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LIBRO DUODECIMO
CAPITOLO V
Leggi del Re Guglielmo I
ОглавлениеLe leggi di questo Principe, ancorchè alcune sembrassero gravose a' suoi sudditi per l'avidità di cumular tesori, nulladimanco tutte l'altre furon assai provide ed utili, tanto che Federico II le inserì nel volume delle sue Costituzioni, che fece compilar da Pietro delle Vigne, e volle che insieme con quelle di Ruggiero s'osservassero. Ventuna ne abbiamo di questo Principe nel volume delle Costituzioni, le quali bisogna separare da quelle, che promulgò da poi Guglielmo II suo figliuolo, non confonderle, come han fatto i nostri Scrittori, che tutte le riputarono di Guglielmo I.
Quella che leggiamo nel libro primo sotto il titolo de Usurariis puniendis, e che porta in fronte in alcune edizioni il nome di Ruggiero, ed in alcune altre quello di Guglielmo, non è, come si disse, nè di Ruggiero, nè, come credettero Andrea d'Isernia, Afflitto, e gli altri nostri Scrittori, di questo Guglielmo I. Fu quella promulgata molto tempo da poi da Guglielmo II suo figliuolo; perciocchè ivi si stabilisce, che tutte le quistioni, che s'agiteranno nella sua Corte appartenenti alle usure, s'abbiano nella medesima a diffinire e terminare secondo il decreto del Papa novellamente promulgato in Roma; intendendo Guglielmo II del decreto, che nel Concilio lateranense, celebrato in Roma da Alessandro III, fu stabilito contro gli usurai, inserito anche da Gregorio IX ne' suoi Decretali[49]; onde non potè esserne Autore Guglielmo I, poichè questo Concilio fu celebrato da Alessandro in Roma nell'anno 1180 come rapporta Antonio d'Agostino, o come i più accurati Scrittori nell'anno 1179, nel qual tempo era già morto Guglielmo il Malo, che finì i giorni suoi, come si è veduto, fin dall'anno 1166, e regnava in Sicilia Guglielmo II, il quale tutto diverso dal padre, abbominando l'avidità degli usurai, ed i loro detestabili acquisti, volle che le quistioni d'usure si terminassero non già secondo la ragion civile de' Romani, ma secondo i canoni del Concilio di Laterano. Merita riflessione che in questi tempi i delitti d'usura erano conosciuti da Giudici secolari, nè apparteneva la cognizione de' medesimi agli Ecclesiastici, come pretesero da poi, avendo solo Guglielmo comandato che dovessero i suoi Giudici terminar tali controversie non già colle leggi romane, ma secondo quel decreto, il quale senza questa Costituzione non avrebbe potuto obbligare i sudditi dei suoi Regni, non avendo ancora i regolamenti ecclesiastici acquistato ne' Tribunali quella forza ed autorità che da poi col lungo uso acquistarono ne' nuovi dominj de' Principi cristiani; ma perchè s'osservassero nel Foro, ed in vigor de' quali le liti si decidessero, era bisogno che il Principe lo comandasse.
Parimente l'altra Costituzione, che leggiamo nel medesimo libro primo, sotto il titolo, Ubi Clericus in maleficiis debeat conveniri, al II Guglielmo, non già al I, dee attribuirsi. Fu quella insieme con un'altra, che si legge nel libro terzo sotto il titolo De adulteriis coërcendis, stabilita da Guglielmo II a richiesta di Gualtieri Arcivescovo di Palermo[50], colla quale furono, intorno a' delitti, le persone de' Cherici del suo Regno, sottratte dalla giurisdizione laicale, ordinando per quella, che la cognizione de' medesimi, per quanto s'attiene alle loro persone, sia della Chiesa, e che debbano da lei esser giudicati secondo i canoni e secondo il dritto ecclesiastico; eccettuando solamente i delitti di fellonia e quelli che per la loro atrocità spettassero alla Maestà del Re, ne' quali volle che la cognizione fosse della sua Corte.
