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CANTASIRENA. I.

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Nora piombò nella saletta come un fulmine.

—Ho fame! Ho fame!—Poi gridò, chiamando e voltandosi verso l'uscio della cucina:

—Gioconda! Presto! La colazione!

—La Gioconda,—rispose Evelina, senza alzare il capo nè la voce,—la Gioconda l'ho mandata adesso alla posta. Torna subito.—E continuò a scrivere, curva, tutta addosso alla tavola, colla faccia sulle cartelle.

Nora, stizzita, si sbottonò d'un colpo, con una sola strappata, la giacchettina blu dagli occhielli un po' logori, poi brontolando, cominciò a camminare in su e in giù per la saletta.

Quanto più la Gioconda tardava a venire, tanto più Nora diventava rabbiosa, e il suo viso così fresco e roseo, sotto il gran volume dei capelli biondi, il bel visino spirante una leggiadrìa tutta infantile e che risaltava piacevolmente per lo splendore magnifico della persona alta e rigogliosa, si alterava, appariva contraffatto.

—Tu per altro, gioia! tu l'hai fatta colazione!

Anche la voce, non era più la solita, dalle calde modulazioni; era divenuta disarmonica ed aspra.

L'altra intanto, calma, indifferente, continuava a scrivere, rannicchiata, bassa, quasi col naso sulle cartelle.

Evelina lavorava così le intere giornate, occupando sempre il suo solito cantuccio della tavola da pranzo dove nel gran disordine di quella gente si ammonticchiava in un batter d'occhio coi libri, coi giornali, colle lettere, tutta l'altra roba che entrava o aveva finito di girare per la casa.

Sopra un fascio di bozze c'era ancora un piatto col bicchiere e col tovagliolo di Evelina: tutto sotto l'attenta e immobile sorveglianza di Numa, il gattone rosso. Ed era stata appunto la vista di quella roba, del piatto col bicchiere e col tovagliolo, la vera cagione della stizza, dell'ira crescente di Nora.

E la Gioconda non si faceva vedere!

—Tu fai il comodo tuo, senza darti pensiero di nessuno!… Quando sai che io devo tornare a casa dopo essermi spolmonata con tre ore di lezione, allora mandi fuori la Gioconda colle lettere!—e irritata anche perchè le sue parole non facevano nessun effetto, le buttò i guanti con violenza sul capo.

Numa sparì d'un tratto. Evelina asciugò la cartella che si era macchiata d'inchiostro, cercò una parola scartabellando un dizionario, e ricominciò a scrivere come prima.

—La Gioconda deve essere qui subito!—disse poi, a mezza voce, come se parlasse fra sè.

L'altra ricominciò a girare e a brontolare.

—Che vita! Che vita! Che vita! Ma presto, per fortuna….—e questo lo mormorò più sottovoce—me ne andrò! me ne vado! subito! a qualunque costo!—E camminava un po' dondolandosi, affondando le mani nella giacchetta, con un'aria di rivolta e di sfida, stirandosi ritta colla vita e colle spalle, quasi offrendosi col seno sporgente: pareva volesse sfoggiare tutte le attrattive, tutte le seduzioni della sua bellezza.

Sì, se ne sarebbe andata, e quel bel corpo doveva essere la sua potenza, la sua fortuna. Se quello che aveva in cuore le sarebbe riuscito, bene; diversamente avrebbe fatto la cantante, la mima….

E Pietro Laner?

Nora rispose a quel ricordo importuno con un'alzata di spalle.

Il suo giovane fidanzato, il giovane povero, umile, le appariva in mezzo alla luce sfolgorante del nuovo sogno, ancora più misero, ancora più meschino.—E brutto. Perchè era anche brutto; colla barbetta rada, ispida, i capelli crespi e lunghi come la parruccaccia d'un negro, e gli occhialoni grossi, colle suste dietro le orecchie, come i tedeschi!—Non aveva più un soldo ed era anche brutto.—Bel guadagno a sposarlo!

