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CAPITOLO I. Il vetturino livornese

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Gli dei di Ausonia se ne andarono, ed il suo cielo con essi! — esclamò Giacomo Boswell, fiore di galantuomo inglese, levando la faccia in alto e ricevendovi bravamente in mezzo uno sbuffo di acqua piovana.

Il vetturino che lo menava, non intendendo bene codesta dotta esclamazione, tacque e, seduto alla peggio su le stanghe del calesse, continuò a toccare il cavallo perchè accelerasse il passo. Il signor Giacomo, tra lamentoso e stizzito, ripigliò a proferire più forte: — Ed è egli questo il tanto vantato cielo d'Italia?

Allora poi il vetturino non si potè più reggere; e quantunque la domanda non fosse volta a lui, bensì a tutto il genere umano, egli, a ragione reputandosi particola di questo genere, pensò gli spettasse il diritto di rispondere per tutti, ed invero rispose:

— Sia benedetto! io glielo aveva pure avvisato innanzi di partire da Pisa: l'acqua è in terra, ma vostra signoria che cosa ha saputo replicarmi? «Non importa.» Lo ha ella detto, sì o no? Adesso, se ciò che si prevedeva accadde, non ci rimane a fare altro che quello che mi lasciò detto mio padre.

— Ed era?

« — Chi non seppe ben fare, sappia almeno ben tacere.» E poi anco questo altro, il quale però ha da capire come per via di metafora, non perchè si riferisca punto a lei: «Quando il ladro è di casa, non bisogna chiamare il bargello.»

Il signor Giacomo, chinato il capo, non fiatò più, anzi si pentì di avere aperto bocca, e, riprese il viaggio, accompagnato sempre dalla pioggia, giunse a Livorno e andò a smontare in via Borra al palazzo delle colonne di marmo, abitato dal signor Giovanni Dieck, scudiere e console di Sua Maestà Britannica in cotesta città.

Gittandosi giù dal calesse, il signor Giacomo con voce burbera interrogò:

— E devo pagarvi?

— Ma!.... due scudi fu il patto, e la buona mano, se le piace.

Queste parole pel modo, col quale vennero pronunziate, avrebbero fornito agli studiosi dell'arte musicale subietto stupendo ad ammirare, perchè dai suoni risentiti scesero giù giù per una scala semitonata ad una specie di bisbiglio; e questo in virtù del diritto che, fatta la prima parte, lasciava luogo alla speranza, la quale pareva persuasa che essendo fuori a quell'ora, non poteva buscare altro che acqua.

— Bene; ecco i due scudi. Buona mano ch'è?

— Diavolo! Oh! che? non ha mai viaggiato vostra signoria? oh! che? ci è ella piovuto dalle nuvole in Italia? La buona mano, a ragionarvi su, propriamente vuol dire la mancia che i viaggiatori, quando si trovano serviti bene, donano al vetturino oltre il fissato.

— Quando si trovano serviti bene: ma io mi trovo servito male, dunque non vi do nulla.

— Capisco che buon viaggio non fu di certo il suo — e così dicendo gli levava la valigia di cassetta — ma ci ho colpa io? Me ne rimetto alla sua coscienza.

— E poi la vostra definizione della mancia è mal fatta.

— Quanto a questo poi, io me ne ho da intendere più di lei.

— Vi dico che manca; e manca questo: denaro al vetturino oltre al fissato, perchè vada ad ubbriacarsi all'osteria e bastoni poi la moglie e i figliuoli.

— È vero, — rispose il vetturino abbassando il capo.

— Bene, dunque portate in pace se non vi do nulla; perchè temo che Dio mi domanderebbe conto di avere dato causa col mio denaro a degradare la creatura: la creatura, capite, dove Dio impresse la sua santa immagine, ch'ella si affatica tutto giorno a cancellare sostituendovi quella della bestia; anzi no, perchè le bestie non si ubbriacano. Dite: avete mai visto per le strade cani, cavalli od asini briachi?

Il vetturino, finito questo acquazzone di parole acerbe, rispose ingenuo:

— No, signore, io non ce gli ho visti, ma io aveva creduto in coscienza potere omettere la sua giunta, perchè all'osteria non vado mai.

— Bene.

