Читать книгу Tutte Le Lettere D'Amore Sono Ridicole - Diego Maenza, Diego Maenza - Страница 9
CAPITOLO DUE
ОглавлениеCome è solito succedere nel processo di incontri della razza umana, le nostre vite si scontrarono per un caso arbitrario del destino. Lei, quindici anni e nel suo splendore del periodo mestruale; io, con quattordici anni e i deliri della masturbazione. Fu sufficiente come pretesto un incontro casuale, una fiera del paese e cinque amiche impiccione per far sì che la nostra relazione cominciasse.
Lei era la ragazza più bella della scuola ed io un aspirante galantuomo che iniziò ad abbandonare gli studi a causa dell’appena conosciuta filosofia dell'amore.
A me, l'inizio della nostra relazione, risultò tenero. A lei, non molto. Ciò che motivò il suo avvicinamento fu l'affanno di iniziare una storia non con me, ma con un mio amico. La cosa ironica (e, perché non dirlo, romantica) fu che, nel processo, alla fine si innamorò di me. La conquistai, e ci conquistammo.
Forse cerco di spiegare gli avvenimenti ricorrendo a complicate astrazioni, ciò invece un superficiale si avventurerebbe ad esprimere con un paio di vocaboli. Ma lo sottolineo, il mio obiettivo ha un'ambizione maggiore.
La sua allegria contagiosa di fronte alla mia costante battaglia contro la malinconia; il suo carisma ed intelligenza riflessi nei contorni dei suoi occhi curiosi e vivaci ogni volta che le veniva in mente un'idea o in ogni occasione in cui cercava delle scuse nell'immaginario più recondito di fronte ai suoi genitori per giustificare le nostre uscite furtive, o di fronte alle mie pretese fisiologiche; la sua passione per la danza e la mia per la scrittura. Tutto lo rendeva ingiustificabile e, caro lettore, amata lettrice, capirete che per noi è stata la relazione più intensa che sia mai esistita al mondo e spero potervi comunicare in modo adeguato tutte le mie sensazioni.
La notte scese con sorpresa alla fine di quell'estate. Ero uscita dalla lezione di ballo che un giovane e bell’istruttore europeo aveva iniziato ad impartire nel paese, e che si tenevano di pomeriggio nell'istituto in cui studiavo. Ricordo che quel giorno avevamo provato una danza turca che, dopo l'accaduto, non avrei mai più ballato. La madre di una delle mie compagne si era offerta di accompagnarmi a casa in macchina. Mi negai. Desideravo camminare e schiarirmi alcune idee da adolescente quale ero.
Presi la strada più grande costeggiata da grandi alberi, che avvolgono con la loro penombra il cammino. Le stelle si affacciavano timide e una grande luna faceva sì che le pietre sul terreno brillassero come magiche lanterne.
Il destino volle che dalla penombra emergessero i tre rapaci. L'uomo corpulento mi abbordò con la maschera di arcangelo. Non pronunciò nessuna parola e non l'avrebbe fatto per tutta quella angustiosa notte, ma si mise nel mezzo del cammino e aprì orizzontalmente le sue braccia per far sì che mi fermassi, e così capii che era il capo del gruppo. Fecero capolino le altre due figure. Un giovane magro e non molto alto, con corporatura d'adolescente, portava la maschera di un teschio. Disse ―non puoi passare―, e il suono della sua voce mi confermò la sua giovane età. L'individuo alto e tozzo indossava invece la maschera di un ariete. La sua voce era grossa come la sua pancia e mi consigliò di non gridare.
Il mio corpo sentì il pallore tipico dello spavento. I miei pensieri si paralizzarono, come i miei muscoli. I miei peli si rizzarono quando sentii il contatto forzato con quelle tre bestie. Come se quel grasso ariete fosse stato uno stregone e la sua minaccia fosse stata una maledizione: per quanto ci provassi non potei gridare.