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CAPITOLO UNO

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28 gennaio

11:05 ora del Sinai (4:05 ora della costa orientale)

Vicino all’aeroporto internazionale di Sharm el-Sheikh

Penisola del Sinai

Egitto


“Arriva,” disse il giovane osservatore con una punta di preoccupazione nella voce. “Arriva l’aereo.”

Qualche metro più in là, Hashan al Malik sedeva a gambe incrociate sul terreno accidentato fumando quel che restava di una sigaretta turca. Le dita lunghe erano magre e scure, con lo sporco tanto profondamente incorporato che forse non sarebbero mai venute pulite. Aveva un viso di cuoio. La barba folta era bianca, con ancora qualche striscia di nero, ma gli occhi erano acuti e vivi. Aveva uno sguardo penetrante. Era vivo da molto tempo, e non per caso.

Nel mondo dei combattenti itineranti di Allah – i martiri, i mujaheddin – era spesso noto come Alshaykh, la parola araba usata per dire “il vecchio”. Oggi sentiva ogni minuto che aveva vissuto. Sicuramente era troppo vecchio per tutto questo. Aveva le mani fredde – quasi come ghiaccio – e il corpo non se la passava tanto meglio. Lassù si gelava.

Alzò lo sguardo sull’osservatore, un beduino dalla pelle scura con un turbante celeste che aveva trascorso tutta la sua breve vita attraversando quelle montagne aride e brulle. Il ragazzo indossava sandali sui piedi nudi. Aveva guance morbide e pulite – non avrebbe potuto farsi crescere la barba neanche sotto ordine di Allah. Se ne stava in piedi a guardare lontano, con il binocolo ad alto potenziale puntato a nordovest.

“Lo vedi cosa c’è scritto?” disse Hashan.

Esitò. “Un attimo… tra un attimo… sì.”

Hashan adesso udiva l’aereo, il rumore dei motori lottava per essere udito sopra al ruggito del vento. Si illuse di riuscir quasi a sentire il rumore del carrello di atterraggio che si muoveva.

“Cosa dice?”

“Dice TUI?” disse il ragazzo, quasi ponendo una domanda. Poi, con maggiore sicurezza: “Sicuro. TUI.”

Hashan consultò l’orologio che aveva sul polso secco. Non male, quell’orologio. Nero e pesante, dal cinturino spesso, il grosso quadrante al riparo dietro a vetro temprato. Era resistente agli urti, all’acqua, a freddo e caldo estremi e accuratissimo alle alte altitudini. Se l’avesse venduto, i ricavi avrebbero sfamato un’intera famiglia di contadini per un anno – ma l’orologio era più importante dei contadini. La famiglia poteva morire di fame, ma un uomo come Hashan aveva bisogno di sapere che ore fossero.

E l’orario, guarda caso, era esatto. L’aereo era in ritardo di venti minuti.

“Ci siamo,” disse Hashan. “È lui.”

Diede un ultimo tiro alla sigaretta e poi la gettò con il pollice e l’indice. Si alzò e si levò di dosso la pesante coperta di lana ruvida. Si concesse qualche secondo per ammirare le protuberanze delle colline che li circondavano e le innevate montagne più alte appena a ovest. Due secondi, forse tre – non c’era molto tempo. Riusciva già a vedere il puntino nero spostarsi nel cielo, crescere di dimensione, venire da loro.

Sollevò da terra il lanciarazzi marrone e verde. Era un aggeggio bellissimo – uno Strela-2, sistema missilistico terra-aria di fabbricazione russa recuperato dalle scorte personali del recentemente deceduto lacchè dell’Occidente, Mu’ammar Gheddafi.

Hashan passò rapidamente in rassegna le preparazioni precedenti l’attacco. Lo Strela poteva essere ricaricato, ma non sul campo. Avrebbe avuto un colpo solo, quindi meglio essere pronto. Rimosse le coperture e allungò i mirini, poi si posizionò il tubo sulla spalla. Attivò l’alimentazione dei componenti elettronici del missile e attese qualche secondo che si stabilizzasse.

Il lanciarazzi gli pesava molto sulle ossa – lo aveva fatto portare lì dal ragazzo.

I suoi sessantadue anni gli pesavano addosso più del razzo stesso. Aveva combattuto molte guerre in molti luoghi, ed era stanco. Essere stato mandato lì gli pareva più una punizione che un onore. Ieri aveva percorso a piedi quelle montagne impervie con il giovane del posto come guida, e avevano trascorso la notte senza cibo e senza fuoco, e si erano tenuti vicini sul terreno gelato in cerca di calore.

