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CAPITOLO QUATTRO

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Passarono nove giorni prima che la mia umanità entrasse nel limpido portale della sua casa nella festa dei suoi quindici anni. Arrivai presto, con il mio regalo innocente (a quel tempo mia madre lavorava come sarta e il presente che le portai era un taglio di una tela economica) e accompagnato da un sorriso che camuffava il nervosismo. Mezz'ora più tardi, ero seduto nella sala principale architettando un piano per non andare in pista. Al fondo, nell'atrio, le voci alte degli esperti in chiacchierate si intensificavano proporzionalmente all'aumento del vigore della musica. Erano presenti i suoi genitori, familiari e persone care, gente di cenacoli sabatini, tutti godendo dei piaceri della convivenza dell'istante (o, al meno, così lo immaginai; non mi venne la curiosità di osservare chi fossero e credo che, anche se l'avessi fatto, non avrei sicuramente riconosciuto nessuno). Per la maggior parte, ero circondato dai suoi compagni di scuola. La mia inettitudine nelle relazioni affiorava ad ogni instante, e non sapevo cosa rispondere: l'animale della caverna aveva per la prima volta davanti il mondo selvatico delle bestie sociali.

Arrivò il momento del ballo. Le mie gambe balbettavano e mi imploravano il sollievo del riposo e non perché fossero stanche ma per la vergogna della loro goffaggine. Lei era la esperta, e prendeva le mie mani come se avesse voluto insegnarmi in un istante le danze che, chissà, non avrei appreso nemmeno in una vita. Non ricordo se ballai con qualcun altro. La cosa più probabile, è che non lo feci. Mi ritirai con l’anticipo che mi imponeva l'orologio e, uscendo dalla festa, mi salutò con un bacio sulla guancia. Il dolce, incalzato dalla mia urgenza, apparve un paio d'ore più tardi sotto al mio portico. Le sue braccia delicate porgendomi il piatto costituirono un passo in più verso l'innamoramento.

Anche se il robusto era più rude, il muto era il più forte. Mi stropicciarono fuori e dentro mentre mettevano a tacere la mia disperazione tappandomi la bocca, che gemeva con sconsolazione e impotenza, e le mie lacrime cadevano sul pavimento.

Il giovane era il più impetuoso e, al contrario di quello che si poteva pensare, non mostrò mai indecisione ma si affondò su di me con la stessa predisposizione degli altri due più grandi.

Sicuramente qualche anima spaventata avrà visto l'atrocità. Ne sono certa, perché notai una luce lontana, qualche veicolo che illuminò ciò che stava accadendo e poi scappò. Potrai pensare, cara amica, che fu un'allucinazione propria della mia disperazione, come quelle oasi d'acqua che immaginano i pellegrini del deserto nell'aridezza dei loro esili. Può essere stata una visione o un ricordo inventato dalla mia memoria invecchiata, ma sono sicura che non lo è. Fu reale, così reale come la bestia a tre teste che possedette il mio corpo quella notte.

Tutte Le Lettere D'Amore Sono Ridicole

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