Читать книгу Pasquale Paoli; ossia, la rotta di Ponte Nuovo - Francesco Domenico Guerrazzi - Страница 8

CAPITOLO VI. Perchè i Côrsi non amino i forestieri

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Altobello, senz'altro dire, si giacque a canto allo amico suo Giocante Grimaldo, il quale, comechè animoso molto e della patria sviscerato, pure non sapeva fare altro che menare le mani e dormire. Fino da quando egli ebbe uso di favella non si ricordava avere parlato tre minuti senza sbadigliare quattro volte. Soleva dire che la rettorica del soldato sta sul taglio della spada, e se per questa ei non capisce, o con questa non si fa capire, gli è segno ch'ei nacque per servire la messa, non già per esercitare la milizia. Giocante per tanto dormiva; ma siccome riesce più agevole perdurare nel sonno che incominciarlo, come ogni uomo può avere esperimentato, così accadde che, sebbene Altobello, il Boswell e padre Bernardino ci si mettessero di proposito, non ne vennero a capo. E davvero, posti ancora da parte i pensieri che ad ognuno di loro mulinavano pel capo, non persuadevano il sonno lo zufolio del vento pel sartiame, il fiotto dei marosi che, rompendosi contro la prua, scivolavano cigolando lungo le bande della galera, e quel tracollo da poppa a prua squassa la carena alle navi e le viscere ai passeggeri. Infatti Altobello, dopo essersi voltato delle fiate più di venti ora sul manco, ora sul diritto fianco, si mise a sedere, tirando in su le gambe, e su quelle appoggiati i gomiti, introdusse la faccia nelle mani aperte come dentro una morsa. Fra Bernardino, notato l'atto e parendogli buono, non pose tempo fra mezzo ad imitarlo, e il signor Giacomo, quasi a far prova del quanto sia contagioso lo esempio, tenne dietro a que' due.

Parevano gli amici di Giob quando, invece di consolarlo, andarono a fargli scappare la pazienza, finchè preso il morso fra i denti, il buon patriarca dette di fuori. Per la qual cosa io non sono mai arrivato a comprendere come sia passata in proverbio la pazienza di Giob. Scorsa lunga ora in silenzio, fra Bernardino chiamò:

— Altobello!

— Che desiderate da me? — rispose il giovine còrso.

— Mi è venuto lo scrupolo di avere proceduto con manco di cortesia con questo gentiluomo su dianzi in coperta.

— La coscienza non v'inganna; consideratelo voi: questo gentiluomo per visitarci muove da casa sua.... dalla Inghilterra....

— Ah! Inglese? La è dunque inglese vostra signoria? Angli olim angeli, nunc diaboli,[10] come ho sentito dire a Roma.

— E non solo le parole vostre mi parvero inurbane, ma se penso che voi foste lettore di filosofia, senza discorso di ragione, — riprese a dire più acerbamente Altobello.

E il Boswell allora con voce blanda soggiunse:

— Buttiamo la filosofia in un canto, contrario alla carità predicata da Cristo, di cui voi giuraste praticare e bandire la dottrina: contrario al divino precetto che vi ordina di riverire e amare ogni uomo come fratello....

— Per Dio Santo! voi volete fare la predica al predicatore? Circa a mancare alla creanza, può darsi; voi l'avete inteso, io me n'era quasi avvisato da me; rispetto poi a carità, signor Inglese, voi avete il torto. Se voi sapeste quante desolazioni, quante rovine ci abbiano diluviato addosso i forestieri, voi parlereste diversamente. Io dubito riuscirvi sazievole, signor Inglese, ma tanto è; bisogna che voi mi porgiate ascolto: ce ne va della mia riputazione; e poi voi non potete dormire col vento che tira: per ultimo considerate che, se non vi porgo la chiave, voi non potrete entrare nella ragione dei fatti nostri. In breve mi spiccio.... vi degnate ascoltarmi?

— Parlate a vostro agio, signor frate: anzichè infastidirmi, penso che mi recherete molto piacere, se m'ingannassi, ve ne accorgerete....

— Sentendovi russare? In qualunque caso ci guadagnerete un tanto.

Il signor Boswell non rispose, ma aperta la scatola offerse tabacco al frate, il quale ne prese, e anco ad Altobello il quale ricusò; il signor Giacomo ne tolse anch'egli la sua porzione: ond'è che, tirando su in coro col frate la polvere attinta nel medesimo vaso, si sentivano questi due cristiani più che a mezzo riconciliati.

— I forestieri — finito il tabacco, disse il frate Bernardino — i forestieri si ficcarono in Corsica dolorosi quanto i chiodi nelle santissime carni di Gesù Cristo: questo vi ho detto e questo vi provo. Raccontano che certi popoli vecchi, dei quali non si trova memoria e non importa trovarla, disertate le terre native, qui ponessero stanza. Se la cosa stia per lo appunto come la contano, io non so dirvi davvero; ma, posto che sia, ciò importa, che la Corsica ha amicizia antica con la disdetta. Difatti e come potreste figurare che codesta gente uscisse di casa? O ci fu cacciata da altri assalitori, e allora chi non ebbe virtù a difendere il proprio, si conosce a prova ingiusto con la roba altrui e ladro: o la inopia del vivere la costrinse ad esulare, e in questo caso ella ci cascò addosso ospite accetta quanto al Senapo le arpie: o per ultimo la tirò l'avarizia, e questo sarebbe stato il peggio, conciossiachè fame satolla si attuti, cupidità umana non dice mai: basta. Ma scendiamo a tempi più prossimi. I Cartaginesi un giorno intimarono a quella gente antica, focea od etrusca che fosse: «Chi ha ballato dia luogo; e a noi aborigeni voi altri ci servirete a questi patti: non seminerete nè pianterete; noi vi somministreremo il vivere dall'Africa.» Di tanto ci ragguaglia Aristotele, ch'era antico e lo poteva sapere: adesso taluno, che non lo può sapere, contraddice e sostiene che ciò non torna in chiave; imperciocchè, andando avanti di questo passo, bisognava che i Cartaginesi spesassero tutti i Côrsi, e questo non pare possibile; e, non potendo provvedersi la vittuaglia, i Côrsi avrieno dovuto impiccarsi ai larici delle loro foreste. Questo si chiama ragionare a vanvera; perchè salta agli occhi come i Cartaginesi, deviando i Côrsi dall'agricoltura, vollero che intendessero unicamente ai lavori delle miniere, a tagliare legna e a raccogliere la pece che stilla copiosa nelle macchie dell'Asco, cose tutte, non che utili, necessarie per popoli dediti alle faccende del mare come i Cartaginesi furono: ma per me m'immagino ci covasse sotto un'altra ragione, e ve la voglio dire.

