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II.
ОглавлениеIo pensava:
La sua Comedia volle Dante che parlasse ‛faticosa e forte’; e certo egli credeva, come e più che per la canzone “Voi che, intendendo„, che radi avessero a essere coloro che intendessero bene sua ragione, pago che la bellezza ne fosse veduta, se la bontà meno ne era sentita.[1] Certo egli avverte nel poema stesso e di nascondere la dottrina sotto il velo dei versi e di volere ben forniti di dottrina i suoi lettori; d’essere cioè forte od oscuro, e faticoso o duro. Avanti le porte di Dite, quando le feroci Erine domandano il Gorgon e il Maestro chiude gli occhi a Dante, questi interrompe il racconto, che séguita col fracasso sonante per le torbide onde, dicendo al lettore:
O voi, che avete gl’intelletti sani,
Mirate la dottrina che s’asconde
Sotto il velame degli versi strani.[2]
Così nella valletta dei fiori, finito l’inno della Compieta, prima di narrare lo scendere dei due angeli e il venire del serpente, si volge pure al lettore:
Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al vero,
Chè il velo è ora ben tanto sottile,
Certo, che il trapassar dentro è leggiero.[3]
Il velo è della lettera, è la sentenza letterale, il di fuori, e il vero è quello che si nasconde sotto il manto di quella favola: il di dentro, una verità, come egli dice, ascosa sotto bella menzogna.[4] Il velo qui è sottile, il vero dunque facilmente trasparisce: perchè l’invito ad aguzzare gli occhi? Per comprendere la cosa, bisogna rileggere nel Convivio il perchè, quale egli lo espone, della ‛fortezza’ o ‛gravezza’ non solo delle canzoni, ma ‛dello scritto che quasi Comento dire si può’, che ordinato a levare il difetto della durezza in esse, è ‛in parte un poco duro’.[5] Dante scrive che per l’esilio e per il vento secco che vapora la dolorosa povertà, la quale ne fu l’effetto, essendo vile apparito agli occhi a molti, e non solo nella persona sua ma in ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare, gli conveniva con più alto stile dare nel Convito un poco di gravezza, per la quale paresse di maggiore autorità.[6] Or, senza voler prendere alla lettera il divino autore della Comedia, bisogna pur credere che sì con l’allegorizzare, sì con la copia della dottrina e la sottilità dei ragionamenti, egli si proponesse più di essere alto che chiaro, secreto più che accessibile, autorevole più che persuasivo. Certo restringendo il discorso all’allegoria, facilmente si può vedere che se essa fu da Gesù adoperata nella forma di parabola per fare meglio intendere la sua divina parola, da altri fu usata, o per timore dei potenti al fine di schivare la loro vendetta, o per isfoggio d’arte, al fine di colpire d’ammirazione gli uditori. Nei quali casi, non si persegue dall’allegorizzatore il pregio della chiarezza, per la quale il suo pensiero sia aperto a tutti, ma il vanto dell’ingegnosità, con la quale o celi in parte il vero, sì che a questi sia manifestissimo, a quelli occultissimo, o a tutti lo ricopra, sì che bisogni a tutti affaticarsi per trapassar dentro. Or quando il Poeta ammonisce il lettore di aguzzar ben gli occhi al vero, egli, in certo modo, lo sfida, lo mette alla prova indicandogli un velo sottile attraverso il quale si può vedere da tutti, eppure non è detto che da tutti si veda; se ciò avviene d’un velo ben tanto sottile, che sarà dei velami più fitti e dei versi più strani?