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L’IGNOTO
IV

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Procedeva, senza fermarsi, con la testa bassa. In Piazza dei Giudici, ove metteva il primo tratto Del Corso, da un globo enorme si diffondeva la luce elettrica e il vaporoso pulviscolo d’una pioggerella fitta e fredda roteava, penetrato da quel lume, per breve spazio attorno. Alle prime avvisaglie della pioggia i capuani avevano abbandonato la piazza; vi s’indugiavano ancora un gruppetto di soldati d’artiglieria, due carabinieri ammantellati, gravi, lenti, solenni, e lo scemo di Vico Cimino, un piccolo uomo di forme e di fisonomia scimmiesche, le cui membra piteciche ora s’aggrovigliavano al palo del lume elettrico, sferzate dalla pioggia e tremanti.

Come Letizia passò davanti all’Arco Mazzocchi una folla d’operaie del laboratorio pirotecnico ne uscì con alte voci confuse, imprecanti alla pioggia, e si rincorse lungo la murata del Municipio, e trascorse verso Porta Napoli.

Letizia si mescolò a quella folla e andò avanti ancora. Di tratto in tratto se ne spiccavano due o tre operaie e pigliavano, per rincasare, altre strade. Presso Porta Napoli la comitiva non si componeva più che di tre di quelle donne, le quali a un tratto si misero a scappare, rincorrendosi, strillando, sollevando e raccogliendo le sottane, e presto scomparendo nel buio. Letizia s’arrestò. Si guardò attorno, cercando di risovvenirsi. Poi fece ancora quattro o cinque altri passi e sparì anch’ella in un palazzetto a una delle cui finestre del primo piano penzolava, sbattuta dal vento, la tarlata insegna d’una locanda.

Ascese la scala a tentoni. Non v’era lume; ma ella conosceva il numero dei gradini e il posto della porticina. A quella picchiò due volte, colla mano spiegata.

– Viene… – fece di dentro una rauca voce maschile.

S’aperse la porta e un fiotto di luce dilagò sul pianerottolo. L’uomo che l’aveva schiusa reggeva un lume nella destra e cercava di affisar bene la sconosciuta. Poi si trasse addietro per lasciarla passare.

– Be’? – disse, dopo avere cautamente rinchiuso l’uscio – In che vi devo servire?

Levò il lume fino al volto della donna e con l’altra mano fece riparo alla fiamma.

Ma ora ella si liberava dallo scialle, lo raccoglieva sul braccio e gli si rivelava, immobile, ritta di faccia a lui, e muta, e tutta illuminata dalla fronte al petto.

Allora l’uomo esclamò:

– Gue’! Letizia!.. Ah, tu sei, dunque?

E voltandosi a una porticina socchiusa, dietro la quale borbottava una vecchia voce femminile, annunziò:

– È Letizia di Riva Casilina… Letiziella… Quella del furiere…

Letizia si coperse la faccia. Cessò il borbottìo dietro l’uscio socchiuso. E la voce senile, mentre l’uomo riponeva il lume sulla mensa dalla quale s’era levato, rispose:

– Buona sera… Ora vengo.

– È Chiarina – disse l’uomo, e sedette daccapo alla tavola – Ha le gambe enfiate, con rispetto, e le unge con una pomata che si vende a Napoli. Ha un’emicrania da cavallo, per giunta…

Additò una seggiola.

– Mettiti a sedere… Vuoi crescere?

– Vi devo parlare – disse Letizia.

– Be’… Dunque siedi. Che mi dici? E il furiere che fa?

– M’ha lasciata.

– Il furiere?.. – e con la mano spiegata l’uomo percosse la tavola – Possibile? Hai sentito, Chiarina?.. – e si girò sulla seggiola, e si voltò a parlare forte all’uscio socchiuso – Dice che il furiere l’ha lasciata…

– Vengo… – ripetette la voce.

Don Placido, un tipaccio rossigno, quasi calvo, animalesco, allungò la mano a un piatto colmo di stufato d’agnello e se ne recò un pezzo alla bocca, strappandogli, co’ forti molari, fin le ultime cartilagini. Si versò del vino. Sotto il lume, agguantata al collo della bottiglia, la sua mano tremava come per impeto di sangue pulsante: sul dosso vi rigurgitavano le vene enfiate e le dita unte e vellose, terminate da unghie rose e piatte, lucevano del recente contatto della vivanda. Un alito impuro emanava da quella stanza e dai suoi abitatori, come un fiato di anime e di materie corrotte. Dal mensale insudiciato, chiazzato di larghe macchie d’unto e di vino, si sprigionava un lezzo disgustevole.

