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V.
Cause dell'insorgere violento della criminalità.

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Tentiamo di spiegare come essi sorsero.

Le cause per cui il delitto politico si confuse col comune in modo così esplosivo e feroce furono:

I. Dapprima le carestie ripetute, che aggiungendosi alle tasse enormi sugli ultimi strati popolari avevano rese le condizioni di questi insopportabili, e provocato perfino un'enorme mortalità.

II. La seconda causa è che l'autorità e le caste oppresse avevano per una serie di strane ragioni perduta ogni abitudine e voglia di resistenza.

I borghesi indeboliti dall'abito della tranquillità, divisi dagli interessi, credevano sfuggir la tempesta restando quatti, e intanto lasciavano tutti i gradi della guardia nazionale ai giacobini e diventavan lor gregge; per cui minoranze audaci imponevano a maggioranze armate.

III. Terza causa fu il fondersi della criminalità comune colla politica.

I prodromi della rivoluzione francese sono segnalati da stormi di vagabondi, di ladri, di assassini; Mercier ne calcola un'armata di oltre 10.000 che man mano si restringe intorno alla capitale e vi penetra, e quando l'opera del Terrore comincia, presiede all'esecuzione in massa, come poi alle fucilate di Tolone, agli annegamenti di Nantes, mentre i Comitati rivoluzionari erano, come ben li definisce il Meissenet, delle vere associazioni organizzate, per commettere impunemente ogni genere di assassinî, rapina e brigantaggio.

I centri donde partirono le rivoluzioni, erano veri centri criminali, come Avignone, dove il contrabbando e il banditismo si era già dato la mano sotto la protezione del debole governo papale.

Nelle campagne, banditi vestiti in uniforme arrestavano i vecchi terrieri e li svaligiavano, mentre de' gendarmi o non ve n'erano o erano intimiditi.

I paesani finivano di arrestare e svaligiare tutti i forestieri sotto pretesto che fossero accaparratori.

A Parigi, nelle terribili giornate del 1793, questi criminali furono l'anima di tutti i misfatti.

Stormi immensi di vagabondi, stranieri alla città di Parigi, circa 40.000 secondo Taine, percorrevano i diversi quartieri, e si ingrossavano di numero coll'aggiungersi agli operai che uscivano dalle fabbriche.

Si erano impossessati qua e là di ogni sorta di armi, e gettavano dei gridi di rivolta; gli abitanti fuggivano all'avvicinarsi di questi gruppi, tutte le case chiudevansi, e ovunque dove si incontravano queste orde le vie si facevano deserte.

Entravano nelle case e negli uffici pubblici, e rubavano quanto poteva esser portato via, il resto devastavano spesso appiccandovi il fuoco.

Una prova ne abbiamo nello studio antropologico dei così detti capi di costoro. A dir vero la Repubblica non ebbe mai un capo se non in colui che la uccise: Napoleone. I così detti suoi capi erano ciarloni e ciarlatani, che vendevano al minuto la loro effimera influenza sulla povera plebe, la lor maschera di Eolo. Ora, una gran parte di costoro, quando non erano dei retori, erano dei puri delinquenti, e basta vederne la prova nell'immagine loro. Jourdan, Carrier e Marat, che riproducono in tutta la sua orridezza il tipo del delinquente nato, Legende,[6] un beccaio feroce, fino nell'Assemblea conserva i gesti del mestiere; Roussignol, antico soldato, poi carnefice, dopo aver presieduto ai massacri della Forge, si improvvisa generale. Manuel, il sindaco procuratore, aveva rubato in un deposito e falsificata la corrispondenza privata di Mirabeau. Varret aveva menato una vita così infame, che sua madre ne morì di dolore. Westermann era ladro e truffatore, come Pinie era ladro, Huguenin concussionario, Hebert borseggiatore, Henriot, prima servo di uno che lo cacciò per furto, poi guardia di una fattoria di dove fu cacciato per altri furti, infine capo di battaglione e carnefice in una delle carneficine di Settembre. Joussand, uno dei capi in Tolone, si firmava “Le pendeur de la ville„...

Una prova sociologica dell'indole puramente criminale di costoro è che sfuggivano ogni lavoro, tanto che la Comune non trovava operai per i lavori necessari a Montmartre e non trovava cittadini per far la guardia alle assemblee o ai depositi.

Ora è noto che il ribrezzo del lavoro è uno dei caratteri dei criminali.[7]

Nè mancavano i pazzi; l'orda rivoluzionaria ne avea loro aperte le porte; ed essi ebbero campo di sfogare il loro delirio sulle piazze e nelle vie, percorsero Parigi portando ovunque scompiglio e terrore.

“Il figlio d'una pazza — narra il Tebaldi — che soleva alternare il soggiorno fra il manicomio e la prigione, fu uno degli attori più spietati nelle perquisizioni, negli eccidi, negli incendi.„ È più celebre fra tutti la Lambertine Théroigne, che guidò la folla all'assalto del cancello degli Invalidi e alla presa della Bastille, e finì alla Salpetrière (Ragione e Pazzia, 1850).

A Lione, comanda Salix, un delirante mistico, omicida, che finisce a lasciar il comando in mano a prostitute, che eleggono commissarie femmine occupate tutto il giorno a saccheggiare i magazzini.