—Se gli aveva detto di sì, adesso gli direbbe di no!—E come prima, all'immagine del giovane, adesso, al rimordere leggero della coscienza rispose con un'alzata di spalle….—Duchessa!… Che sogno! Che sogno!… Ma sarebbe arrivata fin là?… Ebbene, se "fin là" proprio "fin là" non sarebbe arrivata, se non potesse giungere ad essere sua moglie—duchessa!—avrebbe accettato anche di diventare la sua amante. Essere una signora, "esser ricca", questo era il più importante—e questo era sicuro:—ed ecco la sua febbre, la sua gioia di quei giorni. Perchè in quei giorni Nora era contenta. Se si era arrabbiata, se si arrabbiava tanto contro Evelina, era per una collera tutta fisica, per il tormento acuto, irritante dello stomaco vuoto, che la rendeva nervosa. Finchè non si sfogava a mangiare aveva bisogno di sfogarsi a gridare, a strapazzare. Non c'era altri che Evelina e se la rifaceva con lei: e poi quando fu persuasa che Evelina non le badava nemmeno, se la prese colla credenza, aprendola e richiudendola con gran fracasso.

—Niente! Niente! Niente!

Si avvicinò alla tavola per cercare nei cassetti, ma Evelina si oppose:

—Sta ferma; non posso scrivere.

—Voglio mangiare!

—Mangia una fetta di panettone.

In quella casa, mancava qualche volta il pane; il panettone mai.

—No, gioia! Voglio anch'io una costoletta!—E le indicava un ossicino sul piatto, dinanzi al quale Numa era tornato a montare la guardia sospirando.

In quel punto si udì camminare nell'anticamera.

—Gioconda! Presto! La colazione!

—Come? La signorina Nora?… E non è rimasta dalla signora Schönfeld?—esclamò la Gioconda ridendo col riso grasso della donna ben pasciuta.

—Ma guarda che originale! Resta fuori ogni altro giorno o a colazione o a pranzo, sempre in aria con questa Schönfeld, e proprio oggi, signor no! Viene a casa a far colazione!—La Gioconda parlava lentamente, ascoltandosi e continuando a ridere per quello che diceva. Oh, in casa, avevano fatto un "repulisti" generale! Lei non aveva più un soldo! Prima di andare a far la spesa doveva aspettare il signor Direttore "col rinforzo!"

—Oggi a credito non si compra; tutti brontolano e mi strapazzano. Vogliono essere pagati. E si capisce. È appena morto il giornale; i bottegai sono tutti diffidenti!…—E scoppiò a ridere più forte: il fatto della signorina, che con tanto appetito doveva digiunare, era molto comico!

Nora aveva quasi le lacrime agli occhi.

—Non dire sciocchezze, che non occorre aspettare lo zio Matteo! Tu sei una milionaria!…

—Sicuro!—Il bel servone voleva negare sospirando, ma non riusciva a nascondere tutta la propria compiacenza.—Avevo quaranta o cinquanta lire e ho dovuto mandarle a mia sorella!

Questo non era vero. Aveva il gruzzolo, nascosto nella calzetta. Nei giorni dell'abbondanza nessuno badava a spendere e spandere; soltanto la serva metteva da parte.

—Ma lei, signorina? Delle sue lezioni?… Niente?—E la Gioconda soffiò sul palmo della mano per rendere la domanda più eloquente.

—Ho dato tutto allo zio Matteo.

—E io pure,—ripetè Evelina, prima di essere interrogata.

Nora tornava a strillare, ma la Gioconda, vivamente, accennando verso l'anticamera, le fece segno di tacere.

—Perchè? Chi c'è?—domandarono le due ragazze quasi insieme.

—Un…. tirolese.

Tirolese, era il soprannome che si dava in quella casa ai creditori in generale.

Perchè?—Chi lo sa?—Nessuno forse, avrebbe saputo dirlo; ma tutti i creditori venivano chiamati a quel modo: tirolesi.

—Chi è?—domandò Evelina più curiosa che inquieta.

—È il fattorino della Faré, quel gran negozio di guanti e di cravatte!—esclamò la Gioconda coll'ammirazione che destava ancora, dopo tanto tempo, nella contadinotta della bergamasca il gran lusso di Milano.

—Non gli hai detto che lo zio è fuori?

—Sicuro, ma non importa. Ha ricevuto l'ordine di aspettarlo.

—Ma io ho fame! Ho fame!—continuava a ripetere Nora. Importava tanto a lei dei tirolesi!

