannano la freschezza della natura. Ha un bel rivolgersi nei boschi; la folla ve lo segue e persegue.
Più tardi crede che la Prussia, l'Inghilterra, la Francia, i re, le donne, i preti, gli uomini irritati da alcune frasi contenute nelle sue opere, gli abbiano mosso contro una terribile guerra, cogli effetti od apparenze della quale egli spiega il malessere interno che prova.
“Nel raffinamento della loro crudeltà, i suoi nemici hanno dimenticato una cosa sola: di graduargli i dolori, onde potesse tutti a sorso a sorso provarli.„ (Rêverie, p. 371).
Nella sua dimora a Londra, la sua melancolia si trasforma in un vero accesso maniaco. S'immagina che Choiseul lo facesse cercare per arrestarlo; lascia i denari ed i bauli all'albergo e fugge alla spiaggia pagando gli albergatori con pezzi di cucchiai d'argento; trova i venti contrari alla navigazione, e crede anche ciò un effetto del gran complotto; irritatissimo arringa dall'alto d'un colle, in cattivo inglese, la folla di Warton che lo ascolta, stupefatta, ed egli crede commossa.
Ma, ritornato in Francia, non trova ancora calmati i suoi nemici invisibili che lo spiano e interpretano male ogni suo atto. Se legge un giornale “essi dicono ch'egli cospira„; se fiuta una rosa, certo sospettano che studi qualche veleno contro di essi. Di tutto gli vien fatto colpa. Per poter meglio spiarlo, essi collocano alla sua porta un rivenditore di quadri, e fanno che la porta di casa non si possa socchiudere; niuno entra in sua casa che prima non sia stato sobillato contro lui. Essi corrompono contro di lui il caffettiere, il parrucchiere, l'oste, ecc.; il lucidatore di scarpe non ha lucido quando egli lo desidera; il pontoniere della Senna non ha barche quando egli vuol traghettare.
Egli chiede di esser messo in prigione, e.... fin ciò gli vien rifiutato. Per poter poi torgli l'unica arma, la stampa, arrestano un libraio, “ch'ei non conosce„ e lo mettono alla Bastiglia.
L'uso di bruciare un pagliaccio di carta a mezza quaresima era abolito. Lo ristabiliscono certo per desiderio di bruciarlo in effige. Difatti le vesti che gli posero addosso s'assomigliavano alle sue!! (Dialogues, 11).
Per diffondere questa sua difesa, da vero delirante ch'egli era, cominciò a distribuirne una bozza a tutti i passeggeri delle strade che alla faccia non paressero ispirati dai nemici suoi (sic); a tutti i francesi era indirizzato lo scritto, amanti della giustizia. Cosa singolare, malgrado e forse per l'intitolazione, non si trovò alcuno che accettasse con piacere lo scritto, anzi molti lo rifiutarono. Non potendo più oramai fidarsi di altro nume sulla terra, egli si indirizza a Dio, in una lettera assai tenera e famigliare; e, notate il concetto maniaco, per fargliela meglio pervenire ed assicurarsi così della sua protezione, pone la lettera ed il manoscritto dei Dialogues, sotto l'altare di Nostra Donna di Parigi.
Nè vi mancò quel delirio megalomane, che si alterna col persecutivo: “sfida il genere umano a mostrare un essere migliore di lui„, le sue Confessioni sono un'opera unica, ecc.
Ed egli fa della sua maniaca selvatichezza, il tipo ideale dell'uomo, e crede che ogni produzione naturale, dolce al palato od alla vista, possa essere innocua, cosicchè, l'arsenico, secondo lui, non sarebbe dannoso. La sua vita è un complesso di contraddizioni: preferisce i campi ed abita in via Platonière; scrive un trattato di educazione e mette i suoi, o quasi suoi, figli all'ospedale; giudica con sagace scetticismo le religioni, e getta un sasso contro un albero per indovinar l'avvenire e giudicar della propria salute, e scrivendo a Dio, pone le sue lettere sugli altari delle chiese, quasi che Dio vi avesse sua esclusiva dimora.
Ora, è la dottrina di questo pazzo che è diventata una bibbia; e i gravi danni che da essa vennero furono aggravati dalla passione della parola che ha un'azione in Francia più ancor che nelle altre razze latine, e, come ben nota il Taine, dalla influenza classica, che fa preferire alle teorie giuste, le frasi ben dette, la forma alla sostanza, e non s'imbeve solo dalla forma, anzi, più che della forma (che almeno potrebbe tradursi in qualche capolavoro estetico) di un'adorazione feticcia di quella, e tanto più inesatta, tanto più sterile e cieca, quanto maggiore fu il tempo che inutilmente vi si consumava; da ciò il disprezzare per una parola sbagliata, una persona, una teoria; da ciò lo immaginare gli uomini tutti foggiati ad un conio, senza badare alle varietà nascenti dal clima, dalle classi, dal sesso, dall'età; da ciò il non poter cogliere la importanza delle leggi storiche, le quali appunto mostrano nulla svolgersi di sicuro e di utile se non per lentissime evoluzioni.
Conforme allo spirito classico, la politica si trattava da lui astrattamente, isolando un dato semplice accessibile all'occhio e generalizzandolo.
