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LIBRO TRENTESIMOSECONDO
CAPITOLO I
D. Pietro di Toledo riforma i Tribunali di Napoli, onde ne siegue il rialzamento della giustizia

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Conoscendo questo savio Ministro, che il principal fonte, onde deriva il riposo de' Popoli, sia quando fra quelli la giustizia venga ugualmente a tutti distribuita, e non potendosi quella a dirittura amministrar da' Re, sian questi forzati d'esercitarla per mezzo de' loro Ministri: il primo passo che diede fu di chiamarsi a se li Consiglieri del Re, e tutti gli altri Magistrati ed Ufficiali di giustizia, incaricando loro, che avessero la giustizia sempre innanzi agli occhi: alla retta amministrazione di quella fossero rivolti tutti i loro pensieri: la distribuissero a tutti senza umani rispetti, non per favore, non per odio, ma unicamente per Dio, e per maggior servizio del loro Re.

A questo fine per maggiormente accertarsi del frutto delle sue ammonizioni, non fidandosi di niuno, dava udienza ogni giorno a tutti con grandissima attenzione, volendo egli sentire e conoscere cosa per cosa: per la qual via ebbe tosto notizia de' difetti degli ufficiali, li quali sicuri, che non vi sarebbe cosa, che al Vicerè non fosse nota, alcuni emendandosi per se medesimi, si riducevano a buona vita, altri, ciò trascurando, ne erano ammoniti, ed altri aspramente ripresi, ed alcuni anche deposti dalle loro cariche.

Ritrovò, che intorno al punire i delinquenti, era di molto impedimento il favor de' grandi Baroni e Nobili della Città, li quali, o importuni tosto correvano a dimandargli grazia, ovvero, usando della lor potenza, minacciavano i Giudici perchè li liberassero: fece per ciò lor sentire, che cessassero di tentar simili cose, perchè con lui non varrebbe ad essi nè il favore, nè le minacce. E perchè maggiormente se n'accertassero, volle con un grande ed illustre esempio porre in esecuzione questa sua deliberazione, nella giustizia che fece fare del Commendator Gio. Francesco Pignatelli il quale, ancorchè reo di molti delitti, nulladimanco per essere di gran parentado, e da molti Signori favorito, avea tenuto gran tempo impedita l'esecuzion della giustizia, i poveri offesi, ed i querelanti con minacce oppressi; il che inteso dal Vicerè, diede sicurtà a' querelanti, ed a' Giudici, che procedessero con libertà; tanto che sentenziato a morte, gli fu fatto mozzar il capo nel largo del Castel Nuovo, luogo solito a giustiziarsi i Nobili ne' casi importanti. Lo stesso accadde al secondo Conte di Policastro e ad un cittadino molto ricco, e ben imparentado, nomato Mazzeo Pellegrino, il quale per forza di denari teneva occultate le querele, perseverando ne' delitti; ma con tutto che avesse offerte somme esorbitantissime per comporsi, non fu l'offerta ricevuta, e condannato a morte, lo fece con molto rigore giustiziare.

Per togliere ancora la cagion dei delitti, fece pubblicar bando, che niuno, di qualsivoglia condizione, potesse, come erasi introdotto, tener nelle porte e sale delle lor case arme in aste, nè archibugi, nè schioppi, e che niuno ardisse portar per la città nè scoppettuoli, nè daghe, o altre arme, ma la sola spada. Ordinò che niuno, sonate le due ore di notte per sino alla mattina, potesse portar qualunque sorta d'armi; ed acciò che si togliesse ogni contrasto, che avesse potuto insorgere intorno alla determinazione dell'ore, o di non essersi inteso il tocco, ordinò che la campana di S. Lorenzo, che si sentiva per tutta la Città, dovesse, passate le due ore, sonare a martello. Ordinò parimente, che i furti notturni commessi nella Città, fossero puniti con pena di morte. E poichè allora in Napoli erano molti portici, come grotte oscure, ove la notte i ribaldi assalivano i poveri incauti, gli fece buttar tutti a terra, fra' quali furono i portici di S. Martino a Capuana, e l'altro di S. Agata, antichi edificj, che davan spavento a passarvi anche di giorno. Per quest'istessa cagione fece tor via le pennate di tavole, e li balconi degli artigiani, che tenevano sporti in fuori alle strade, ove di notte s'appiattavano i ribaldi per assalire coloro, che vi passavano. Parimente, essendo uno scoglio in mare vicino al Castello dell'Uovo, chiamato il Fiatamone, ov'erano molte grotte, nelle quali i giovani dissoluti commettevano orribili disonestà, lo fece tutto rovinare, sino da' fondamenti. E le donne disoneste, che abitavano disperse per la città, mischiate con l'oneste, le fece scacciar tutte da que' luoghi, e le ridusse ne' pubblici lupanari. Nè cessò mai di perseguitare una sorta d'uomini chiamati Compagnoni, vietando con pubblici bandi, che niuno andasse in quadriglia, infino che gli stirpò affatto dalla città.