I popoli commercianti, fatti presto i quattrini, smettono la pristina asperità (che mi andrebbe di coscienza chiamare virtù) e tuttavia, o cupidi di acquistare di nuovo, o trepidi di difendere il vecchio, abbisognano di armi: ora costumando essi per abito di trafficare ogni cosa, si consigliano potersi provvedere anime e fede non altramente che tele bambagine o pesce salato. Cristoforo Colombo genovese lasciò scritto che a contanti si comprava anche il paradiso; e badate ch'ei fu dei buoni. Ora i Cartaginesi, secondo me, invece di comprare soldati al bisogno, come usavano le repubbliche italiane, pensarono tenersi in vivaio un popolo intero per servirsene alla occorrenza; però, somministrando ai Côrsi paga e panatica, ordinarono che in pace attendessero ad esercitarsi nelle armi, per adoperarle poi a profitto loro in guerra. Per questo modo due popoli antichi ci porgerebbero esempio di istituti contrarii, perchè gli Spartani, destinando gl'iloti alla coltura delle terre, sè conservavano interi alle armi; i Cartaginesi all'opposto, dediti alle industrie mercantili o rustiche, commettevano il carico della guerra, se non tutto, almeno in parte ai popoli deditizii o conquistati. Nè vi paia nuovo che, messe da parte le compagnie di ventura, i Romani, spogliate le virtù prische, sovente ricorressero alle spade dei gladiatori, invocando inviliti a difesa coteste anime che comprarono superbi agli immani sollazzi. E credo ancora che i Cartaginesi a mantenere, come ho detto, quel vivaio di uomini, ci trovassero il proprio interesse; perchè, quantunque l'abbaco non avessero ancora inventato, pur di conto sapevano fare anche a quel tempo. Intanto ai Romani erano allungati i denti anco su le marine: però vennero in Corsica con l'armata, dove uno Scipione romano, contendendo dell'osso con Annone cartaginese, glielo strappò dai denti, rimandandolo concio come un ecce homo in Cartagine. Io ho letto su i libri come, per molto volgere che abbiano fatto di carte, non sieno riusciti a trovare la cagione donde i Romani mossero contro la Corsica; ma e' non sono curiosi costoro? La forza che va limosinando un po' di apparenza dal diritto, è trovato di moderna ipocrisia: a quei tempi la forza procedeva nuda e cruda, e non avrebbe tenuto in casa il diritto nè manco per le spese. Oppressori furono i Romani perchè forti, oppressi noi perchè deboli. Badate di non appuntarmi di contraddizione se, mentre vi dissi dianzi che i Côrsi destinavansi dai Cartaginesi alle armi, adesso ve li do per deboli; perchè la contraddizione si cava di mezzo avvertendo che forza e debolezza sono termini relativi; per la qual cosa i Côrsi, comecchè in sè forti, potevano comparire deboli di petto ai Romani o per numero, o per arti di milizia, o per questo altro ch'io vi vado a dire. Popoli veramente forti sono quelli che da una mano trattano la zappa e dall'altra la spada; il popolo dalla zappa sola casca facile preda di chiunque vada armato a sottometterlo; il popolo con la spada sola si vende e si rivende, e ammazza per vivere. Il popolo poi che ha da difendere la casa, il campo e il camposanto, pare che non muoia mai, perchè di lui non si viene ordinariamente a capo, se prima, passato per ogni estremo, non si senta rifinito di forze; e la natura sembra che abbia voluto in certo modo avvisarcelo quando commise al medesimo metallo l'uno e l'altro ministero; perchè dandogli la zappa di ferro gl'insegnò che con quella aveva da lavorare, e dandogli la spada di ferro lo ammonì che con quella doveva difendere il frutto delle sue fatiche. Affrancati noi dalla tirannide cartaginese, a non patire la romana, avevamo ragione da vendere, ma avemmo torto quando mettemmo innanzi la ragione senz'armi per sostenerla; tuttavia, con l'ingegno supplendo al mancamento di forza, una volta ci capitò di circuire Claudio Glicia, nè gli lasciammo altro scampo che riscattarsi a patto di pace a noi comportabile. L'accordo dispiacque al consolo Varo e al senato, ai quali riuscì ottenere vittoria non ardua di noi ormai assicurati della pace. Solo, per conservare illesa la fede quirita, ci mandarono Glicia in catene perchè lo martoriassimo; noi visto il tapino, dicemmo: «Mancano carnefici a Roma?» Difatti respinto da noi, essi lo ammazzarono in carcere. Le ipocrisie della giustizia odio più della stessa ingiustizia. Non solo, nè in catene, dovevano renderci Glicia i Romani, bensì co' suoi compagni armati ed in mezzo alle strette dove gli avevamo chiusi noi: allora avremmo forse vinto, non però senza strage, chè i Romani erano usi a quei tempi di morire con la carne fra i denti. Oppressi, non vinti, il cuore non si sbigottì; però riparati su le pendici, a mano a mano che le vene ci si riempivano di sangue, scendevamo ad arrisicarcelo al giuoco delle battaglie su le pianure rubate. Ci vinse la seconda volta Marco Pinario pretore ammazzando duemila dei nostri: tolse seco ostaggi, c'impose l'annuo tributo di centomila libbre di cera. Otto anni dopo col cuore medesimo, ma con forze maggiori, tornammo a metterci allo sbaraglio e con fortuna del pari sinistra: chè anco per questa volta Publio Cicereio tagliò in pezzi settemila dei nostri, ai superstiti impose doppio tributo. Bisogna dire che la vittoria non fosse lieta nè anco per lui, all'opposto piena di ansietà; imperciocchè le storie notano ch'ei votasse a Giunone Moneta una cappella se gli dava sgararla. Non vi crediate già che per queste battiture i Côrsi, come gente ricreduta, quietassero; se voi lo credeste, v'ingannereste a partito; di lì a breve ci rividero i Romani più tenaci e più forti; la nuova impresa fu commessa a Papirio Masone, che veramente la condusse a termine glorioso a lui, funesto per noi, ma con tale e tanto sudore, che il senato la giudicò degna del trionfo, il quale Papirio condusse sul monte Albano. Adesso poi i Romani come sicuri posavano il capo su due guanciali, quando di un tratto la sentono ribellata da capo minacciare più feroce di prima. Giovenzio Talma, collega di Tito Sempronio, le mosse contro con molto naviglio ed esercito consolare: al cimento delle armi ruppe i Côrsi cinque volte e sei; ma così apparve nella estimativa dei Romani o così desiderata o così trepidata la vittoria, che il senato decretò rendersi pubbliche grazie alle deità tutelari. Valerio Massimo ha di questo consolo un caso strano, ed è che, sopraggiuntogli il messaggio con l'annunzio del senatusconsulto mentr'egli stava sagrificando sul lido tanta allegrezza lo assalse che, mancatigli ad un tratto gli spiriti, cascò morto a piè dell'altare. Lascio altre ribellioni, altre stragi, le quali, come sono sazievoli a raccontarsi, furono truci a patirsi; unicamente vi chiedo che consideriate questo: anco gli imbelli, innanzi che conoscano di che cosa sappia la vendetta del superbo dominatore, possono avventurare la prima ribellione: solo gli animosi arrisicano la seconda prova e la terza consapevoli delle rovine che perdendo si chiamano addosso: ma contendere sempre senza consolazione di vittoria mai, anzi con la certezza di perdere e non isbigottirsi, è più che da uomini.