Sono sì bene di Guglielmo I le altre, che seguono nell'istesso libro primo sotto vari titoli collocate. La prima si legge sotto il titolo 59, per la quale vien proibito agli Ufficiali esercitar per altri le loro cariche, togliendosi a' M. Giustizieri ed agli altri Giustizieri minori il poter per mezzo de' loro Vicari esercitare i loro Uffici, imponendo con sommo rigore pena capitale a chi contravenisse a tal divieto. La seconda è sotto il titolo De juramentis non remittendis a Bajulis, ove punisce con pena pecuniaria d'una libbra d'oro gli eccessi de' Baglivi, i quali per favore o per denaro rimettessero i giuramenti, ed altre pruove nelle liti, che i Giudici sentenziassero doversi prestare. La terza sotto il titolo De Officio Magistri Camerarii, fu stabilita per togliere le confusioni tra gli Ufficiali, e distribuisce a ciascuno d'essi ciò che sia della sua incumbenza. Vuol perciò che i Maestri Camerari possano conoscere delle cause civili solamente, e non delle feudali, che s'appartenevano alla Gran Corte, ed a' Gran Giustizieri; e diffinire le cause che nascessero tra Baglivi, e Gabelloti alla sua giurisdizione soggetti, e che ad essi si riportassero le appellazioni delle cause decise da' Giudici ordinari in presenza de' Baglivi, li quali possano confermare, o rivocare i loro decreti o sentenze; siccome il dritto loro detterà: da' quali poi possa appellarsi, non già come prima al Gran Giustiziero, ma al Re solamente.
La quarta, posta sotto il medesimo titolo, ordina ai Maestri Camerari delle Regioni a se commesse che col Consiglio de' Baglivi mettano essi l'assise delle cose venali per ciascuna città e luoghi a se soggetti.
La quinta che si legge sotto il titolo de Officio Secreti, è locale, e riguarda la provincia della Calabria, per la quale è stabilito che in quella provincia l'Ufficio di Secreto e di Questore, per l'avvenire s'eserciti da Camerari della medesima. E nella sesta che siegue, si dà particolare incumbenza a' suddetti Secreti e Questori d'invigilare a' tesori che si ritrovassero per incorporargli a comodo del Fisco, e di conoscere sopra i naufragj che accadessero, perchè essendo morti i padroni, nè lasciando legittimi successori, possano le robe appropriarsi al Fisco. Come ancora dà loro incumbenza d'invigilare e conoscere sopra i beni vacanti di coloro, che morendo senza far testamento non abbiano successori legittimi, ordinando che la terza parte del prezzo delle robe ereditarie si dispensi ai poveri per l'anime de' defunti, e tutto il resto s'applichi al Fisco.
La settima, posta sotto il medesimo titolo, comanda a' Giustizieri, Camerari, Castellani e Baglivi che siano solleciti in prestar ogni aiuto e consiglio a' suddetti Secreti e Questori in tutto ciò, che concerne il comodo della sua Corte.
L'ottava che si legge sotto il titolo, De praestando Sacramento Bajulis, et Camerariis, merita tutta la riflessione; poichè in essa si prescrive a' Camerari ed a' Baglivi il modo di dover amministrar giustizia ai suoi sudditi. Comanda che debbano amministrarla secondo le sue Costituzioni e quelle di Ruggiero suo padre, ed in difetto di quelle, secondo le Consuetudini approvate ne' suoi Stati, e finalmente secondo le leggi comuni, longobarde e romane; onde si convince, che a' tempi di questo Principe le leggi longobarde erano in tutto il vigore, ed osservanza in questo Reame, e riputate leggi comuni, non meno che le romane. Quindi avvenne, che le prime fatiche, che abbiamo de' nostri Giureconsulti fossero indrizzato alle medesime, e che Carlo di Tocco, contemporaneo di questo Guglielmo, da cui nell'anno 1162 fu fatto Giudice della G. C.