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Esilio e satira in un epigramma di Porcelio de’ Pandoni
ОглавлениеAntonietta Iacono (Napoli)
Negli anni tra il 1455 ed il 1456 Porcelio de’ Pandoni1 progettò di mettere insieme una raccolta di Epigrammata in onore di Francesco Sforza, il principe che s’era mostrato disposto ad accoglierlo presso la sua corte per il tramite di due personaggi di gran prestigio, l’umanista Francesco Filelfo e il primo secretario ducale Cicco Simonetta. La raccolta, che ci è giunta in piú redazioni testualmente e strutturalmente diverse, è a me nota nella forma documentata da tre testimoni allestiti dall’autore stesso o sotto la sua supervisione e rilevanti per valore documentario:
1. Berlin, Staatsbibliothek, Lat. qu. 390=B
membr., sec. XV, 250×170mm, cc. I+52+I; miniature a bianchi girari che interessano esclusivamente le lettere iniziali (cc. 2r, 8r, 17r, 24r, 32r, 37v, 43r, 48r). Sul piatto anteriore nel margine superiore si legge la nota Cl(arissimi) poetæ laureati ab imp(eratore) Federico III. Porcelii Epigrammata sunt hæc anno D(omi)ni 1452 (apud) agrum Brixiensem. A c. 2r compare il titolo della raccolta: Epigrammata Porcelii poe / tæ laureati de summis / imperatoris laudibus Francisci Sfortiæ Mediolanen / sium ducis.2
2. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 708=U
membr., sec. XV, 237×165, cc. I+57+I, miniato in oro e colori; stemma sforzesco, tit. Porcelii poetæ laureati Epigrammata parva incipiunt; a c. 53r: Finit per Porcelium poetam laureatum / anno Domini 1456 seguito da un carme di dedica Illustrissimo Mediolanensium duci Francisco Sfortiæ (inc. Accipe tranquillæ quæ do tibi præmia pacis; expl. vivet et æternum gloria vatis ope).3
3. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 2857=V
cart., sec. XV, 170×240, cc. IV+44+III; fascicolazione irregolare; a c. 44v si legge finit tertius (liber) 1456 dopo un carme, che qui non reca titolo (inc. Accipe tranquillæ quæ do tibi præmia pacis; expl. vivet et æternum gloria vatis ope). Contiene una raccolta di Epigrammata del Pandoni, che mostra una sostanziale convergenza con il contenuto dell’Urb. Lat. 708. La data, 1456, che si legge alla c. 44v, ma anche a c. 1r defilata nel margine superiore destro, concorda con quella recata dal codice Urb. Lat. 708 (c. 53r).4
Il codice berlinese è un manoscritto membranaceo con miniature a bianchi girari che interessano esclusivamente le lettere iniziali (cc. 2r, 8r, 17r, 24r, 32r, 37v, 43r, 48r). Il testo d’impianto è vergato in un’elegante umanistica ricorretta da altra mano identificata come quella del Pandoni. Nella pagina incipitaria (2r) il serto retto da due angeli appena abbozzati (con le sole ali colorate in oro) destinato ad accogliere lo stemma del dedicatario è stato lasciato vuoto: lo stemma mancante nella carta d’apertura svela che la progettata copia di dedica non fu ultimata e che non arrivò mai nelle mani di un destinatario. L’allestimento del codice subí un arresto e da pregevole copia di dedica esso si trasformò in copia di lavoro, nei cui margini e interlinea l’autore operò una fitta serie di correzioni e aggiunte testuali. Alla mia valutazione emerge che nell’originario progetto di allestimento (poi abbandonato) la ricorrenza delle capolettere miniate doveva scandire l’articolazione della raccolta posta dall’autore sotto il nome di Francesco Sforza in otto sezioni, ciascuna aperta da un carme proemiale indirizzato a un illustre destinatario.5 Il codice, per vicende personali del poeta e sotto l’incalzante opera di revisione esercitata sui testi, si trasformò in un contenitore di componimenti pensati e scritti per persone di rango e ambienti cortigiani, componimenti, però, anche soggetti a riutilizzi e riscritture funzionali agli interessi contingenti dell’autore stesso. La complessa stratificazione dell’opera di composizione e di revisione dei singoli carmi rende difficile la datazione del piano originario d’allestimento del codice, sicché, senza addentrarmi nella questione, mi limito a indicare la data ipotizzata per la sua messa a punto nel 1466, data dopo la quale il codice rimase nello scrittoio del Pandoni destinato a fornire via via testi da modificare per essere attualizzati e acconciati ai nuovi progetti di vita, di pubblico, di studio dell’umanista.6 Il codice berlinese, quindi, per l’operazione di revisione che l’autore effettua sui carmi è portatore d’una silloge strutturalmente instabile, perché soggetta a modifiche testuali mirate al riutilizzo di testi composti anche in tempi lontani.7
Il codice Urb. Lat. 708 si presenta come una copia di dedica, sorvegliata dall’autore stesso, che interviene sul testo dei componimenti con una serie di accurate aggiunte, piccoli aggiustamenti e correzioni. Esso presenta, sí, molti punti di contatto col codice berlinese, ma ha una storia profondamente diversa. La nota anno Domini 1456 recata alla c. 53r lo colloca alla corte sforzesca, e il carme-epigrafe che si legge alle cc. 53r–v (lo stesso che si ritrova a c. 44v di V) pone la silloge di Epigrammata sotto il nome del duca e ne ribadisce il carattere di dono destinato all’illustre destinatario:
Accipe tranquillæ quæ do tibi præmia pacis,
Ausoniæ o sydus spesque decusque lyræ.