In seguito, a Mario e a Silla piacque fondare su i nostri campi colonie mandate quaggiù, non sappiamo se a fecondarli con la fatica o piuttosto col sangue. I Côrsi, fatti simili agli uccelli, per quanto si può da cui va senza ale, dai comignoli dei monti agguardavano le pianure abbandonate da loro, dopochè i Romani, deriso l'antico tributo delle libbre dugentomila di cera, pretesero spogliarli di quanto in biade o in vino o in olio produceva la terra, e rigidi esattori inviarono a riscuoterlo Oppio e Tiberio Gracco pretori. Dall'alto delle pendici i Côrsi, quasi spettatori seduti in circo, mentre da un lato spasimavano pei perduti retaggi, dall'altro blandivano le ferite dell'anima alla vista dei duelli che l'avarizia o l'odio provocavano tra gli abborriti dominatori. Però nè anche le rupi salvarono, e queste ultime gioie vennero rapite; imperciocchè i Romani, conchiusa la guerra, incominciarono la caccia degli uomini. Nè dico cosa che non sia vera, dacchè con reti e cani si diedero a perseguitare per le selve i Côrsi come bestie feroci: fattane raccolta, mandavanli a Roma chiusi in gabbie per cavarne schiavi accomodati ai piaceri od alle necessità loro; ma per quanto ci si affaticassero attorno, non riuscivano ad acconciarli a nulla, e Strabone ne chiarisce le cause con queste parole: «Quantunque volte un capitano romano, scorrazzando l'isola, metta insieme una funata di schiavi e li mandi a Roma, destano in cui li mira grandissima maraviglia, non si sapendo se prevalga in essi la stupidità o la ferocia: molti abborrendo la vita si ammazzano, gli altri impazziscono o paiono corpi morti per guisa, che il padrone piglia a detestarli, maledicendo il danaro, comecchè poco, gittato in comperarli.» Strabone, pensando vituperarli, non poteva lasciarci della natura indomita dei padri nostri testimonio più solenne di questo; imperciocchè fino da tempi remotissimi si conosca com'essi sapessero al tedio della servitù preferire la morte.

Dai Romani cascammo in potestà dei Greci, come un brandello di carne che il lupo vecchio, non potendo masticare, regala alle zanne dei lupicini. Sotto la dominazione loro i Côrsi, stremi di ogni bene, ebbero a pagare i tributi con monete di creature battezzate: così è, in vece di bisanti, figliuoli: ed il flagello, come in gravezza, crebbe di numero, perchè in un groppo ci capitarono sul capo Vandali, Goti, Saracini e Longobardi. Questi ultimi, oltre i mali presenti, ci lasciarono il germe dei futuri, come i Numidi fuggendo balestrano frecce avvelenate. I Saracini non potevano durare; perchè, pazienza se, figurandosi di aver dato il mondo a fitto, si fossero contentati dei raccolti, lasciando tanto ai coloni che potessero vivere! ma no; essi portavano via bestie, biade e coloni: sicchè voi capite bene che questa storia non si poteva rinnovare ad ogni capo di anno. In effetto gli storici, massime i romani, raccontano come Dio, tocco dalle supplicazioni del papa, c'inviasse il liberatore: vediamo quale. Carlo Magno, usurpato il regno ai nepoti, scende a combattere Desiderio, presso cui si erano rifuggiti cognati e nepoti. Incomincia da Carlo la forza a farsi ipocrita: ladro ai nepoti, costui s'industria dare ad intendere che Dio gli manda lo star bene a mediazione del prete; e il prete di Roma parve nato a posta per questo. «Facciamo a mezzo, egli bisbigliò nell'orecchio allo imperatore dei Franchi, ed io ti reggo il sacco. Vuoi tu che ti spedisca la patente di galantuomo soltanto, o ami piuttosto che io ti mandi in paradiso addirittura? Questo rimetto a te, prima che spartiamo la roba.» Carlo Magno, che, a confessarla giusta, fu generoso quanto un pirata, rispose: «In paradiso più tardi»; e, donati a san Pietro i più bei tòcchi d'Italia e con essi la Corsica, si contentò di essere creato galantuomo in virtù della bolla pontificia. I Genovesi assegnano proprio a questa epoca la conquista operata dalle armi loro di Corsica sotto la condotta del conte Ademaro: non potevano scegliere peggio. Genova allora non era principe bensì vassalla come le altre città italiche, di Pipino; e Ademaro reggeva la Liguria prefetto in nome di lui; nè egli genovese, bensì franco, e lo dice espresso Einardo nella vita di Carlo Magno; nè i Genovesi allestirono l'armata, al contrario apparecchiavala il re Pipino e spedivala; per ultimo non vinse i Saracini Ademaro, al contrario rimase sconfitto e per di più morto; chi li vinse fu il contestabile Burcardo, che l'anno seguente tra le acque sarde e le côrse gli sterminò. Tanto mi piacque rammentare perchè tra i novellatori di questa canzone io trovo Uberto Foglietta, uomo certamente amico della libertà, per la quale ebbe a patire non poco, ma, come nato a Genova, non amico del pari della giustizia almeno rispetto alla Corsica. Gran cosa è questa che, mentre il mondo avrebbe bisogno di giustizia più che di pane, avviene di lei quello che vediamo accadere del sole, il quale mentre schiarisce metà del globo, ne lascia l'altra metà nelle tenebre! Ma ditemi in grazia, signor Inglese, vi annoio?

— No in verità; anzi mi pare pigliarci diletto, mi pare.

— Ditemelo senza cerimonie, sapete; poichè mi accorgo essermi cacciato dentro un ginepraio da non poterne uscire senza scapito. Al modo col quale ho cominciato, dubito che l'amore di patria non faccia piangere la carità del prossimo.

— Quanto a questo, pensateci voi; accomodateli insieme senza che strillino troppo.