– Sentite, don Placido… – disse Letizia subitamente – Io non posso restare più, a Capua. Capite, don Placido?.. Sono rovinata, e la rovina mia non la posso nascondere più…

L’uomo la guardò fisamente. Poi, con gli occhi piccioli e vivi, percorrendolo tutto s’indugiò a interrogare quel corpo palpitante e raccolto.

Letizia arrossì. Radunò in grembo lo scialle e ve lo rattenne con le pallide mani spiegate.

– Ho capito – disse don Placido.

E si grattò il capo con l’indice della sinistra: poi con quello della destra e col pollice strinse e trasse avanti il labbro inferiore. Levò la testa, e parve che interrogasse il soffitto.

Domandò, più piano:

– E a casa tua?

– Sono fuggita.

– Quando?

– Ora.

– Sei andata da lui?

– Inutile. Sono venuta qui.

– Parla più basso.

Seguì un silenzio. La grondaia del cortile gorgogliava: il romore era distinto, continuo. La pioggia non era cessata. Don Placido moderò la fiamma del lume, si levò, fece pesantemente due o tre passi nella stanzuccia e Letizia lo udì borbottare:

– Evviva il furiere!.. E bravo!.. Evviva!..

All’improvviso le si piantò di faccia, presso alla tavola. Le chiese bruscamente, brutalmente:

– Be’?.. E ora che vuoi fare?.. La vita?

Ella aperse le braccia e chinò la testa.

Don Placido, dopo un poco soggiunse:

– E a Napoli ci andresti?

– A Napoli?.. – balbettò Letizia.

– Vi ho un amico. Ti raccomanderò… La città è grande, vedrai… E qualche altra vi ha fatto fortuna…

Lo interruppe un colpo di tosse che arrivava da un’altra camera la cui porticina, alle spalle di Letizia, era pur chiusa.

Letizia trasalì e l’uomo si mise a ridere.

– È la bionda – disse, con una occhiata a quell’uscio – È una di Caserta. Parte a momenti per Napoli e io l’accompagno alla stazione.

La breve tossicina si fece udire un’altra volta, ma ora don Placido non vi badò.

– Per questo ti domandavo se ti piace Napoli. Se ti piace allora… vedi… puoi dirti fortunata, vi andrete assieme… Con la bionda. Ora deciditi. Hai capito? Grande città, gran gente, gran rumore, gran vita. Mica questi sordomuti di Capua, angiolo mio…

Tese l’orecchio. Pioveva ancora: il borbottìo della grondaia era superato dal crepitare della pioggia che percoteva il cortile.

– Se vuoi vedere la bionda è di là, in cucina. Si chiacchierava, appunto, quando sei arrivata. E s’è voluta nascondere: si vergogna. Be’, se vuoi vederla… Intanto io vado per un affare mio, fino all’Annunziata. E parla pure con Chiarina: tra femmine vi intenderete meglio…

A voce alta, mentre cercava il mantello e il cappello, annunziò:

– Vado fino all’Annunziata, Chiarí…

La voce rispose dall’oscurità:

– E il treno?..

– Parte alle dieci… – E don Placido, aperse la porta delle scale – V’è il tempo. Torno subito.

Sulla soglia si voltò a Letizia:

– La casa la conosci: accomodati pure. Aggiustati con Chiarina…

Uscì. La porta si richiuse e Letizia rimase sola.

Si guardò attorno, guardò l’uscio piccolo dietro del quale ella indovinava donna Chiara, l’orribile vecchia, gigantesca come il marito, quasi calva, dall’occipite rigato di filze di capelli tinti, copiosa di carne molle, e ondeggiante dal petto enorme e floscio sul ventre…

Si levò in piedi. S’era mossa quella porta. Ma era il gatto. Apparve sbadigliando, un gatto grigiastro e avanzò, lentamente. Vide Letizia: si fermò, la guardò, poi, rincamminandosi, scomparve nella penombra.

Letizia sospinse la porta della cucina.

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