[51], si prendesse il pensiero e la cura di commentarle: nel che fare servissi delle Pandette ed altri libri di Giustiniano, non perchè questi avessero acquistata forza alcuna di legge in questo Regno, ma perchè non si riputassero le longobarde cotanto barbare ed incolte, giacchè molte di esse eran conformi alle leggi delle Pandette, le quali avendo tirato a se lo studio di molti, questi cominciavano ad aver in disprezzo le longobarde. Nè Guglielmo intese altro per le leggi comuni romane, se non quelle, che prima d'essersi ritrovate le Pandette in Amalfi, erano rimaste come per tradizione presso i nostri provinciali; poichè insino a questi tempi, se bene nell'altre città d'Italia, come che pubblicamente insegnate nelle loro Accademie, cominciassero ad allegarsi nel Foro; nulladimanco in queste nostre parti, non essendovi ancora pubbliche Scuole introdotte, se non a' tempi di Federico II, non solo non aveano acquistata autorità alcuna di legge, nè s'allegavano nel Foro, ma nè meno erano insegnate ed esposte come in Bologna e Milano e nell'altre città d'Italia: e le liti per lo più decidevansi secondo le leggi longobarde, siccome è chiaro da quelle due sentenze rammentate da noi, e rapportate dal Pellegrino, una in tempo di Ruggiero, l'altra di Guglielmo II. Ed è ciò così vero, che non era lecito nè meno ricorrere alle leggi delle Pandette in difetto delle longobarde; come è chiaro da Commentari del medesimo Carlo di Tocco[52], ove dimandando se, siccome il figliuolo succedeva alla madre, così potesse ancor la madre succedere a' figliuoli: dice che le leggi longobarde di ciò niente stabilirono, onde la madre come cognata dovrebbe escludersi, poichè secondo quelle succedono i soli agnati; e che perciò vi sarebbe bisogno d'una nuova legge, che l'ammettesse alla loro successione, non altramente di quello praticavasi presso i Romani, appo i quali perchè la madre potesse succedere, fu mestier che il Senatusconsulto Orficiano lo stabilisse. Che bisogno dunque vi sarebbe stato di questa nuova legge, se s'avesse alla legge de' Longobardi potuto supplire colle leggi delle Pandette? Ne' tempi dunque di questo Guglielmo le leggi comuni de' Romani non eran quelle, ch'eran comprese nelle Pandette, ma quelle, ch'erano rimaste presso i Popoli, che dopo estinto l'Imperio romano, le ritennero più tosto come antiche costumanze, che per leggi scritte, non essendo stati i libri di Giustiniano in queste parti, se non dopo molti secoli conosciuti, e molto tardi riacquistarono in esse l'antica loro autorità e vigore, per l'uso più, che per qualche Costituzione di Principe, che lo comandasse, come si vedrà chiaro nel corso di questa Istoria.
La nona Costituzione di Guglielmo, che si legge sotto lo stesso titolo, tutta si raggira intorno all'incumbenza de' Maestri Camerari e de' Baglivi. Si prescrive il numero de' Baglivi e de' Giudici in ciascuna città e luogo delle province; e s'impone a' Camerari di non rendere venali questi Uffici, ma di distribuirgli a persone meritevoli e fedeli: che invigilino sopra i medesimi con vedere i loro processi; e dà altre providenze attinenti alla retta amministrazione della giustizia, ed al buon governo delle province.
La decima, che abbiamo sotto il titolo de quaestionibus inter Fiscum, et privatum, prescrive a' Maestri Camerari che eccettuatene le cause feudali, abbiano a conoscere di tutti i giudicj, così reali, come personali tra il Fisco ed i privati, colli Giustizieri aggiunti, e coll'intervento dell'Avvocato fiscale.
L'undecima, sotto il titolo de cognitione causae coram Bajulis, dà facoltà a' Baglivi di poter conoscere ne' luoghi dove sono preposti, di tutte le cause civili così reali, come personali, eccettuatene le cause feudali: di conoscere ancora de' furti minimi e d'altri minori delitti, che non portano pena di mutilazion di membra. La duodecima che si legge sotto il titolo de fure capto per Bajulum, prescrive a' Baglivi, che prendendo qualche ladro forastiero, l'abbiano insieme colla roba rubata a consignar in mano de' Giustizieri: se sarà del luogo, ove sono preposti, parimente lo debbiano consegnare a' Giustizieri, ma le robe mobili del medesimo dovranno essi applicarle al Fisco di quel luogo.
La decimaterza, sotto il titolo de Officio Bajulorum impone a' Baglivi di dover invigilare intorno al giusto prezzo delle cose venali; e la loro incumbenza particolare essere, d'esigere irremissibilmente le pene a quei che venderanno contro l'assise, o pure se troveranno mancanti i loro pesi e misure. La decimaquarta, che segue sotto il titolo de Poena negantis depositum vel mutuum, punisce severamente i depositari, e que' che o per mutuo, o per comodato negheranno a' padroni di restituire la loro roba.