Disse lo zio ad Altobello: — Dammi un bacio, e andate pel vostro dovere. (pag. 55)

— Allora favoritemi una presa di tabacco, e ripiglio il filo baldanzoso, facendo conto che amore di patria e carità abbiano a formare tutta una cosa: che se per disgrazia fossero due, e l'ultima avesse a toccarne, ora che mi ci sono messo vo' dire tutta la verità: poichè chi l'ha da friggere la infarini, ch'io ne farò penitenza a bell'agio. Carlo Magno dunque, incoronato da papa Adriano, costumò come tutti i cristianelli di Dio, i quali passata la festa gabbano il santo; dacchè ora con questo, or con quell'altro amminicolo andava schermendosi dal consegnare quanto aveva promesso, e, preso alla gola, dava a spizzico e tardi: la Corsica poi non dette mai: la governarono per lo impero i marchesi di Toscana e con essi i conti feudatarii delle varie terre dell'isola. Voi saprete le diavolerie successe tra i discendenti di Carlo Magno, che si strapparono l'impero di mano come una giubba rubata: in mezzo al tramestio l'erede del pescatore figurate un po' voi se gittava il giacchio nel torbido. Antiche memorie e tradizioni sempre vive assegnano a questi tempi la investitura di tutta o parte dell'isola a un certo Ugo Colonna romano, e dopo al conte di Barcellona, con questo patto, che retribuissero a Roma il quinto dei raccolti e la decima dei fanciulli. Che cosa poi andassero a fare cotesti fanciulli a Roma, sarà più bello non inquisire che onesto trovare. Però negano questi fatti di due maniere persone: quelle che, zelando troppo il patrio decoro, dubitano ricevere dal turpe tributo non reparabile infamia; e gli sviscerati della curia romana, cui non ripugna il caso, bensì lo scandalo. Si non caste, saltem caute, mi capite? Però riesce più comodo negare che facile chiarire falso cotesto fatto e gli altri che la storia aggiunge, voglio dire i rigidi delegati spediti dal papa fino al numero di cinque per vigilare che i tributarii non frodassero delle grasce nè dei fanciulli. Se i Côrsi avessero aspettato dalla verecondia romana la cessazione di cotesto censo, aspetterebbero anche adesso: ci si pose di mezzo Arrigo Belmessere e, intercedendo ancora il vescovo di Aleria, fece lasciare la presa ai mastini papali. Dicono che ciò non si ottenesse senza difficoltà, e al vescovo di Aleria ne toccasse una ramanzina delle buone, facendo specie che un ecclesiastico, un vescovo impedisse la osservanza dei dettami evangelici; della quale cosa maravigliato costui chiese spiegazione, e gli fu data così: «Non disse forse Gesù Cristo ai suoi discepoli, che allontanavan i fanciulli da lui: Lasciate ch'essi vengano a me? Ora il papa non rappresenta egli Cristo, e voi uno dei discepoli suoi?» Caro mio, quando l'interesse ci ficca la coda, non vi aspettate a più santi commenti della parola di Dio, massime dai preti. Voi intanto notate questo, che ne franca la spesa: da prima i Côrsi, ridotti alla disperazione dai Greci, vendono eglino medesimi i figliuoli per pagare i tributi; i Saracini poi se li pigliano da sè; per ultimo spettava alla corte romana mettere per patto nella investitura feudale la decima dei fanciulli.

Ora le città italiche per forza o per amore incominciano a costituirsi a comuni franchi da soggezione imperiale. Comuni noi non avevamo, bensì conti: ma siccome la libertà piace a tutti, principalmente a quelli che non la vogliono lasciare godere altrui, anch'essi si vendicarono dalla servitù forestiera per contendere indi a breve della signoria domestica, e, virtù fosse o fortuna, tra questi rivolgimenti primeggiò il conte di Cinarca. La storia registra l'orribile governo che i tiranni facevano dei Côrsi; ma ad eterna onoranza dei nostri padri registra eziandio queste parole: i principi imperando a tirannide, i Côrsi agguantano le armi e bandiscono la libertà; poi convocata l'assemblea a Morosaglia, si costituiscono rettore Sambucuccio di Alando. Così è, signor Inglese; questo santo antenato del nostro Altobello fu padre della libertà côrsa. Sambucuccio giunse a stabilire il governo di Terra del Comune: di molte e sconcie botte picchiò i conti, ma innanzi di morire non venne a capo di superarli tutti, sicchè, morto lui, rialzarono la cresta. Il popolo, non si sentendo valente a resistere da sè, pare che chiamasse in aiuto i marchesi Malaspina di Massa. Io dico pare; imperciocchè per questi tempi non ci avanzino che scrittori e carte di donazioni chiesastiche, e a fabbricare storie con questa razza di materiali, adagio. Vo' che ve ne basti uno esempio. A questi giorni ho letto nelle Antichità italiche di Ludovico Muratori una carta del 1019 o 29, la quale fa fede come un messere Rolando, conte per la grazia di Dio e signore di tutta la Corsica, Giulio giudice, e messere Giovanni legato sentenziario e scapolaro, costrinsero certi villani a pagare alla badia di Santo Stefano di Venaco libre cento di buoni danari e a sfrattare dalle terre in fra tre mesi sotto pena di 300 fiorini d'oro e della scomunica per parte di messer legato. Il dabbene proposto, comecchè poco tenero di Roma, tuttavolta ha preso un granchio nel darci questa carta come genuina: infatti pare impossibile come gli sia passato per occhio che una sentenza del 1019 o 29 non poteva ricordare i fiorini d'oro, battuti dal comune di Firenze nel 1252.

