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PESCI FUOR D’ACQUA
IV

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Passò un mese. In questo tempo gli studenti fecero chiasso, al solito, e ruppero vetri e banchi: l’Università fu chiusa e il numero de’ lettori, nella nostra biblioteca, s’accrebbe del doppio. Vi fu un gran da fare e Stazza fu dimenticato. Soltanto qualche volta, in un momento di tregua, il suo nome ricorreva nel vaniloquio degl’impiegati raccolti nella sala della distribuzione intorno all’ultimo bollettino del ministero, ove apparivano – già indicati, con una crocetta, da qualche necrologo de’ nostri compagni – i nomi di coloro che o eran morti o erano stati collocati a riposo. La constatazione de’ decessi e de’ ritiri– un refrigerio per i superstiti – occupava quelle constatazioni e quelle conversazioni fredde e indifferenti; per lo più si discuteva sugli anni di servizio del croce segnato o sulla somma della sua pensione. Ma la psicologia di queste sparizioni – un legame di troppo sottili e pietose induzioni che in altri spiriti potevano forse rampollare dall’esame di casi somiglianti – non veniva certo a turbare l’animo de’ miei compagni. Stazza, dopo tutto, sottobibliotecario a tremila, liquidava, come si dice, quasi dugento lire al mese. Una fortuna per un illetterato, una tabula rasa come lui, che la doveva a quei benedetti tempi borbonici ne’ quali era così facile di entrare, senza le qualità di cultura che vi occorrono, in un instituto scientifico come di mettersi a tavola in una pubblica taverna.

– Vuol vedere Stazza? – mi fece un di que’ giorni l’usciere addetto alla spolveratura della mia camera.

Con uno strofinaccio tra le mani s’era avvicinato al balcone chiuso e guardava nella via, attraverso a’ vetri.

– Venga, venga! Eccolo lì…

Mi levai e corsi al balcone.

– Lo vede?

– Dov’è?

– Non lo vede? Lì, seduto fuori al caffè di rimpetto. Lo vede? A quel tavolo a sinistra della porta. Eccolo che leva gli occhi. Guarda quassù, guarda i nostri balconi.

– Difatti.

Il colosso era lì, seduto a un tavolinetto tondo sul quale stavano il vassoio e la chicchera del caffè. Posava le mani sulle ginocchia e di volta in volta alzava gli occhi e li faceva trascorrere sulla facciata della biblioteca, lentamente.

– Così fa ogni giorno, da un mese – disse l’usciere.

E ripassò il panno sui vetri perchè vedessi meglio.

– Arriva al caffè sulle nove ore, si mette a sedere lì fuori, e vi resta fino a mezzodì. Poi torna dopo pranzo e si rimette allo stesso tavolino e non se ne leva che alle quindici.

– E tu come fai a saper tutto questo?

– Me l’ha detto il caffettiere. Il signor Stazza gli dà una lira al giorno, per l’incomodo.

Mi rimisi a sedere, pensoso. L’usciere, che non si partiva dal balcone, rideva e continuava a guardare rimpetto. E come l’alito suo tepido appannava la vetrata di volta in volta, egli tornava a soffregarla con lo straccio.

– Insomma, – seguitava – la biblioteca non se la vuol proprio scordare. Se n’è dovuto andare e nemmeno la lascia in pace. Adesso ci fa all’amore da lontano, tutti i giorni.

Non risposi. Ordinavo macchinalmente un mucchio di schede ed aspettavo, con una certa nervosità, che l’inserviente smettesse e se ne andasse.

– Ecco che s’addormenta… Venga a vedere. S’è addormentato…

Tornai a levarmi e mi accostai daccapo alla vetrata. Stazza aveva allungato un braccio sul tavolino e reclinata la testa sul braccio. Il cappello di paglia gli era scivolato di su le ginocchia a terra. Un lustrascarpe, che aveva posta la sua cassetta all’ombra, a pochi passi, glie lo raccoglieva e lo posava sul tavolino, accanto al vassoio.

L’ora meridiana avanzava: il sole batteva su’ muri. Uscì, a un tratto, dalla bottega il garzone del caffettiere e si mise a girar la manovella per fare abbassare la tenda, che scese, lenta. Sul deserto e largo marciapiedi, su’ tavoli, su Stazza si diffuse un’ombra uguale, per buon tratto.

Mancava qualche diecina di minuti alla chiusura della biblioteca. E svogliatamente, aspettando che trascorressero, ricominciavo a ordinare le mie schede. L’inserviente se n’era andato: le vaste sale, fino a poco prima turbate dal molesto vocio de’ distributori, s’acchetavano, adesso, in una pace profonda.

Improvvisamente – mi dimenticavo nella mia bisogna – il grande orologio della stanza de’ manoscritti suonò le quattro. Vibrò quel suono nel silenzio, con un tintinno allegro, come di cristalli percossi. Era l’ora. M’avviai alla porta.

Ma, sulla soglia, uscendo, m’arrestai, sorpreso. Lì sulla soglia, sul ballatoio, su per le scale vedevo agitarsi una folla attonita, mormorante, che quasi m’impediva il passo.

Risaliva le scale, di furia, Pandolfelli, un distributore.

Una voce gli chiese, dal balaustro del ballatoio:

– Di’, è vero? È vero?..

Pandolfelli rispose, alto:

– Sì, è morto.

Mi vidi di faccia l’inserviente, in quel punto. Apriva le braccia, smarrito.

– Stazza! – mi fece.

E battè palma a palma, convulso:

– Lì davanti al caffè, poco prima. Un colpo. Si ricorda? Quando pareva addormentato.

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