—Venga con me. Caffè latte e panettone è una colazione da papa!—E sempre sorridente, movendosi indolente colla persona grassa e rotonda dappertutto, passò in cucina seguita da Nora. Anche Numa, saltò giù dalla tavola e le tenne dietro, silenziosamente, fregandosi contro le sue sottane e rigirando alta la coda con tutto uno stiramento sonnacchioso.

Intanto Matteo Cantasirena, lo zio, come lo chiamavano Nora ed Evelina, il signor direttore, come lo chiamava la Gioconda, continuava a farsi aspettare. La sua gazzetta—Il Rinnovatore—era morta il giorno innanzi; ma non c'era da temere per Cantasirena: egli era più vivo che mai. Morto un giornale, ne faceva un altro, ed era allora che spiegava la maggiore attività, le più grandi risorse della sua fantasia e del suo spirito, ed era allora, sui giornali degli altri, che egli scriveva anche i suoi migliori articoli, per il bisogno stringente delle cinquanta lire, per far sapere, per far vedere e per ricordar bene, che Matteo Cantasirena era sempre quello di prima!

Egli poteva vantare tutti i titoli. Professore, avvocato, cavaliere ed anche colonnello, perchè era stato qualche cosa di simile con Garibaldi, nelle sussistenze. Lui e l'Italia si erano fatti a vicenda ed erano cresciuti grandi insieme. Egli aveva tutto veduto, tutto provato, tutto goduto, tutto sofferto; aveva fatto di tutto ed anche del bene.—Oggi era pieno di danari, di gloria, di potenza; domani danari, autorità, amici e riputazione, tutto aveva perduto, tutto: tranne la salute!… Ma poi, con la salute sempre buona, ritornava da capo; e destreggiandosi ed imponendosi, commovendo gli uni e minacciando gli altri, ma non odiando mai nessuno, nemmeno chi gli aveva tirato l'ultimo calcio, e poter così approfittare di tutti quanti, a poco a poco ritornava a galla, sempre potente e sempre gaudente…. in barba…. ai tirolesi!

La sua forza era la grande fede in sè stesso e nella minchioneria degli altri. Generoso, prodigo, anche nella disdetta, nelle angustie più terribili, ostentava una cert'aria olimpica di protezione; era il grande architetto, almeno uno dei grandi architetti, se non dell'universo, della patria.

La folla che lo vedeva sempre in piedi anche dopo le cadute più rumorose, lo stimava un valore particolare; ed era indulgente e benevola con Matteo Cantasirena, il quale, in fondo, non era mai cattivo più del necessario, e gli manteneva la sua simpatia perchè in tutto ciò che di bene o di male si raccontava o s'inventava sul conto suo, c'era sempre la parte amena, la nota dell'uomo di spirito, che faceva ridere.

E anche la sua figura era simpatica. Bell'uomo, alto, col cranio pelato, lucentissimo, col bel pancione delle persone importanti e la barba alla Mosè, si faceva subito notare in mezzo a tutti e prima di tutti, in un teatro, ad un banchetto, in mezzo alla folla, e così anche pei vantaggi della sua figura, finiva col rappresentare, dovunque si trovasse, una parte sempre spiccata. E Cantasirena, che sapeva anche questo, compiva l'opera della natura, con certi cappelloni a tuba dalle larghe tese che si faceva fare apposta e collo sparato ampio della camicia; i provinciali se lo indicavano l'un l'altro come una delle rarità di Milano, e la sua grossezza caratteristica aumentava la sua gloria.

Nora ed Evelina egli le chiamava, colla solita teatralità espansiva, "le sue care figliuole." Ma questo non vuol dire che fossero sue figlie davvero, come non erano nemmeno sue nipoti, sebbene esse lo chiamassero zio.

Era un modo appunto per chiamarsi, per farsi intendere. Ma poi, nel turbinìo rumoroso, assordante di quella casa e di quella vita così varia, così agitata e accidentata, fra un giorno di lusso e di abbondanza e un altro di ripieghi, fra l'andirivieni ai teatri, alle feste, alle inaugurazioni e alle commemorazioni, e le giornate del lavoro affrettato, disperato, affannoso, non c'era mai tempo di fermarsi per ricordare, per riflettere; e così il modo di chiamarsi diventava poi, in quella gran confusione, anche il modo di essere, e la metafora delle espansioni suppliva alla mancanza dei rapporti di famiglia, dei legami del sangue.