Come a quei tempi le cose camminassero io non vi so dire per appuntino, nondimanco, essendoci guerra tra popolo e baroni, e non potendo questi vincere quello, nè quello questi, è facile indovinare che le procedessero per la peggio. Intanto, poichè non ci ha meraviglia che in Roma non si deva vedere, scappò fuori Gregorio VII, il quale, vicario di Cristo, che disse a cui non lo volle sapere, il suo regno non essere di questa terra, pretese nulla meno che dominare sopra tutta la terra. Costui, informato come la matassa andasse arruffata in Corsica, ci mandò legato Landolfo, vescovo di Pisa, a scoprire marina, limitando però il suo ufficio a distruggere, sradicare e costruire in punto di religione, non altro. Il vescovo ch'era malizioso più di una squadra di sbirri, trovato il terreno morbido, non contento di ficcarci la pala, ci ficcò anche il manico, disse mirabìlia della potenza del papa, promise Roma e toma; sicchè i popoli ignoranti e abbindolati si commisero al papa a patto che con validi aiuti li sovvenisse per superare i baroni di oltremonte. Il papa rispondendo mette in sodo avanti tutto questa volontaria dedizione, poi gli ammonisce ch'egli è per di più: perchè eglino avrieno a sapere, come l'universo intero lo sa, il dominio dell'isola appartenere alla santa Chiesa per diritto di proprietà; ladri, sacrileghi e dannati i tre imperatori e i tre re che la tennero senza prestare l'obbedienza a san Pietro. Il legato si trasforma in governatore, si mettono da parte le cose dell'anima per non parlare altro che di faccende terrestri. Però il carico assunto di difendere l'isola il papa teneva per novella: in lui non era potere nè volere a sostenere la guerra: ond'egli, inteso a mietere senza seminare, concesse l'isola in feudo al medesimo Landolfo, a condizione che gli retribuisse le metà delle rendite: non vi par egli generoso costui? Al tributo di sangue ei rinunzia, ma cresce quello dei frutti da un quinto, come sotto Gregorio IV, alla metà. Dopo quattordici anni Dalberto, vescovo di Pisa, uomo rotto, visto che la carne non valeva il giunco, scrisse al papa che egli a pescare per il proconsolo non la capiva: ripigliasse l'isola. Urbano, considerato tra sè e sè ch'egli era come se il vescovo gli avesse risegnato la luna, rispose: «Mira larghezza! io te la dono.» E l'altro soggiunse: «Manco male, ricatterò le spese.» Però quando fummo su l'atto del donare, ostico a tutti, ma per la Chiesa più doloroso dello spasimo del parto, il papa mascagno insinuò nel contratto due cose: che donava l'isola alla chiesa pisana, quantevolte però il vescovo fosse stato eletto canonicamente dal clero e dal popolo e confermato dal papa; e retribuissero al palazzo lateranense l'annuo censo di lire 50 in moneta lucchese. Così quello che non può tenere, Roma dona; ma come i marinari quando gettano l'àncora in mare ci lasciano sopra il gavitello galleggiante per ripescarla a tempo e a luogo, il prete studia ch'esca fuori del dono un addentellato per poterselo ripigliare.

Giustizia vuole che io dica come i Pisani dimorassero nella isola con garbo assai migliore di quello col quale ci entrarono: noi non reputarono essi vassalli, nè noi reputammo essi signori: ci accolsero come fratelli tornanti in famiglia; accomunarono con noi carichi ed onori: anzi ci alleviarono i primi, trovandoci alle lunghe sventure ridotti al verde.

E di questa benevolenza scambievole durano tuttavia i testimoni sia nei monumenti pubblici, sia negli animi dei Côrsi, propensi a stanziarsi in Toscana a preferenza di ogni altro paese, quando necessità o vaghezza li tira fuori di casa; e più che tutto nella lingua loro, da noi conservata con tanta diligenza, che qualche voce costà disusata, o non più intesa quaggiù, s'incontra sopra le labbra dei montanari viva della sua primitiva significazione. I cagnotti di corte non cessano mai d'infamare il popolo come ingrato: voi per ismentirli fate tesoro del caso che vi raccontava, al quale aggiungerete quest'altro: degli oppressori antichi, dei Romani e dei Saraceni qui non troverete memoria, ed in breve nè anche dei Genovesi, eccetto qualche tomba. Fama, delitti e ossa dei vecchi e dei nuovi tiranni seppellimmo interi dentro un medesimo sepolcro.

Ora i Genovesi, sopportando molestamente la parzialità di Roma per Pisa, studiano ogni ora per levargliela convertendola in proprio profitto, o almeno per pareggiarla; e la fortuna, come suole a cui sta su la intesa, ne porse loro il destro. Urbano II, per tenersi bene edificato Dalberto, lo creò arcivescovo assegnandogli suffraganei i vescovi di Corsica; questi, subillati dai Genovesi, ricusavano a viso aperto la consacrazione dello arcivescovo di Pisa, il quale pesta mani e piedi; e i Genovesi lì alle costole a mettere legna sul fuoco. Questo era tempo che Roma, voltata a Genova, le dicesse: «Com'entri tu in questi negozi? Bada ai fatti tuoi, o che ti scaravento addosso un nugolo di scomuniche»; e le scomuniche a quei giorni scottavano. Pensate voi che lo facesse? Nè manco per ombra. Roma in mezzo a cotesto tafferuglio non vide chiaro che una cosa sola: raspollare quattrini. In effetto considerate che spedienti adopera per aggiustare due emuli insatanassati: innalza il vescovo di Genova alla medesima dignità dell'arcivescovo di Pisa e gli assegna per suffraganei tre vescovi côrsi di Mariana, di Nebbio e di Accia, a patto che ogni anno paghi una libbra di oro, a san Pietro, ci s'intende. Naturalmente e' fu uno spegnere l'incendio coll'olio: d'allora in poi fra Genovesi e Pisani non tregua mai nè pace, nè si rimasero i primi finchè non ebbero ridotti in piana terra i secondi. Innanzi però della rovina della Meloria, ecco come i Genovesi arrivarono ad incastrarsi nell'isola. Gli uomini di Bonifazio esercitavano la pirateria (mestiero a quei tempi tenuto nobile, quantunque fatto a minuto) recando continui danni ai Genovesi, frequentatori di coteste spiaggie per loro traffici. Di ciò meritamente stizziti, commisero ai proprî consoli che andassero a richiamarsene ai consoli di Pisa, e questo essi fecero. Venuti al cospetto dei Pisani favellarono: «E' non ci pare onesto, uomini dabbene, che, mentre la pace dura fra noi, i vostri concittadini corrano addosso ai nostri e gli spoglino. I vostri castellani bonifazini fanno il diavolo a quattro a danno della nostra mercatanzia: ciò non istà in chiave: ordinate pertanto a costoro che restituiscano il mal tolto, altrimenti sarà rotta la pace, e cui avrà torto faccia tristo Dio.» I Pisani risposero: «Quello che voi ci dite ci accora forte, perchè avreste a sapere che il castello di San Bonifazio non ci appartenga, e i castellani, innanzi di essere nostri uomini, ci contradicano in tutto e come i vostri mettono a ruba i mercatanti nostri: accordiamo a raccogliere insieme un'armata e andiamo uniti a farli stare in cervello.»