La decimaquinta, che si legge sotto il titolo de Clericis conveniendis pro possessionibus, quas non tenent ab Ecclesia, merita maggior riflessione che tutte l'altre. In essa si determina, che se i Cherici saranno convenuti per qualche eredità, tenimento, o altra roba di lor patrimonio, che non dalla Chiesa, ma da altri sia ad essi pervenuto: la cognizione di queste cause spetti alla Corte secolare del luogo, nel distretto del quale sono le lor possessioni, e quivi dovranno essi rispondere in giudizio, se avran cosa in contrario: proibendosi solamente a' Giudici secolari di poter prendere le loro persone, ovvero carcerarle: ma non già eseguire in vigor della sentenza, che la lor Corte proferirà, le robe dedotte in giudicio. Questa legge di Guglielmo nel tempo, che fu promulgata, non parve niente irregolare e strana, siccome ancora da poi nei tempi di Marino di Caramanico antico Glossatore di queste Costituzioni, che glossandola, niente trovò che riprendere. Ma ne' secoli posteriori, quando il diritto canonico de' decretali cominciò a stabilire nelle menti de' nostri Giureconsulti altre massime, parve assai strana e mostruosa. Andrea d'Isernia, che scrisse in questi tempi, non ebbe per ciò difficoltà di dire che tal Costituzione niente valesse, anzi dovesse reputarsi nulla e vana, come quella ch'è contro le persone ecclesiastiche, e contro l'ecclesiastica libertà. Aggiugne ancora essersi ingannato il Legislatore, che vuol che si dovesse attendere la qualità o condizione delle robe, non delle persone, quando tutto il contrario, le robe prendono qualità dalle persone, e queste sono convenute, non quelle. Chiama eziandio imperiti coloro, che dicono aver il Papa e la Chiesa romana approvate queste Costituzioni; poichè dice non apparirne la conferma, e se pure apparisse generalmente fatta, non perciò si dee aver per approvata questa Costituzione dal Papa, il quale se fosse stato richiesto di particolarmente confermarla, non l'avrebbe conceduto. Ma da quanto si è detto ne' precedenti libri, quando della politia ecclesiastica ci toccò favellare, ben si potrà comprendere, quanta poca verità contenga questo discorso d'Isernia.
La decimasesta, ch'è l'ultima di questo Principe, collocata da Pietro delle Vigne nel libro primo delle Costituzioni del Regno sotto il titolo de Officio Castellanorum, non contiene altro, se non che si comanda a' Castellani ed altri loro subalterni, che niente esigano da' carcerati, che non pernotteranno nelle carceri; ma se arriveranno a pernottarvi, nel tempo della lor liberazione non esigano più che un mezzo tarino.
Nel libro secondo non abbiamo leggi del Re Guglielmo, ma nel terzo la decimasettima, che prima si incontra, è quella sotto il titolo de Dotariis constituendis, ove s'impone alle mogli, dopo la morte dei loro mariti, di dovere assicurare gli eredi di quello del dotario, che tengono nella Baronia, e prestar giuramento di fedeltà a colui, che sarà rimasto padrone della medesima.
La decimaottava, che abbiamo sotto il titolo de Fratribus obligantibus partem feudi pro dotibus sororum, permette a' fratelli, se non avranno mobili, o altri beni ereditarj, di poter costituire in dote alle loro sorelle, e obbligare perciò parte del Feudo; e di vantaggio, se avranno tre o più Feudi, che possano uno d'essi darne in dote alle medesime: ma che in tutti i casi suddetti, e quando s'obbliga il Feudo, e quando s'aliena, o si costituisce in dote, sempre s'abbia da ricercare la licenza del Re. E di vantaggio, che i matrimoni non possan contraersi senza suo permesso ed assenso, ed altrimenti facendosi, tutte le convenzioni siano nulle, e invalide: ciocchè, come si disse, diede motivo a' Baroni del Regno di doglianza, che per queste leggi, per le quali senza licenza della sua Corte non potevano collocar in matrimonio le lor figliuole o sorelle si era loro imposto duro giogo; ma Federico, ciò non ostante, volle confermarla per quelle ragioni, che si sono dette, quando delle leggi di Ruggiero parlossi; poichè la legge non era gravosa per quello, che ordinava, ma per lo mal uso, che d'essa Guglielmo faceva, il quale per avidità, che i Feudi ritornassero al Fisco, era inflessibile a dar il suo permesso nei matrimoni, onde si mossero quelle querele de' Baroni e quei disordini, che nel Regno di questo Principe si sono raccontati.