— E nè manco bevo vino.

— Benissimo.

— Non tanto come la si figura lei; ma che vuole? Bisogna stenderci quando il lenzuolo è lungo: che ho moglie e figliuoli, e quello che guadagno col padrone basta per pagare il fitto e pel pane; con le buone mani si rimedia al resto.

— Avete moglie? avete figliuoli? non andate all'osteria? non bevete vino? Oh! allora è diverso. Perchè non me lo avete detto avanti? Potevatelo dirmelo prima, chè mi avreste risparmiato la mala azione d'ingiurarvi a torto. Vi domando perdono: ecco la buona mano, e il Signore vi dia la buona notte.

E, lasciata la valigia nello androne, schizzò su per le scale presto così, che gli pervenne mezzo all'orecchio il «Dio gliene renda merito» che il povero vetturino gli mandava dietro nella pienezza del cuore.

Il giorno dopo, verso le nove di mattina un uomo di florida età, bello in sembiante e, più che bello, sereno, stava fermo sopra il secondo gradino del palazzo delle colonne di marmo, guardando trasecolato il cielo ora da una parte, ora dall'altra, e pareva non si potesse saziare di contemplarlo.

Egli era il signor Giacomo Boswell, giovine di trenta e qualche anno, di capelli biondi, occhi cilestri come la più parte de' suoi compatrioti appaiono: bensì proprio di suo ci metteva la sembianza, che l'Onestà stessa avrebbe potuto pigliare in presto, se le fosse venuto il capriccio di fare una visita al mondo vestita, come la signora Bloomer, da uomo, ed un misto di costanza, di argutezza ed anco di malizia, ma di quella buona, quasi fuoco che scalda e non iscotta. Il signor Giacomo si lasciava governare dalle sue voglie, le quali, per quanto talora si manifestassero singolari, essendo sempre dirette alla conoscenza del vero, all'ammenda e al sollievo dei proprii simili, se da un lato movevano al sorriso, dall'altro invitavano a tenergli dietro le lacrime. Così in primavera il sole si mescola talvolta con la pioggia, e i fiori giocondati da quello e da questa smagliano come diamanti: vera festa della Natura. Sogliono gli uomini francesi chiamare questi umori britanni stranezze, gl'irridono. Sta bene; essi sono tutti uniti, tutti lisci, anzi uguali tra loro come mattoni. Però badino: co' mattoni si fanno i pavimenti, non le cupole, e basta.

Il signor Boswell non apparteneva alla setta dei Fratelli, o vogliamo dire Quaccheri, ma assai le si accostava coi costumi e col vestire; abborriva la cipria; i capelli portava stretti dopo le spalle con un nastro di seta nero senz'altra acconciatura; la barba rasa diligentissimamente, chè gl'Inglesi non erano a quei giorni venuti a contesa di pelo con gli orsi; le vesti tutte (se togli i pannilini bianchi e le scarpe nere) di una stoffa eguale e colore di piombo; nella mano manca tra l'indice e il pollice portava una tabacchiera d'argento, alla quale imprimeva di tratto in tratto un moto ondulatorio, e qualche volta, nelle veementi commozioni, mercè un colpo dell'indice della destra, la faceva girare dentro la medesima morsa.

Ed ora appunto gli avea dato questo colpo solenne: nè a torto, imperciocchè adesso il cielo gli si spandesse sul capo immenso di azzurro sereno; e se l'occhio dell'uomo avesse potuto arrivare fino costà laggiù nel profondo del cielo, ci avrebbe contemplato Dio nelle magnificenze della sua gloria. Il sole, stupendo di calore e di luce, incedeva per lo emisfero come creatura che senta la solennità del messaggio di bandire alla terra la bontà infinita del suo Creatore. Le aure di aprile alitavano in faccia alla gente con la salute il profumo dell'arancio, dacchè a quei tempi Livorno non andasse gremito di case lunghe, intirizzite, fabbricate una sopra le spalle all'altra come frotta di perdigiorno su ritti in punta di piedi per vedere il cane barbone che porta in giro la scimmia a cavallo; bensì abbondasse di spazi grandi lavorati a giardino, fiorenti di ogni maniera di agrumi, ed appunto davanti la casa del console inglese se ne ammirasse uno vasto quanto leggiadro, attiguo al palazzo fabbricato dai signori Franceschi di origine côrsa.

