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L’IGNOTO
III

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Due, tre volte, perdutamente Letizia s’era quasi sospinta dal parapetto sul fiume tacito e lento. Aveva chiuso gli occhi, s’era allungata sul largo parapetto col busto, col ventre, lasciando penzolare le gambe dentro del ponte; e con le braccia stese, irrigidite quasi sul vuoto, aveva aspettato che una forza misteriosa, invocata, implacabile, la sospingesse improvvisamente. Ma al senso pauroso del vuoto s’erano ritratte le sue braccia pian piano, gli occhi suoi s’erano pian piano aperti e subito rinserrati sull’acqua torbida e oscurata, e più rilassato e inerte era rimasto quel corpo senza volontà, sul parapetto. Ora ella quasi temeva di spiccarsene, anzi le pareva che nel punto in cui fosse per scivolare a terra qualcosa dovesse risospingerla e precipitarla. Rimase prona sul balaustro: poi riaperse pianamente gli occhi e riguardò il fiume, di sotto. Il Volturno trascorreva lento e silenzioso tra le quattro arcate di fabbrica imperatoria. L’acqua torva pareva, a tratti, stagnante, così tardo era il suo cammino. Ma a quando a quando dei gorghi l’agitavano, e su per la giallastra sua superficie si rincorrevano pezzi di fradicio legno e batuffoli di paglia o di fieno. S’oscuravano di qua e di là le rive. Più avanti, sotto il ponte ferroviario, al punto ove esso cominciava a far gomito, l’acqua, incorrotta, luceva come uno specchio.

La donna interrogò un’ultima volta il fiume. Ora ne saliva un alito d’umidità, e dal liquido fangoso, che alle lor basi immani lambiva i pilastri quadrati degli archi, s’esprimeva quasi un fascino freddo.

– Che morte!.. – ella mormorò.

E come, nell’atto in cui s’indugiava, le cupe acque la tentavano, l’attiravano ancora, un improvviso tremito la percorse tutta. Ritrovò a mala pena la forza di lasciarsi scivolare sul ponte, dal parapetto, e a questo addossarsi, quasi mancando. Confusamente le appariva, adesso, uno spettacolo nuovo: sulla destra l’Arcivescovado, e poi le case basse, e poi una via che procedendo lungo quelle case si restringeva e, nell’alto, ancora più in là, sul cielo bianchiccio, la cupola della chiesa della Santella: in fondo, rimpetto a lei, l’alto anfiteatro della Riviera Casilina il cui largo arco a un punto era terminato dalla fabbrica rozza e massiccia della polveriera. Le finestre di Riviera Casilina rattenevano ancora il lume del tramonto e se ne accendevano. Abbasso, quasi sull’argine del fiume, l’infame contrada Mazzamauriello infilava su d’un sentiero invisibile le sue due o tre losche casucce a un solo piano.

Con la bocca serrata, con le braccia penzoloni, voltando le spalle al tramonto, Letizia non distoglieva lo sguardo da quel gruppo di case. Di là, su pel fiume, le pareva che le arrivasse una voce, un susurro, un appello. Fascinata, immobile, ella rimase lì, ritta tra le ombre che scendevano rapidamente sul ponte.

L’ora scoccò all’Arcivescovado. Letizia si volse attorno, percossa da quel suono. Era notte. S’era spento l’incendio del bosco, il cielo s’era chiuso, un velo plumbeo subitamente era sceso sulla Riviera Casilina e la nascondeva. Nell’ombra, alcune forme confuse passavano sullo spiazzo e si disperdevano. Allora ella mosse dal ponte verso il Corso Appio. Traversò lo spiazzo con celere passo, tutta raccolta nello scialle, affrettandosi. E pure sul punto di penetrare nel Corso illuminato e popolato, per un momento ella si soffermò e parve incerta.

– Andiamo! – mormorò a un tratto – Volontà di Dio…

Rabbrividì, come se avesse bestemmiato. Si tappò la bocca con un lembo dello scialle, quasi per soffocarvi, nell’atto stesso che le pronunziava, le parole sacrileghe. Ma ora, davanti a lei, luminoso e romoroso, il Corso Appio quasi la irrideva: alcune donne ridevano forte sulla soglia d’una bottega, un cuoiaio canticchiava presso alla sua, appoggiato allo stipite, e con un cicaleccio allegro, parlando di cose vane e giovanili, sbucavano da un palazzo tre o quattro fanciulle e passavano.

– Sì, sì! – ella fece, disperatamente – È volontà di Dio!..

Entrò nel Corso Appio e andò avanti, risoluta.

L'ignoto: Novelle

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