Il viaggio era stato difficile, ma Hashan aveva già avuto freddo e fame in passato, molte volte. Abbattere aerei di linea con vecchi missili da spalla sovietici era ancor più difficile. Si doveva essere degli esperti, e Hashan lo era, ma comunque…

Comunque…

Scosse la testa. Vecchio sciocco. Era Allah ad aguzzargli la vista. A tenergli ferme le mani. A guidare il missile al suo obiettivo.

Hashan era troppo stanco persino per pregare. Gli passò per la mente un’immagine – Allah immerso in una luce brillante che lo convocava in Paradiso. Sospirò. Avrebbe dovuto. Il Perfettissimo conosceva tutto, incluse le intenzioni del suo servo più inadeguato.

“Dammi la forza,” mormorò sottovoce Hashan.

Posizionò l’occhio destro dietro ai mirini di ferro, immobilizzò il tubo con la mano sinistra e tirò per metà il grilletto con la destra. Lo fece quasi automaticamente, come se il lanciarazzi agisse da solo. Hashan ora vedeva l’aereo abbastanza chiaramente – una specie di grossa barca, come un grasso bombo che si spostava lentamente da sinistra a destra, scendendo per atterrare all’aeroporto venti miglia a sud da lì. Il sole invernale luccicava sul vetro della cabina di pilotaggio a mano a mano che si avvicinava.

Non aveva importanza quello che vedeva Hashan. Avrebbe deciso il missile se la visuale era libera. D’un tratto, apparve una luce nei mirini di ferro e partì una bassa sirena. Il missile aveva acquisito un segnale a infrarossi dall’aereo. Hashan puntò il lanciatore davanti all’aereo, guidandolo di poco. Si piantò sui piedi e premette completamente il grilletto.

Il missile uscì dal tubo con un WHOOOSH, e la forza che ci mise fece oscillare la sottile figura di Hashan. Lo osservò andare, le pinne anteriori e posteriori saltarono fuori immediatamente. Parve volar via al rallentatore, e quasi immaginò di vederlo ruotare.

“Dio è grande,” disse il ragazzo accanto a lui.

Hashan annuì. “Sì.”

Questo era vero, che il missile trovasse o meno l’obiettivo.

* * *

Il deputato del Texas Jack Butterfield poltriva sul sedile vicino al finestrino della prima classe bevendo una vodka tonic, osservando le montagne scorrere sotto di lui e ascoltando il canuto miliardario inglese Marshall Dennis blaterare accanto a lui di alcune disavventure edonistiche vissute a Ibiza da giovane, il tutto simultaneamente.

“È uno spasso, Marsh,” disse Jack, e non scherzava. L’intero viaggio era stato uno spasso, finora. Quello era l’aereo del partito. Avevano cominciato tutti a bere in una sala VIP dell’aeroporto prima di partire da Gatwick. Erano andati a zonzo a piacere per la cabina per tutta la durata del volo, come se fossero a un cocktail party volante.

E la giovane hostess rossa di capelli gli aveva appena servito un altro drink, anche se stavano atterrando. La seguì con gli occhi risalire il corridoio per fermarsi alla fila del console generale egiziano. Mamma mia, quanto gli sarebbe piaciuto vivere qualche disavventura con quella hostess.

Doveva pensare a una ragione per richiamarla da lui.

“Se a te sta bene,” disse Jack, “probabilmente questa storia non la racconterei all’inaugurazione.”

“Oh, dubito che anche solo una persona ne rimarrebbe sorpresa,” disse Marsh Dennis. “Sono un tipo sportivo da sempre.”

“Lo so. Credimi quando dico che seguo le tue…”

E allora l’aereo si inclinò bruscamente e sbandò violentemente a sinistra. Dall’altoparlante del velivolo giunse una voce. Jack riconobbe la lenta parlata strascicata dell’Oklahoma del pilota, un vecchio veterano della marina statunitense che Jack aveva brevemente incontrato salendo a bordo. Ma adesso la voce era diversa. L’uomo parlava rapido e forte.

“Assistenti di volo! Prepararsi per atterraggio di emergenza.”

Qualcuno due file dietro trasalì.

La carina assistente di volo dai capelli rossi era caduta in grembo al console generale. L’aereo sbandava tanto che si ritrovava quasi sottosopra, a gambe all’aria. Non riusciva a rimettersi in piedi.

Jack Butterfield si voltò verso Marsh Dennis. Tutto parve rallentare e assumere un velo surreale. Gli occhi iniettati di sangue di Marsh erano sgranati, quasi rotondi dalla paura improvvisa. Per la prima volta, Jack si accorse delle profonde rughe che aveva in faccia – lunghi e stretti canyon che gli mareggiavano giù per le guance.