E tutto ciò, naturalmente, ancora di più per Cantasirena che per Nora e per Evelina. La politica, il giornale, le banche, le ferrovie; e correre in cerca di quattrini; e una cambiale da rinnovare, un'altra da non pagare, e un'altra da scontare; e il ministero da sostenere e l'impresario da difendere e il discorso di un onorevole, e tutto ciò con un duello per aria, un protesto in casa, e i vizietti da soddisfare: ecco la sua vita, giorno per giorno.

La casa, per Matteo Cantasirena, non era l'abitazione, ma uno dei suoi recapiti. Vi era sempre di passaggio, dentro e fuori, col cappello in testa, il bastone sotto il braccio, e la voce in aria: quando si fermava di più era qualche volta di notte, e qualche volta anche di giorno, colla Gioconda…

Faceva colazione al caffè, mandava alla cuoca delle sporte di roba per il pranzo e poi non ci veniva nemmeno, senza avvertire, e nessuno lo aspettava.

Ne' suoi bei momenti di gloria e di quattrini, aveva la casa piena di gente: commilitoni, genii, patriotti, tenori, deputati…. e sopratutto parenti: quando aveva quattrini gli capitavano parenti da tutte le quattro parti. Cantasirena li accoglieva sempre a braccia aperte e apriva loro anche la borsa. Si commoveva, pieno di contentezza nel rivederli, anche quando non li aveva mai visti; poi, quando tornavano i giorni della bancarotta e se ne andavano tutti com'erano venuti, Matteo Cantasirena, per il primo, non se ne ricordava più.

Quelle due ragazze, Evelina e Nora, gli erano state portate in casa, piccine, bambine ancora; poi nessuno si era più ricordato di venirle a riprendere e così vi erano rimaste, erano cresciute ed erano diventate "le sue care figliuole"; e per questo lo chiamavano zio, e tutti le credevano due sorelle, mentre forse non erano nemmeno cugine.

Eppure, preso alle strette, avrebbe potuto giurare che non erano proprio sue figlie?…—Aveva avuto moglie?

Una vera moglie, legittima, forse no. Ma fra tutte quelle donne di ogni classe e di ogni razza colle quali era stato legato in quella sua lunga vita, cominciata quando ancora era quasi fanciullo, avrebbe potuto giurare che non ci fosse stata anche la madre di Nora e di Evelina?… Dell'una o dell'altra, almeno, se non di tutte due?

Ma Cantasirena non ci pensava, e anche pensandoci, non se ne sarebbe ricordato. Forse non avrebbe saputo dire, con sicurezza, nemmeno dov'era nato. A Torino, quando aveva fondato la Dogaressa, pareva un veneto; poi, entrato con Vittorio Emanuele a Venezia, per fondarvi il Bersagliere, lo credevano un piemontese. Adesso, a Milano, si riscaldava contro l'invasione dei giornalisti esotici: dunque avrebbe dovuto essere milanese o almeno lombardo….

E anche il suo nome?… Anche quel nome: Cantasirena? Era il suo vero nome?… O non era piuttosto l'antica firma, il pseudonimo del suo primo articolo, della sua prima battaglia, de' suoi primi successi, e che rimasto nella voga popolare, era poi rimasto anche a lui, definitivamente?…

Chi lo sa!

La sua vera vita era stata la vita pubblica; il suo passato, il passato storico della nuova Italia; e invece degli anni egli contava il numero dei ministeri!

E adesso che aveva i cinquanta, e forse i sessanta, dopo tanto fare, disfare, rifare, dopo aver guadagnato e aver speso milioni, Matteo Cantasirena era ancora tal e quale, per tornar da capo: allo stesso punto come quando aveva cominciato: pieno di salute e di speranze.

In quanto alla roba; quella sua "propriamente sua" avrebbe potuto portarla con sè, tutta in un baule. E forse, anche il baule, avrebbe dovuto farselo prestare dalla Gioconda.

Evelina e Nora, fatte ormai a quella vita, prese nell'ingranaggio di quell'esistenza avventurosa e precipitosa, avevano finito col diventare due ruote del baraccone.