Non dissero a sordo. I Genovesi, allestito un naviglio poderoso alla chetichella, assaltarono i Bonifazini quando se lo aspettavano meno ed occuparono la terra. Se i Pisani levassero scalpore per la presa di Bonifazio, ve lo potete figurare: ma i Genovesi rispondevano: «Voi vi lagnate di gamba sana: invece di ringraziarci di avervi levato un bruscolo dall'occhio senza che vi costi un quattrino, perchè ci maledite?» E aumentavano le provvisioni per difendere l'acquisto, perchè i Genovesi quando mordono tengono maladettamente: così vero questo che, per rammentare Genova, stringono le mascelle per paura che, non che altro, il nome della patria caschi loro dai denti. Rimase ai Pisani con le beffe il danno, pagando la pena della doppiezza loro. Donde io piglio occasione di ridere dei barbassori i quali si mettono in quattro per sostenere la diplomazia trovato moderno: no, signore, la diplomazia è vecchia quanto la bugiarderia, anzi una volta si riputava una cosa stessa con lei: soltanto ai dì nostri a taluno essendo venuto talento di separare la diplomazia, ci ha rinvenuto la bugiarderia e la gagliofferia rinterzata con la sfrontatezza. Appena i Genovesi ebbero messo il piede nell'isola, incominciarono a gittare con la pala ai Bonifazini danari, privilegi, insomma ogni bene di Dio: donde entrò, se non in tutti, almeno in corpo a moltissimi la voglia di venire a parte della cuccagna: arti antiche e tuttavia sempre efficaci; le mosche si pigliano col miele dacchè mondo è mondo. Calvi fu la prima a non si poter reggere e, accordatasi a patti, mise dentro i Genovesi; poi, continuando a declinare le fortune pisane, parecchi conti, voltate le spalle come suole ad occidente, si girarono a oriente. Allora si consigliarono spedire in Corsica Giudice di Cinarca con armi e navi per mantenersi nella devozione i vassalli fedeli, i ribelli reprimere: questi veduta la mala parata ricorrono ai Genovesi, che agguantano la occasione a braccia quadre. Cristo giudicò la lite contra i Pisani non senza ammonirli prima che s'imbarcassero, lasciandosi cascare di cima allo stendardo in Arno, che non era per loro. Se fu come la contano, certo non lo mossero i meriti dei Genovesi: forse in quell'ora i peccati dei Pisani pesarono più su la bilancia della giustizia divina, che quelli dei Genovesi. Roma, origine di tanti guai, considerando adesso che i Genovesi da un lato non erano pesci da abbocconare[11] l'amo di san Pietro, e dall'altro che i Pisani erano sfidati dal medico, ripiglia la Corsica e, poichè aveva le granfie stese, piglia anche Sardegna (era come fare un viaggio e due servizii), e concede la investitura di ambedue a Giacomo II re di Aragona. Teneva in quel punto l'accetta, voleva dire le chiavi degli apostoli, Bonifazio VIII, di mestiere avvocato: però s'egli sapesse tirare l'acqua al molino non occorre dire. Costui mise nel diploma per condizione, il re prestasse omaggio, pieno vassallaggio e giuramento di fedeltà alla Chiesa; la sovvenisse con cento uomini di arme corredati di un destriere e due palafreni per uomo, e cinquecento fanti, di cui cento almeno balestrieri con le balestre nuove, tutti aragonesi o catalani; ancora pagasse il censo annuo di due mila marchi sterlini di argento buono al romano pontefice in qualunque parte si troverà; e se non paga, scomunica e decadenza. Lui morto, succede poco dopo Clemente V, francese; quindi non parrà strano che dove Bonifazio rase la barba, ei ci facesse il contropelo: in effetto allo sprofondare di Corsica e di Sardegna aggiunse Pisa e l'Elba mercè l'aumento di altri mille marchi di argento da pagarsi dai reali d'Aragona. Roma vendeva a buon mercato provincie ed isole: bisogna dire perciò che le costavano anco meno; e per me giudico ch'ella avrebbe venduto il sole: basta che si fosse trovato chi avesse voluto comprarlo e sopratutto pagarlo. I reali d'Aragona ebbero fama, quanto a fede, di star meglio dei Turchi; sicchè, venuti alle strette con Roma, imaginate se la battesse tra il rotto e lo stracciato: così vero questo, che Giacomo, conquistata la Sardegna, mandò a dire al papa che, avendo speso un occhio per impadronirsene, durante dieci anni almeno non gli avrebbe potuto pagare un bolognino; dopo, se gliene avesse dati cinquecento, sarebbe bazza. Se il papa soffiasse a siffatte iniquità ed arricciasse il pelo, non è a dire; molto più che in quel torno nei piedi di san Pietro pescatore si trovava Giovanni XXII, famoso per tirare al quattrino:[12] ma ormai re Pietro se l'era presa, e bisognò, comechè al Papa paresse mandare giù una resta di grano, ingozzarla, non mica per perdere tutto, bensì per lesinarsela fra loro. Giovanni con quei paroloni pei quali Roma è unica ad onestare le più sozze cose, ammoniva primamente re Pietro come quel degno uomo di Carlo I di Napoli, malgrado le spese enormi per conquistare il regno, aveva sempre pagato puntuale come un banco il censo alla Chiesa; poi disse che per l'amore sviscerato che a lui figliuolo dilettissimo portava, quantunque la sede apostolica non solesse mai fare rimessioni, sarebbesi adattato a ricevere mille marchi per soli dieci anni; e cascasse un quattrino, a monte ogni pratica. Per allora continuò a quel modo, ma parecchi anni dopo Giovanni re di Aragona non volle pagare più nulla e ne allegava per causa, che regnando due papi, Urbano e Clemente, egli, che semplice era e timorato di Dio, il vero dal falso non sapeva distinguere, e molto lo atterriva il risico di somministrare pecunia allo scismatico; parergli meritorio a scanso di guai tenersela in tasca.

I Côrsi di Terra di Comune e i conti di Cinarca, vedendosi allora ruinare sul capo cotesto nuovo flagello di dominazione straniera, ed anco saliti in furore per trovarsi così venduti e rivenduti peggio che bestie in fiera, accontatisi insieme, fermarono di darsi ai Genovesi mercè certe convenzioni di cui fecero carta; la quale, sebbene sia andata dispersa, pure il contenuto in grazia di vecchi scrittori delle cose patrie, pervenne fino a noi. Voi mi direte: «Questo darsi a bel patto in potestà altrui fu affare serio»; ed io rispondo: seriissimo e degno del castigo che Dio per mezzo di Samuele fece sapere agli Ebrei sarebbe loro cascato addosso, quando di riffa vollero costituirsi un re. In effetto il castigo non si fece aspettare; imperciocchè scappasse fuori di levante una morìa, la quale avventatasi su l'isola menò tanta strage, che il terzo degli abitanti appena rimase vivo. Veramente pareva che avesse a bastare: piacque in altro modo alla provvidenza, e la peste fu per così dire l'antifona del salmo. Ma qui facciamo punto e miriamo qual fosse lo stato dell'isola in cotesto tempo. I signori a posta loro se ne dicevano gli Aragonesi e i Genovesi; quelli per investitura pontificia, questi per virtù di arme e per patto. Ora esporvi anco alla grossa gl'indiavolati viluppi che ne successero, sarebbe troppo lunga la storia; bastivi che gli Aragonesi non essendo comparsi nell'isola così tosto come temevano, dei conti, che si erano sottoposti ai Genovesi, incominciò la più parte, massime i cinarchesi, a friggere per la maluriosa soggezione.