Merita la decimanona legge di Guglielmo, posta sotto il titolo de Adjutoriis exigendis ab hominibus, tutta la considerazione; poichè in essa più cose degne da notarsi s'incontrano. Primieramente si raffrena l'avidità de' Prelati delle Chiese, de' Conti, de' Baroni, e degli altri Feudatari, i quali per qualunque occasione estorqueano da' lori vassalli esorbitanti adjutorj; onde volendo togliergli da questa oppressione, stabilisce i casi ne' quali possano i medesimi giustamente pretendergli. I casi sono: I Se si trattasse di redimere la persona de' loro padroni dalle mani de' nemici, da' quali fossero stati presi militando sotto le insegne del Re. II Se il Barone dovesse ascrivere un suo figliuolo alla milizia. III Per collocare la sua figliuola, o sorella in matrimonio. IV Per compra di qualche luogo, che servisse per servizio del Re, o del suo esercito. Merita ancora riflessione ciò, che si stabilisce per li Prelati delle Chiese, a' quali anche si prescrivono alcuni casi, ne' quali possano legittimamente cercar gli adjutorj da' loro vassalli: I Per la loro consecrazione. II Quando dal Papa saranno chiamati ad intervenire in qualche Concilio. III Per servizio dell'esercito del Re, se essi saranno in quello. IV Se saranno chiamati dal Re; ove è da notare, che in questi tempi non cadea dubbio alcuno, se i Principi potessero chiamare i Prelati, nè questi facevano difficoltà d'ubbidire alle chiamate, come si cominciò a pretendere negli ultimi tempi; se bene nel Regno i nostri Principi sempre si siano mantenuti in questo possesso, con discacciar i renitenti dal Regno nel caso non ubbidissero. V Se il Re per suo servigio gli mandava altrove, siccome indifferentemente soleva fare, impiegandogli sovente negli affari della Corona; e per ultimo se l'occasione portasse, che il Re dovesse ospiziare nelle loro terre. In tutti questi casi si permette a' Prelati poter riscuotere da' loro vassalli gli adjutorj, ma si soggiunge nella medesima Costituzione, che debbano farlo moderatamente.
Quell'altra, che si legge sotto il titolo de novis edificiis, se bene in alcune edizioni portasse in fronte il nome di Ruggiero, ed in altre quello di Guglielmo, è chiaro però, che non sia nè dell'uno, nè dell'altro. L'Autore della medesima fu Federico II come è manifesto da quelle parole, ab obitu divae memoriae Regis Gulielmi consobrini nostri, intendendo Federico di Guglielmo II, che fu suo fratello consobrino, come nato da Guglielmo I, fratello di Costanza madre di Federico.
La vigesima è sotto il titolo de servis, et ancillis fugitivis. Proibisce per quella Guglielmo, ritenere i servi fuggitivi; ed ordina nel caso sian presi, che immantenente si restituischino a' padroni, se si sapranno: se saranno ignoti, impone che debbano consegnarsi a' Baglivi, i quali tosto dovranno trasmettergli alla sua Gran Corte e facendo altrimenti, s'impone pena ai trasgressori, anche agli stessi Baglivi, della perdita di tutte le loro sostanze da applicarsi al Fisco: ma Federico nella Costituzione de Mancipiis, dà un anno di tempo a' padroni di ricuperargli, da poi alla Gran Corte saranno trasmessi.