Tolse a' delinquenti gli Asili, che per la protezione de' potenti aveansi fatti ne' palagi de' principali Baroni; ed avuta notizia, che in Napoli vi erano molte case, dove si ricettavano i fuorusciti, dandosi loro non sol ricetto, ma vitto e danari, per servirsene i Protettori per loro pravi disegni, le fece diroccare, tante che niuno ebbe poi più ardire di ricettargli. Gli artigiani eran prontamente pagati; non loro s'usavano più insolenze: ed i Ministri della giustizia erano come si conveniva rispettati. Anzi perchè la Città fosse meglio guardata, creò altri Capitani di guardia, ed ordinò, che sparsi alloggiassero per la Città per maggior custodia. Creò parimente nuovi Bargelli di campagna, acciocchè i delinquenti si tenessero men sicuri nella Campagna, che dentro la Città.

Parimente trovando introdotti molti altri abusi, gli estirpò tutti. Erasi introdotto costume in Napoli, che quando le donne vedove si rimaritavano, s'univan le brigate, e la notte con suoni villani e canti ingiuriosi, andavano sotto le finestre degli sposi a cantar mille spropositi ed oscenità, e questi suoni e canti chiamavano Ciambellarie; donde ne sortivano molte risse, e talora omicidj; e sovente gli sposi per non sentirsi queste baje, si componevano con denaro, o altra cosa colle brigate, perchè se n'andassero. Durava ancora il costume tramandato dalla antica gentilità, ne' tempi delle vendemmie, di vivere con molta dissolutezza e libertà: i Vendemmiatori non s'arrossivano incontrando donne, ancorchè onestissime e nobili, Frati ed altri uomini serii, di caricarli di scherno e di parole oscene, con tanta licenza, quanta si vede nel Vendemmiatore di Luigi Tansillo. Duravano ancora le superstiziose e lugubri dimostrazioni di duolo, che si facevano ne' funerali, ove le donne, non pure nelle loro case, ma nelle pubbliche piazze accompagnando il feretro, e nelle Chiese, con smoderato strascino di abiti luttuosi, con urli, pianti e graffiature di viso, empievano la Città di doglia e di pianti. Estirpò il Toledo questi abusi, riducendo il lutto de' funerali a comportabile e buono uso; e siccome per conservazione delle loro doti fece pubblicar Prammatica, così ripresse il soverchio lor lusso nel vestire.

Fece pubblicar bandi severissimi sopra i duelli, dai quali derivavano nella Città molti e spessi disordini e rumori: stabilì, che i provocanti a duello, fossero rei di pena capitale, e coloro, che non l'accettavano, non fossero notati d'infamia.

Sterminò da poi con rigore esattissimo un pernizioso e reo costume introdotto nella Città, per cui non stavan sicuri i più casti e guardati luoghi, acciocchè l'onestà delle donzelle non fosse insidiata. Il governo del Principe d'Oranges v'avea data forza, poichè nei suoi tempi, i nobili giovani usando mille insolenze, non erano puniti de' ratti, che facevano di molte onorate e nobili donne; perchè il Principe nella preda v'avea anche la sua parte: e per procedere con sicurezza, e penetrare i più guardati e riposti luoghi, si servivano per salirvi di scale di funi, non perdonando nè anche a' Monasteri. Il Cardinal Pompeo Colonna, come in sì fatte cose indulgente, non vi provvide abbastanza; ma il Toledo detestando le corruttelle ed i pubblici scandali, fece pubblicar un severissimo bando, col quale s'imponeva pena di morte naturale senza remissione alcuna, a chiunque persona si fosse trovata di notte con scale di legno o di fune o di qualunque altra materia. Di questo bando (ancorchè non si legga nelle nostre Prammatiche) ne fece memoria il Presidente de Franchis; ma da poi nel 1560 D. Parafan di Rivera Vicerè nel Regno di Filippo II ne fece pubblicar Prammatica, che si legge sotto il titolo De Scalarum prohibitione noctis tempore: dove quel Ministro nascondendo per onestà il principal fine della legge, fece intendere, che per molti ladri ed altri, che andavano la notte con iscale scalando le case e rubando, donde nasceva alcuna sospezione della pudicizia delle donne onorate, fossero puniti con pena di morte naturale, o altra pena riservata a suo arbitrio, tutti coloro, che si trovassero di notte portar le suddette scale.

Ma il bando di D. Pietro fu più severo, e fu fatto eseguire con molto rigore, siccome infelicemente avvenne nel 1549 ad un nobile, che colto di notte, mentre scendeva per una di queste scale dalla finestra di una gentildonna, lo fece decapitare, con tutto che per salvarlo si fossero interposte la Principessa di Salerno e quella di Sulmona, e quasi tutta la Nobiltà. Lo stesso sarebbe accaduto a Paolo Poderico Cavaliere molto stimato nella Città, il qual preso, mentre di notte avea appoggiata la scala sotto la finestra della sua amorosa, fu condennato a morte; ed il Vicerè, ancorchè fosse suo grande amico, non volle impedir la condanna, ma diede luogo a' parenti, che trovandosi colui Cherico, dimandassero la remissione del reo alla Corte Ecclesiastica, siccome si fece; ed il Poderico essendosi rimesso a quella Corte, in tal maniera scampò il tumulo.

Istoria civile del Regno di Napoli, v. 8

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