Jack abbassò lo sguardo sulla propria mano, che teneva la vodka in una tazza di plastica da aeroplano. Non ne aveva versata una goccia, nonostante il trambusto. Provò un momento di assurdo orgoglio alla cosa – beveva da molto. Diavolo, era uno del Texas, lui.

“Virare a destra!” gridò qualcuno alle casse. “Tutto a destra, ho detto. Oddio, ci sta seguendo!”

Jack si guardò intorno in cerca della cintura. La trovò, la agganciò e la strinse forte.

Trascorse un attimo.

“Prepararsi all’impatto,” disse qualcuno.

Impatto?

Accanto a lui, Marsh Dennis mise le mani rovinate sulla cima del sedile davanti.

Da qualche parte dietro di loro, lontano nella cabina principale, giunse un rumore. Il deputato Jack non lo capì. Era così forte da andare oltre la sua comprensione. Era come un tuono moltiplicato per mille. Un istante dopo, la traiettoria di volo cambiò drasticamente. L’aereo stava precipitando – una caduta nauseante. Giunse il fischio della corsa… non c’era nulla di paragonabile.

Le cose adesso presero il volo, risucchiate all’indietro. La bella rossa fu una di queste. Il carrello dei drink che portava fu un’altra. E dopo, partì un’altra persona – un grassone in giacca e cravatta.

“Posizione di schianto!” gridò una voce tonante.

Jack urlò, ma senza riuscire a sentirsi. Lasciò cadere il drink e si schiacciò le mani sulle orecchie.

La cabina dell’aereo era come uno stretto tunnel davanti a lui. Quando si capovolse, chiuse forte gli occhi. Nel mezzo del terrore che provava, non gli venne in mente nessun pensiero, solo una fioca consapevolezza che, qualunque cosa fosse seguita, lui non voleva vedere.

* * *

“Arriva,” disse Liz Jones.

Se ne stava in piedi con la sua squadra avanzata dell’accoglienza all’area ricevimento internazionale passeggeri VIP del terminal 1 dell’aeroporto di Sharm el-Sheikh. Tutta la squadra era vestita con le uniformi nero e oro della Dennis Hotels Worldwide. Lei portava un tailleur marrone chiaro.

Lì i finestroni erano alti quattro piani, e offrivano un panorama imponente delle montagne circostanti e del deserto che si avvicinava all’aeroporto.

Sentì un briciolo di nervosismo correrle giù per la schiena – quella era una faccenda seria. Stava arrivando un carico passeggeri di pezzi grossi, incluso Sir Marshall Dennis in persona, e per la maggior parte adesso sarebbero stati belli ubriachi. Ma Liz poteva farcela. Lo sapeva bene. Aveva corso con i grandi di tutto il mondo, per anni e anni.

“Datevi una mossa,” disse.

D’un tratto un giovane del gruppo, un irlandese, trasalì. Poi una giovane urlò. Adesso sempre più persone nella lounge urlavano.

Liz guardò fuori dalla finestra, col bel viso di mezza età intorpidito, il cervello congelato dallo shock. Per un lungo momento non capì quello che stava succedendo là fuori. Non aveva senso. Quei dati poco familiari non tornavano.

D’altra parte, in un punto profondo della sua mente, sapeva di aver immagazzinato un video di quello che stava accadendo in quel momento. Se lo avesse rivisto, sapeva che cosa sarebbe stato – l’aereo in avvicinamento sopra alle montagne, poi un bagliore di luce sulla fiancata destra del velivolo circa a metà, appena dietro all’ala. Lo aveva visto succedere in tempo reale, ma era stata incapace di processare la cosa. Si stava preparando psicologicamente allo sbarco, e non si era accorta di quello che stava guardando.

L’aereo si era spezzato a mezz’aria. All’inizio ce n’erano due pezzi, poi tre, poi quattro. La parte posteriore della fusoliera era partita roteando come un boomerang. La sezione anteriore era schizzata in basso in avanti. Si era capovolta, velocissima, schiantandosi contro alla collina pedemontana e mandando in volo migliaia di frammenti. Le ali si erano disintegrate sbattendo a terra.

Liz continuò a fissare. Adesso non c’erano che incendi su tutta la collina. Tutt’intorno a lei, la squadra rimaneva ammutolita, delle statue in nero e oro della Dennis. Dietro a loro, nel terminal, la gente ancora urlava, e adesso correva.

Molti erano crollati al suolo.

“Era davvero l’aereo?” disse Liz a nessuno in particolare.

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