Ma il tipo che fuse in sè i caratteri del pazzo e del criminale, era Marat. Marat era di origine italo-sardo e svizzero, nato da una buona famiglia. Marat, come bene ci descrive Taine, era alto cinque piedi, aveva una testa enorme, in sproporzione col corpo, assimetrica, la fronte sfuggente, l'occhio obliquo, gli zigomi voluminosi; lo sguardo torbido e irrequieto; il gesto rapido e a scatti; il volto in contrazione perpetua; i capelli neri e untuosi, sempre arruffati; nel camminare saltellava.

Fin dall'infanzia manifestò una presunzione senza confini. Lo confessa apertamente egli stesso nel suo Journal de la République Française scrivendo:

“A cinque anni io avrei voluto essere maestro di scuola, a quindici professore, autore a diciotto, genio a venti. Fino dalla mia più tenera età io era divorato dall'amore della gloria, passione che cangiò di oggetto ogni tanto, ma non mi ha mai lasciato.„

Prima che scoppiasse la rivoluzione, cercò, ma indarno, di levar grido come scienziato.

A Edimburgo, dove faceva il maestro d'inglese, nel 1774 stampò il suo primo lavoro: The Chains of Slavery (Le catene della schiavitù), che tradusse poi da per sè in francese nel 1792 e che i suoi biografi giudicano un povero lavoro politico.

L'anno dopo pubblica un trattato in tre volumi: Sull'influenza dell'anima sul corpo, ecc., giudicato un miscuglio di letture indigeste, di nomi cacciati all'azzardo, di ipotesi gratuite ove le dottrine del secolo XVII-XVIII si accoppiavano senza dar luogo ad altro che a vuote frasi.

La sproporzione del suo ingegno colla straordinaria vanità, la sovraeccitazione continua, la copia dei suoi scritti, tutto caratterizzava il suo delirio ambizioso, cui come nel paranoico andò man mano associandosi il persecutorio, che gli faceva vedere invidiosi e nemici dapertutto. Medicastro, mal retribuito, di corte, nel passaggio dalla vita di studi all'azione, dal disprezzo a un poter sconfinato, da mattoide diventa monomane ed omicida. Sfoga dapprima il delirio sterilmente nel suo giornale, ma finisce per trovare eco nel popolo appunto per la sua assurdità. Eran sempre gli stessi articoli, le stesse frasi vuote e bestiali, eran dapprima 600, poi 100.000, poi 250.000 teste che egli (pretendendo applicare le teorie di Rousseau) chiamava al popolo, offrendosene, triste a dirsi, per giustiziere sommario. La sua immaginazione è avida di supplizi. Gli occorrono incendi, assassinî. Incita alle azioni atroci. “Marchiate gli aristocratici col ferro caldo, tagliate loro il pollice, troncate la lingua.„

“Non era questo il grido dell'appassionato, nota bene il Michelet (v. I), di un genio che veda ben tracciata la sua strada„, ma il grido feroce di un delirante epilettico.

E la sua ferocia era così evidentemente patologica che Bordier, il suo medico, leggeva il suo giornale, e quando questo era troppo sanguinario lo salassava, tanto reputava quegli impulsi omicidi effetto di un morbo.

“Ciarlatano, dice il Michelet, ingannatore e profeta da trivio, credente nelle proprie bugie, doveva gridare al miracolo almeno una volta al giorno.„

E questo era il letterato e certamente il più disinteressato di tutti. Figuriamoci gli altri.

Ubbriacatura. — Ad aumentare la ferocia dei veri delinquenti e l'irritazione di tutti si aggiunga, oltre all'ubbriacatura morale che dà il numero stesso, l'ubbriacatura fisica, il vino bevuto a profusione.

Monastier ubbriaco faceva ghigliottinare Lassalle, e al domani non si ricordava più dell'ordine dato.

I Commissari della Vandea vuotavano in tre mesi 1974 bottiglie e contavano nel loro seno Rossignol, un operaio orefice, divenuto generale in capo, tutta la vita dedito alle crapule, e Vacheron, che violava donne e fanciulli e faceva fucilare chi si opponeva alle sue libidini accese dall'alcool.

Ad Avignone un farmacista, fratello di uno dei capi masnada, ebbe l'orribile idea di intossicare con sostanze venefiche, probabilmente stramonio, i pacifici cittadini che divenivano così subitamente sanguinari.

Non ci meravigli questa strana influenza nelle rivolte dei criminali e dei pazzi ad un tempo.

Io ho a lungo dimostrato e più volte nelle mie opere, che mentre tutti gli uomini amano, odiano il nuovo, solo i matti, i mattoidi e i criminali nati hanno per questo una speciale attrazione.

Il criminale è, sopratutto per la sua natura impulsiva e per odio delle istituzioni che lo colpirono o che lo inceppano, un ribelle politico perpetuo, latente, che trova nelle sommosse il modo di sfogar doppiamente le sue passioni, e di vederle, per la prima volta, approvate anco dal pubblico. Ed è certo che costoro vedono, forse ispirati dalla passione, i difetti dei governi che ci reggono, meglio e più giustamente che non faccia la media degli onesti.

Gli è che in costoro l'anomalia organica prepara il terreno al minore misoneismo, ch'è il carattere normale dell'uomo onesto.

Conferenze tenute a Firenze nel 1896

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