— Bene, benissimo! — ripeteva il Boswell con accenti sempre più musicali; e il piede inconsapevole, davanti tanta armonia di cielo, batteva la misura chè la melodia di un bel giorno d'Italia gli s'insinuava nel sangue — bene! gli dei ritornano, e naturalmente con essi l'Olimpo, ch'è casa loro.

Intanto un uomo, il quale già quattro volte e sei lo aveva richiesto, pregato e supplicato a tirarsi da parte tanto ch'ei potesse passare, accorgendosi che con le buone non ne sarebbe venuto a capo, lo spinse oltre soavemente e passò. Ho detto soavemente, bene intesi però che questo ed altri avverbii cotali non vestono natura assoluta, bensì relativa: tanto vero questo, che la spinta, soave, quanto all'uomo che la dette, non parve tale al signor Giacomo che la sofferse, essendo andato di schianto a battere con la spalla nella colonna sinistra del portico; ond'è che, richiamato così ex abrupto al senso delle faccende della vita, non senza un po' di collera egli prese ad esclamare:

— Galantuomo! il maestro della buona creanza vi ha proprio rubato il salario.

— Oh! è lei? In verità, vestito così da signore, io non l'avea mica riconosciuto.

— Bene; ma, o io o un altro, dovete convenire che a fare le cose con un po' più di garbo non ci si scapita nulla. Orsù passate...

— Eh! no, signore.

— Come no? Poc'anzi mi avete dato uno spintone da rompermi il capo contro le pietre per passare, ed ora mi state piantato là come un palo.

— Oh! che ci è da stupire? Io non ho più bisogno di passare adesso... Cercava per lo appunto di lei.

— Me?

— Proprio lei. Si ricorda vostra signoria dei ragionamenti che tenemmo ieri sera circa alla buona mano?

— Sì, mi pare; qualche cosa fu detto.

— E come! Su le prime lei non mi voleva dare niente...

— Avanti.

— E poi me la dette, ma era buio: ella si mise la mano in tasca e non ci badò, ed io nè meno. Tornato a casa consegnai la moneta a Caterina; e non ci era da sbagliare, in tasca mia cotesta moneta ci si trovava figliuola unica di madre vedova, e poi di oro non ci sono mai usate; Caterina guardò la moneta e me negli occhi; dopo disse: «E te l'ha data proprio lui?» Oh, chi me la deve aver data gua'? disse io. — Allora Caterina da capo: «Dunque dev'essere sbaglio.» Malanaggio! dissi io; se non isbagliava, stasera si rimediava al companatico. Venire ieri notte a riportarle la moneta non mi pareva che c'incastrasse, perchè a casa tornai tardi, chè prima mi toccò asciugare e governare il cavallo; stamani subito che ho potuto, vengo a fare il debito mio.

E stesa la mano porgeva la sterlina al Boswell, il quale, dondolando la scatola via via, diceva:

— Bene, bene. — Ad un tratto domandò: — Di che paese siete?

— Di Livorno.

— Proprio?

— Eh! di sicuro e battezzato in duomo.

— E ce ne hanno di molti vetturini come voi a Livorno?

— Lo credo, e devo crederlo; quali e quanti non so; perchè io bado al fatto mio e tiro lungo.

— Bene, come vi chiamate?

— Mi chiamo Giovanni.

— Non fu sbaglio, caro Giovanni: vi prego anzi a pigliare anche quest'altra, e la porterete da parte mia alla signora Caterina vostra consorte, che saluterete da parte mia e le direte che la spenda... la spenda come le farà piacere; chè so che non bisogna de' miei consigli.

— Ma che? le pare? rispose Giovanni respingendo con la manca la mano del Boswell, e con la destra sporgendo sempre la ghinea. Ma che? le pare? di questa sola ce ne sarebbe di avanzo.

— Non ricusate, Giovanni, la provvidenza che Dio vi manda; non vogliate peccare di superbia.

— Eh! giusto; io sono troppo povero, mio signore, per concedermi il lusso dei peccati mortali.

— Dunque obbedite; prendete e andate per le vostre faccende.