Nora, che Matteo Cantasirena chiamava sempre "E-lè-oo-nò-ra" compiacendosi nel far risonare tutte le vocali del bel nome armonioso, era maestra di canto e di pianoforte. Aveva una voce bella, e sapeva leggere discretamente; ma non c'erano abilità straordinarie. Eppure lo zio era riuscito colle sue aderenze, colle sue influenze, a imporla, a farla accettare come maestra al Conservatorio; e dopo quella nomina ufficiale tutte le cantanti che passavano da Milano dovevano prendere alcune lezioni di perfezionamento da Eleonora. Era come una tassa che le colpiva, tutte indistintamente, e che variava a seconda dei quartali o del loro peculio. E quelle povere prime donne, per piacere a Cantasirena, per cattivarsene l'animo e per avere la sua protezione, si scalmanavano tutte in grandi ammirazioni, e si prendevano tutte di un grande amore per la cara Eleonora. La coprivano di carezze e di regali, la portavano in giro, in carrozza, come in trionfo, erano continue feste, continui inviti; e poi le lezioni, a costo di fare un debito, si pagavano al papà, sempre prima di andare in scena.

Invece, alla buona Evelina, era affidata la compilazione del gran dizionario Dei patriotti viventi. Dei morti, Cantasirena se ne occupava soltanto quando si trattava della sottoscrizione per il monumento. Il dizionario usciva a puntate, durante i periodi più difficili, quando Cantasirena non aveva un giornale o il Ministero negava i fondi: perchè Cantasirena aveva cominciato con Cavour ad essere ministeriale, ed era sempre rimasto ministeriale, per quanto si fossero cambiati i ministri. Per la sua coscienza di pubblicista la destra e la sinistra non erano, non potevano essere altro che le due mani del medesimo corpo: la patria…. Si intende, la patria dell'ordine.

E quando c'era una nuova puntata del Dizionario dei patriotti viventi da pubblicare, Cantasirena scriveva lettere, faceva visite, domandava schiarimenti, informazioni, notizie, sapeva destramente rievocare il passato, tanto per lusingare ambizioni, quanto per incutere timori; ma il patriotta vivente, tanto perchè Cantasirena parlasse come per farlo tacere, doveva sempre pagare. E se il Dizionario non poteva mancare ai patriotti, non c'era pericolo che i patriotti mancassero al Dizionario!

Quando Matteo ebbe finito coi patriotti che avevano fatto l'Italia, cominciò con quelli che l'avevano servita e la servivano, coi patriotti che la illustravano, nelle arti, nelle scienze…. Adesso aveva cominciato una nuova, infinita categoria: i patriotti "della Beneficenza."

Matteo cercava i nomi nelle guide, negli indicatori ufficiali, e poi Evelina era capace, all'occorrenza, di fare anche cinque o sei patriotti al giorno.

È vero che anche Evelina aveva a sua volta chi l'aiutava: erano i giovani infelici che dopo essere stati lusingati da Nora, venivano piantati sul più bello. I disgraziati, pur di continuare a vederla, a respirare un po' della sua aria, e nella speranza fors'anche d'ingelosirla, si mettevano a far la corte ad Evelina, alla quale toccavano così, di seconda mano, gli abiti smessi di Nora e i suoi amanti abbandonati.

Essa viveva di riverbero, colla luce di quell'altra, ma intanto viveva.

Evelina era bruttarella davvero. Il corpicciuolo miserino, sformato: pochi capelli chiari chiari e lisci, i denti radi e un po' guasti: e tutto il viso d'una trasparenza giallognola, lustro di sudore, e col barbaglio delle lenti grosse traballanti sul nasino troppo piccolo. Eppure, così bruttina, aveva attrattive tutte sue. Più che farle danno, il confronto della bellezza florida, esuberante di Nora le tornava vantaggioso, inspirando per lei un senso di simpatia pietosa, gentile, e con quella sua aria di malatina rassegnata, si rendeva interessante. La sua voce di solito velata, nella lentezza dolce degli intimi colloqui aveva seduzioni tenere, occulte, e quando si levava il pince-nez, gli occhi bigi, un po' loschi e stanchi dietro le lenti, si ravvivavano di un lampo di luce, e avevano bagliori e carezze misteriose.

Anche per Evelina, come per Nora, l'unico pensiero era di andarsene da quella casa e di "mettersi a posto".

Nell'abbandono in cui erano sempre state lasciate, le due ragazze si erano abituate presto a pensare a sè, e a provvedere a sè, come i monelli delle piazze.

La baraonda

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