I Genovesi mandarono in Corsica Tiridano dalla Torre per tenerli al quia; e i conti, conoscendo da sè soli non poter mordere, spedirono Arriguccio della Rocca in Aragona al re Pietro, per soccorsi; scarsi però, quanti bastassero al tenere in subbuglio il paese e lo stremassero di sangue agevolandogliene l'acquisto. Quando il re Pietro conobbe i Genovesi dalle contese quotidiane ridotti al lumicino, mosse ad opprimerli; e gli riuscì di leggieri sgomberarne l'isola, tranne Calvi, Bonifazio, San-Colombano e qualche distretto in Terra di Comune. Inferma la repubblica, cinque mercanti accozzatisi in Banchi dissero: «Lo stato in mano della signoria va come acqua messa nel vaglio; facciamo un negozio in comune e tentiamo di guadagnare la Corsica per noi.» Detto, fatto; la signoria, che, simile a papa Lione, quello che non poteva avere, donava, risegnò la Corsica ai cinque mercanti, i quali, costituitisi in società commerciale chiamata la Maona, raccolsero armi ed armati e vennero a combattere Arriguccio. Costui datene e ricevutene parecchie, all'ultimo disse ai Maonesi; «Che Dio vi aiuti, in Corsica che cosa ci siete venuti a fare? Per guadagnare di certo. Ed io perchè ci sto? Forse per perdere? Ma continuando di questo passo voi ed io ci rimetteremo il mosto e l'acquerello: accordiamoci; accettatemi sesto tra voi, e viviamo in pace.» Piacque il partito, e si spartirono l'isola. Intanto che Arriguccio patteggiava così co' Genovesi, persuadeva ai baroni côrsi non si movessero, aspettassero il destro di coglierli alla spicciolata; nè la occasione si lasciò attendere un pezzo, conciossiachè, stipulato il convegno dei Maonesi, chi andò di qua, chi di là: rimasero insieme due di loro con poca gente, e questi improvvidi assalirono, uno ammazzarono, l'altro fatto prigione ebbe a riscattarsi con seimila fiorini di taglia. I superstiti dei Maonesi, stroppi tra per questi tra per altri casi che si tacciono, un bel giorno, mandata la Corsica dove Luigi XI mandò Genova, voglio dire al diavolo, grulli grulli se ne tornarono a casa. Ma quel dovere lasciare la Corsica era per Genova una gran spina al cuore; per la qual cosa la signoria trovandosi meglio fornita di danaro, ripigliata la concessione, ci manda governatore lo Zoaglio, che venuto alle mani con Arriguccio lo sconfisse. Costui ch'era della razza di Anteo, il quale picchiato un tonfo in terra si rizzava più rompicollo che mai, tornò in Aragona, dove, ottenuto qualche sussidio dal re Giovanni, si fa vivo da capo su per le rupi dell'isola: indi a breve la grande computista dei conti umani tirò di frego alla sua vita facendo la somma: morì senza figli, ad eccezione di Francesco bastardo. Accorsero i parenti a stormo urlando: All'albero caduto accetta, accetta! Chi tira un brandello del suo retaggio, chi l'altro; sicchè Francesco, disperato, se non volle rimanere ignudo, ebbe a vendere al comune di Genova il castello di Cinarca per mille scudi di oro e le ragioni tali quali si trovava a possedere egli sopra la Corsica pomontana.[13] Per questo modo tornata in mano della signoria di Genova la stanga del torchio si mise a strizzare a suo bell'aggio il paese, finchè Vincentello d'Istria, parente di Arriguccio, non si reputando vincolato dalla vendita di Francesco, tentò più volte ripigliare il suo con armi proprie.

Provata la fortuna contraria, si volge, secondo l'antico costume, al re di Aragona, il quale per questa volta intende usufruttare per sè le pontificie munificenze: sceso armato nell'isola, di leggeri occupa i luoghi aperti, espugna Calvi, mette l'assedio a Bonifazio. I benestanti, come suole, più studiosi della roba che della libertà, accordano rendersi, dove la città non venga soccorsa dentro certo termine prefisso. La vigilia della scadenza il popolo tumultua e cassa il convenuto; mandansi messi per notificarlo al re Alfonso, allegando per causa il soccorso nella notte antecedente entrato in città. Alfonso nega possa essersi intromesso il soccorso e li rinfaccia di fede tradita: i Bonifazini a purgarsi del rimprovero e in testimonio di verità esibiscono due caci freschi, i quali avevano fatto di latte di donna; di che Alfonso rimase confuso; nondimanco ordinò l'assalto, ma quantunque egli e i suoi ci si adoperassero attorno con tutti i nervi, rimasero ributtati valorosamente. Egregie opere in vero sono queste, però con troppo sangue acquistate e per dir più per causa non sua. Oh quanto meglio vivere liberi in pace all'ombra della vite e del fico proprii! Se togli Bonifazio, la intera Corsica venne in potestà di Alfonso; ond'ei un bel giorno, buttata giù buffa, impose una taglia di arbitrio. Il popolo comincia a bollire: allora Vincentello gli dice: «Da pignatta che bolle si allontana la gatta; leva la tassa.» E il re: «Oh bella! e se non posso mettere taglie come e quanto a me piace, a che sarei venuto a fare il re?» E Vincentello: «Qui tra noi non costuma imporre tasse senza il consenso dei popoli.» Il re, guardatolo fosco, conchiuse: «Questa è mala sudditanza e se non la sanno i Côrsi, gliela insegneremo noi.» La provvidenza volle che, invece di farla a noi, noi facessimo la lezione a lui, e di che tinta! La più parte dei Catalani lasciò le ossa in Campoloro; al punto stesso Calvi, per ardimento di Pietro Baglioni, si rivendica in libertà, e quasi presago che il cognome antico sarebbe un giorno infamato dal più grande traditore comparso al mondo dopo Giuda, smesso quello di Baglioni, Pietro assunse meritamente l'altro di libertà. La famiglia Libertà partorì di ogni ragione uomini illustri: trapassata in Francia tenne cariche supreme; uno de' suoi difese Marsiglia contro gl'imperiali; e in cotesto paese si estinse. E' pare destino che, nome o cosa, la libertà, nata e cresciuta in altre terre, o in Francia o per cagione di Francia, deva morire! Alfonso, conosciuto che aveva preso a menare l'orso a Modena, maledicendo le fatiche durate e i quattrini rimessi, si parte lasciando l'isola a cui se la vuol pigliare. I Genovesi, arrabattati a strapparsi di mano la patria, adesso non badano a noi, e i baroni riarsi dalla superbia antica si legano insieme per ricuperare la perduta dominazione: il popolo, non sapendo che pesci pigliare, consulta i vescovi, e, come se avesse la virtù della bettonica, questi propongono Roma: chi ce la vuole, e chi non ce la vuole: chi ce la vuole manda gente ad offrire l'isola alla Chiesa. Eugenio IV con fronte romana bandisce accettarla perchè la commette alla sua fede il consenso universale dei popoli; e intanto manda parecchie migliaia di armati a dare sul capo a cui contradicesse. Da quello che pare, a Roma avevano dimenticato la storia côrsa; gliela rinfrescarono alla memoria i Côrsi mettendo in pezzi i papalini e Monaldo Paradisi che li capitanava. Allora il papa Niccolò V conobbe più sicuro attenersi alle pratiche de' suoi antecessori, e vendè cotesta manata di spine a Ludovico Campofregoso. Ora, sebbene non cessino qui i guai cagionati da Roma alla mia povera patria, domando a voi se da persone che rappresentano sopra questa terra il nostro Signore Gesù Cristo, potevamo aspettarci più e peggio?