Non han bisogno dopo ciò i suoi seguaci di studiare per far leggi. La volontà del popolo basta, e un po' di Contratto sociale. Nè v'era commesso di negozio che avendo letto il contratto sociale non si credesse capace di fare una costituzione. “Siamo noi (dicevano i Giacobini) che siamo i monarchi legittimi.„ Grégoire giunge a dire: “Potremmo, volendo, cambiar la religione ai Francesi, ma non lo faremo„, e lo fecero invece; e in nome della rivoluzione, cambiarono perfino i nomi dei giorni e dei mesi. E non uno solo ripeteva: Perano venticinque milioni di Francesi, ma resti la repubblica una e indivisibile!
Era una scolastica di pedanti, declamata con enfasi da energumeni, e quel che è peggio messa in pratica colla più bestiale violenza (Taine).
E qui ci pare un altro lato dannoso dell'educazione classica, quell'adorazione della violenza che fu il punto di partenza di tutti i ribelli, da Cola da Rienzi fino a Robespierre.
“..... Tutta l'educazione classica, scrive Guglielmo Ferrero (Riforma sociale, 1894), che altro è se non una glorificazione continuata della violenza, in tutte le sue forme? che comincia dalla apoteosi degli assassinii commessi da Codro o da Aristogitone, per arrivare ai regicidi di Bruto. E tutta la storia del medio evo e tutta la storia moderna, e la storia stessa del nostro risorgimento, come la insegnano oggi, quasi dovunque, che altro è se non la glorificazione, fatta da un punto di vista speciale, di atti brutali e violenti? Non ha forse potuto un poeta, che tutti considerano come il rappresentante morale dell'Italia nuova, scrivere tra gli applausi generali:
“Ferro e vino voglio io....
..........
Il ferro per uccidere i tiranni,
Il vin per celebrarne il funeral?„
“In questo punto, tanto il vizio è profondo, tutti i partiti sono d'accordo: i clericali grideranno urrah alla pugnalata di Ravaillac; i conservatori alle fucilazioni in massa dei comunardi del 1871; i repubblicani alle bombe di Orsini; ma tutti sono d'un pensiero, nel celebrare la santità della violenza, quando torna utile ad essi. Il nuovo eroe di questi ultimi anni del secolo non è nè un grande scienziato, nè un grande artista, ma Napoleone I.
“Chi può meravigliarsi, dopo ciò, se in una società così satura di violenza, la violenza scoppia fuori di tempo in tempo, da ogni parte, in lampi e tempeste? Non si può impunemente dichiarare santa la violenza, con il sottinteso che essa debba essere applicata solo in un modo determinato; presto o tardi arriva chi trasporta il Vangelo della forza da un credo politico ad un altro.„
E siccome dalla violenza al delitto il passo è breve, e siccome la passione politica trascina anche il senso morale e fa dimenticare, e noi ne abbiamo prove non poche, il ribrezzo del crimine anche agli onesti, così accadeva che anche la maggioranza di questi pur di veder trionfare le nuove bandiere politiche tolleravano di vederle in mano ai malvagi.
E non s'accorgevano che non soffrivano essi soltanto, ma anche il loro principio, perchè nulla di buono esciva dal delitto. E perfino di quel grande criminale di genio che fu Napoleone non restò al suo paese che l'odio e il sospiro di tutti i popoli.
S'aggiunga a spiegare la strana dedizione dei molti onesti ai pochi malvagi (poichè i Giacobini non oltrepassavano i 6000 in Parigi, e nelle piccole città non erano più di 14 o 15), che costoro erano una banda organizzata, contro una folla inerme, inorganica. E in uno Stato, chi ha la testa ha il corpo; grazie a quella strana acquiescenza che ci fa inclini a credere ad occhi chiusi, ad idolatrare, quanto emana dall'alto. Per cui quando uno è al governo, nelle miserabili nostre razze latine, per malvagio e ignorante che sia, trova mille che credono e che giurano sulla sua saviezza e onestà.
E anche qui ripetesi in un'altra direzione, quell'errore che emana dall'uomo quando la ignoranza e la ignavia di ciascuno è moltiplicata dal fatto dell'appartenere a una folla, si chiami pur questa Senato, Parlamento od Accademia, e peggio.... una plebe.
Migliaia e forse milioni di persone, nell'animo loro, avran dubitato della bontà, della saviezza dei governi Giacobini come ora della saviezza dell'impresa africana; ma, radunatisi insieme, ogni dubbio loro svaniva, sembrava fino una colpa che si scontava con nuove e più vigliacche dedizioni e idolatrie, e quello che è più strano con una più calda e fanatica convinzione di esser nel vero, salvo a dissiparsi alla loro completa rovina.
Così certo, le pecore, cadute nel baratro dietro al pastore, fino al momento in cui sentono il cranio frangersi sul duro fondo, opinano di andare per la via diritta.
NOTE:
1. Lombroso e Laschi. Il delitto politico e la rivoluzione. Torino, Bocca, 1890
2. Vedi il mio Uomo di genio, 6.ª ediz., parte IV.
3. Bonfadini, Mezzo secolo di patriottismo, 1888.
4. Les origines de la France Contemporaine, II, pag. 302.
5. Michelet, Hist. de la Revolut. Tom. 3, pag. 413.
6. Vedi il mio Delitto politico, Tomo III.
7. Vedi Uomo delinquente, vol. I, cap. III, 1893.
8. Uomo delinquente, 2.ª ediz., pag. 278-79.
9. Lombroso, L'uomo di genio, 1897, 6.ª edizione.