— Obbedirò, e Dio gliene renda merito un'altra volta. Oh! la è pure la bella cosa essere ricco: ed io, veda, mi ci sono messo a desiderarlo più di una volta, perchè mi è parso che a far bene ai poveri si ha da provare un gusto matto; e ora che mi è capitata questa fortuna, il gusto me lo vo' cavare ancor io; una delle monete che vostra signoria mi ha dato, vo' mandarla al Paoli.

— Com'entra qui il generale Paoli? come conoscete voi il generale Paoli? in qual modo è egli povero il signor generale Paoli?

— Io lo conosco, e lo posso conoscere come gli altri, perchè la buona reputazione entra gratis nelle orecchie di noi altri poveri come in quelle dei ricchi. Lo credo povero, perchè, il Paoli e la Corsica facendo una cosa sola, so che la Corsica è poverina e poi, ne vada la testa, non vuole patire prepotenze dalla Francia, la quale non si vergogna di mettersi a repentaglio con lei, chè sarebbe come se un pescecane invitasse a' morsi un ghiozzo del molo. E ci entra il Paoli, e ci entro io, perchè ad amare la libertà non si paga nulla, ed io amo con tutto il cuore la libertà e il Paoli, e benedetta la sua faccia che la difende!

— Oh! — proruppe il Boswell cacciandosi a precipizio la scatola dentro la tasca della sottoveste; poi, con ambedue le mani libere, presa la mano del vetturino e stringendogliela e scotendogliela fino a slogargli la clavicola del braccio, ripeteva: — Benissimo, bene... bene! Giovanni, io da questo non vi dissuado davvero, perchè quello che voi avrete speso in benefizio della libertà del genere umano, Dio misericordioso, oltre il merito nell'altro mondo riservato alle anime sante, ve lo renderà centuplicato anco in questo, non fosse altro, col sentimento della vostra dignità.

Aveva meco stesso disegnato non interrompere con digressioni il filo del racconto, properando a scavezzacollo verso la fine, come insegna Orazio nella poetica, ma con inestimabile amarezza mi tocca a rompere il proponimento, non già per colpa mia, bensì per contraddire a certe voci che mi odo bisbigliare qui attorno. «Costui, dicono le voci, delira; comprendiamo anco noi che a chi racconta novelle è mestieri fare la parte larga della fantasia, ma spingere fino al mostruoso la immaginazione, questo non patiremo mai. S'intende acqua, ma non tempesta! I vetturini di Livorno, a sentirlo, procedevano sviscerati della libertà nel secolo passato, mentre nel nostro gli stessi signori negozianti e gli altri che vanno per la maggiore in cotesta terra, o non la conoscono o, conosciuta, si affretterebbero a disfarsene come la peggiore delle derrate.» Ora io rispondo: Quanto ai Livornesi del tempo che corre, io non saprei, chè da parecchi anni vivo lontano da casa; ma non ci credo, e mi giova non crederci. Forse qualche sciagurato non aborrì procacciare a' suoi figliuoli perpetuo retaggio d'infamia; ma come un fiore non fa ghirlanda, così nè anche, dove apparisce un diavolo, ecci lo inferno. Ad ogni modo i Livornesi soli accolsero i Tedeschi a cannonate in Toscana; certo nelle difese non durarono nè potevano durare; non importa, non per questo palesarono meno l'odio contro la razza esecrata: e se tu pensi alla comune viltà, quanto fu minore la possa, invece di cavarne materia di biasimo, come fanno taluni codardi maligni, tanto ti parrà più grande il cuore di avere maledetto faccia a faccia un prepotente nemico. Quello che narro del popolo livornese del secolo passato, se non vuolsi credere a me, credetelo ad Ottavio Renucci, che prima fu gesuita e poi galantuomo (trasformazione difficile, ma che pure è talora accaduta); credetelo all'abate Giovacchino Cambiagi, le scritture dei quali (che storie non mi attento dire) io vi prometto farvi toccare proprio con le mani in altra parte di questa storia. Per ora contentatevi così.

Dunque si metta in sodo, per quello che può valere, come, cento anni sono, il popolo livornese amasse la libertà.

Pasquale Paoli; ossia, la rotta di Ponte Nuovo

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