L'ultima è quella che si legge sotto il titolo de pecunia inventa in rebus alienis. Se l'altre leggi di Guglielmo sinora annoverate mostrano l'avidità, che ebbe questo Principe di cumular denari, e d'imporre tante pene pecuniarie, onde s'arricchisse il suo erario, maggiormente lo rende manifesto questa, che siamo ora a notare. Guglielmo sin dall'anno 1161 avea stabilita legge, che chi trovasse un tesoro, lo trovava per lo Re[53]. In questa, ora ordina che chiunque ritrovasse oro, argento, pietre preziose ed altre simili cose, che non siano sue, debba immantenente portarle a' Giustizieri, o Baglivi del luogo, ove saranno trovate, i quali tosto debbano trasmetterle alla sua Gran Corte, altrimente come ladro sarà punito. Dichiarando ancora generalmente, che tutto ciò che nel suo Regno sarà trovato, del quale non apparisca il padrone, al suo Fisco spezialmente s'appartenga. Vuol che alla sua pietà si debba ciò che soggiunge, cioè che se fra lo spazio d'un anno taluno proverà esserne di quelle il vero padrone, debbansi a lui restituire, ma quello trascorso, stabilmente al Fisco s'ascrivano. Federico II, nella seguente Costituzione approva la legge, e questo solo aggiunge, che le robe trovate s'abbiano a conservare da' Giustizieri e Baglivi delle regioni, ove si trovarono, non già trasportarsi nella Gran Corte, non parendogli giusto, che i padroni di quelle per giustificare e provare esser loro, e per ricuperarle, da lontani luoghi abbiano con molto loro dispendio e travaglio da ricorrere alla Gran Corte da essi remota.
Queste sono le leggi del Re Guglielmo I, che a Federico piacque ritenere, e che volle unire colle sue e con quelle di Ruggiero suo Avo; poichè l'altra, che si legge sotto il titolo de adulteriis coercendis, dove, quando non vi sia violenza, si commette a' Giudici ecclesiastici la cognizione dell'adulterio, a cui uniformossi l'Imperadrice Costanza per una sua carta rapportata dall'Ughello, non è, nè di Ruggiero, nè di questo Guglielmo: ella è di Guglielmo II, suo figliuolo, come si vedrà chiaro quando delle leggi di questo Principe farem parola.
Fassi ancora da alcuni Guglielmo autore della Gran Corte, e ch'egli fosse stato il primo a stabilir questo Tribunale; nè può dubitarsi, che nell'anno 1162 uno de' Giudici di questa Gran Corte fosse stato Carlo di Tocco Commentatore delle nostre leggi longobarde. Ma siccome ciò è vero, così non potrà negarsi, che la Gran Corte a' tempi di Guglielmo era quella eretta in Palermo, ove tenea collocata la sua sede regia, non già quella, che a' tempi di Federico II, e più di Carlo I d'Angiò, veggiamo stabilita in Napoli. In tempo di Guglielmo, Napoli non era riputata più di qualunque altra città del nostro Reame, anzi Salerno, e (prima d'averla egli così mal menata) Bari sopra le altre estolsero il capo. E se bene alcuni rapportano, che questo Principe di due famosi castelli avesse munita Napoli, cioè di quello di Capuana contro gli aggressori di terra e dell'altro dell'Uovo, per que' di mare, ancorchè altri ne facessero pure autore Federico: niun però potrà negare, che questa città da Federico II, cominciasse pian piano a farsi capo e metropoli di tutte l'altre, così per l'Università degli studi, che v'introdusse, come per li Tribunali della Gran Corte e della Zecca, chiamato poi della Camera Summaria; e che non prima de' tempi di Carlo I di Angiò fosse sede regia, ove si riportavano tutti gli affari del Regno, e che finalmente la resero capo e metropoli di tutte le altre, come si vedrà chiaro nel corso di quest'Istoria. Ne' tempi di quest'ultimi Re normanni, non vi era in queste nostre province città, che potesse dirsi capo sopra tutte l'altre. Ciascuna provincia teneva i suoi Giustizieri, Camerari ed altri particolari Ufficiali, nè l'una s'impacciava degli affari dell'altra. Nè in questi tempi il numero delle medesime era moltiplicato in dodici, come fu fatto da poi (se debbiamo prestar fede al Surgente)[54] nei tempi di Federico; ma le nostre regioni erano divise secondo i Giustizieri, che si mandavano a reggerle, onde presero il nome di Giustizierati e poi di province, governandosi da' Presidi, come s'intenderà meglio ne' libri che seguiranno di questa Istoria.
FINE DEL LIBRO DUODECIMO
49
. Decret. lib. 5 tit. 16 cap. 6.
50
. Tutini degli Ammir. pag. 41.
51
. Top. de orig. M. C. c. 10.
52
. Carol. de Tocco in l. si sorores 25 verb. si propinqui in fin. de succes. l. 2 tit. 14.
53
. Bardi tom. 3. Cron. fol. 333.
54
. Surg. Neap. Illustr. cap. 24 n. 2.