— Che vi dirò io, signor frate? — rispose il Boswell. — Da per tutto Roma suona la stessa musica. Quel vostro Gregorio VII trasferiva dai Sassoni nei Romani l'Inghilterra, perchè eglino si fossero mostrati poco premurosi di osservare la legge di Canuto circa al pagamento del tributo annuale da farsi a Roma. Offa, dopo ammazzato a tradimento Edelberto, domanda l'assoluzione al papa: concedergliela a patto che l'Inghilterra gli paghi ogni anno il denaro di san Pietro, il quale era tassa di un denaro per casa. L'Inghilterra scontava a contanti il delitto regio! Indi a breve passando il prete improntissimo i modi più avari, instituisce decime sopra i salari, le mercanzie, le paghe ai soldati, che più? fino sul turpe guadagno delle meritrici, indegnissima cosa e non però la più rea: nel vero voi troverete come Gregorio II, inviando il frate Agostino nella Britannia, per convertire gli abitanti, gli desse per precetto di provvedere cauto, avanzarsi bel bello, chiudere un occhio, se trovasse duro non si opponesse ai sacrifizi delle vittime; quanto sopra la religione cattolica potesse innestarsi di pagano accettasse, allo scopo che la gente rozza, senza che se ne accorgesse, all'antica religione trovasse sostituita la nuova: così, rinnegata la tradizione di Cristo dentro e fuori, la Chiesa cattolica è pagana. Tira, tira, un bel giorno la corda si stiantò, e l'Inghilterra si divise per sempre da Roma.

— E fece male.

— Come male? Anzi, dopo quanto vi ho inteso ragionare, io non concepisco come voi la duriate monaco. Sareste di quelli, salvo vostro onore, che parlano bene e razzolano male?

— Adagio ai ma' passi, signor Inglese. Io sento e parlo in modo unico. Nè io solo, ma quanti ecclesiastici viviamo in Corsica, conoscendo le rovine originate alla Chiesa dai peccati dei supremi correttori, massime dall'appetito disordinato dei beni terreni, senza rispetto ne riprendiamo gli abusi. Affermano i curiali di Roma il potere temporale necessario allo splendore della Chiesa. Santa fede! Oh quale altro splendore può pareggiare quello che le viene dalla faccia di Dio? Ma, conoscendo tuttavia e deplorando le abominazioni della Chiesa, e di quelle con tutto lo spirito supplicando dal Signore riparo, noi non la crediamo meno santa; ammiriamo la vastità del concetto, la efficacia degli ordini secolari, e ci affatichiamo; per quanto è dato a noi oscurissimi figliuoli suoi, a mantenerne incolume la stupenda unità. Ditemi che avete fatto voi altri Inglesi, e con esso voi i luterani, i calvinisti, i zuingliani e socii vostri? Avete preso il male per medicina: invece di rammendare la veste di Cristo, l'avete strappata peggio di prima: non operarono lo stesso i soldati della sua crocifissione?

— Signor frate, — rispose imperturbato il Boswell, — questi argomenti desiderano discussione positiva, messi da parte tropi, metafore e figure rettoriche di ogni maniera. Voi altri siete i soldati della riscossa, e levate i pezzi della disciplina per salvare il dogma. Ora voi sapete come il cattolicesimo arrivasse a mettere i suoi dogmi in custodia di Dio nel cielo, e degli sbirri in terra: inondando la barbarie, preti rozzi stettero al governo spirituale e sovente al temporale di popoli più rozzi: costoro fecero a gara a cui guastava di più, ma le sconcezze nel buio non apparivano. Più tardi, anzi troppo tardi, alcuni prelati romani, dotti, quanto pii, conobbero dove stringeva la scarpa, ma che farci? Ormai la natta tanto era ingrossata, che tagliandola correvano risico di ammazzare l'infermo; e la sbagliarono, perchè i medici pietosi sono proprio i babbi del canchero: di fatti gl'increduli trassero pro dagli errori per dissuadere da ogni fede gli empii per mandare tutto a rifascio sotto il flagello dello scherno. Dio è la regola, il Vangelo la chiosa; chiosa su chiosa è mestiere da mozzorecchi. Il cristianesimo, che taglia dalla pazza e può accomodare ottimamente di vesti la umanità mano a mano che scesce: i preti cattolici vollero stringere troppo e per sempre, quindi la cintura stiantò in più parti e tornerà a stiantarsi da capo: avendo eglino preteso non solo il concetto, bensì ancora le parole infallibili, adesso discredono l'uno e le altre. Che abbiamo fatto noi? domandate. Noi abbiamo rotto i cancelli alla libera indagine, la quale, come le altre libertà sorelle, deve appuntare in Dio padre misericordioso di tutte.

— Zucche! Voi avete, rinnovata Babele. Tot capita tot sententiae. Fortunato quegli che sa distinguere con voi da che parte tira la tramontana e da quale altra mezzodì! Per me quello starsi fermo come torre che fa la Chiesa per bene diciotto secoli contro le persecuzioni dei suoi nemici, e più ancora contro le prevaricazioni dei suoi indegni pastori, emmi non dubbia prova dello aiuto divino. Se Dio non la governasse con le sue sante mani, ormai pei papi la Chiesa avrebbe dato in secco chi sa da quanti secoli!

— Codesto vostro è l'argomento di Abramo giudeo quando, dopo essere stato in corte di Roma, volle il Battesimo; lo racconta il Boccaccio nelle Novelle....

— Io l'ho letto dentro il commento della Divina Commedia scritto da Benvenuto da Imola, — rispose fra Bernardino con voce alterata.

— Bene; egli è tutto uno, che la botte non fa il vino. Ma diamo un taglio a questi discorsi, chè io non venni in Corsica a disputare di teologia: torniamo sul tasto dei forastieri.

Pasquale Paoli; ossia, la rotta di Ponte Nuovo

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