Incipiam posthac, o nostro tempore Cæsar,
Prælia et Anguigeri bella severa ducis
Sfortigenasque acies et partos marte triumphos
Sanguineo et vera gloria quanta tibi.
Sic, dux et princeps, totum volitabis in orbem
Vivet et æternum gloria vatis ope.
In definitiva, quest’elegante libello dalla struttura coerente e monografica fino a c. 538 è il risultato dell’attività d’un poeta pienamente assorbito dall’ambiente milanese, da storie personali di speranza, di ricerca di mecenati, d’amicizie e, al solito, anche d’irriducibili ostilità.
Il codice Vat. Lat. 2857 contiene una raccolta di Epigrammata che sembrerebbe scandita in tre libri, se si accolgono i suggerimenti delle notazioni (che a me sembrano autografe) che si leggono a c. 15v: finit primus liber; a c. 16r nel margine superiore: 2us lib(er) incipit; a c. 28v: liber tertius incipit; e a c. 44v: tertius <liber> finit. Denso di correzioni, espunzioni e varianti dovute anch’esse alla mano dell’autore il codice presenta una raccolta di Epigrammata imparentata con quella esibita dall’Urbinate.
A Milano e alla corte degli Sforza il Pandoni dovette approdare nel 14569 e trovare un ambiente accogliente e due protettori – come già ricordato – nel segretario ducale, Cicco Simonetta, e nell’umanista Francesco Filelfo. Anche la permanenza milanese era, però, destinata a durare poco, dal 1456 all’aprile del 1459, e a esser turbata da inimicizie con gli intellettuali dell’entourage sforzesco. Infatti, una serie di carmi ingiuriosi rivolti contro Pier Candido Decembrio documenta l’odio viscerale del Pandoni nei confronti di quell’intellettuale potente e autorevole alla corte milanese, un odio alimentato forse per via indiretta dal Filelfo, notoriamente ostile a quell’umanista.10 E presto dovettero incrinarsi anche i rapporti col Filelfo, che già in una lettera del novembre del 1456 chiedeva al Pandoni di restituirgli quanto gli aveva prestato (non si sa se soldi o roba),11 cui si aggiungono alcuni epigrammi a contenuto osceno e ingiurioso sia di Francesco sia di Gianmario Filelfo volti a suscitare il pubblico ludibrio nei confronti del poeta.12 Quando questi si allontanò da Milano è difficile dire con esattezza, ma dalla lettera di dedica dell’opusculum aureum de Talento datata 1° febbraio del 1459 e indirizzata a Cicco Simonetta si ricava ch’egli si trovava sicuramente ancora a Milano in tale data.13
In tutti e tre i codici la raccolta di epigrammata si apre con lo stesso carme (inc. Ibit ad Insubrum superatis Alpibus urbem UV, Ibit ad Insubrum superatis fluctibus urbem B; expl. Dat Latio leges et favet ingeniis BUV), che in U reca il seguente e piuttosto articolato titolo:
Poeta discedens ab urbe Roma se / confert ad Illustr(issimum) militiæ impera(torem) / F(ranciscum) S(fortiam) ac veniam petens ab ampliss(imo) P(atre) / pr(incipe) Cardinali Columna ostendit in / hac epistula quare urbem Romam et Neapolim pa / triam deserat cum summa laude et gloria / Sforcigenæ imperatoris;
in V il titolo, anch’esso dettagliato e di difficile lettura:
Ad amp(lissimum) p(rincipem) d(ominum) Prosperum cardinalem Columnam de abitu / poetæ ab urbe Roma et a patria Parthenope ut se conf(erat) / Ad ill(ustrissimum) pr(incipem) Fr(anciscum) S(fortiam) Vicecomitem inclytum militiæ imp(eratorem) / et Mediolani ducem ob (…)rum et virtutem et vitæ / claritatem incipit;14
e in B, infine, reca il titolo:
Ad cardinalem / de Columna lege felicter de abitu ab ur / be et patria / Parthenope.
Il carme proemiale si presenta come un addio alla città di Napoli, patria del poeta, e come proposizione di un nuovo progetto di vita, il trasferimento a Milano presso la corte di Francesco Sforza, che viene celebrato per le virtú guerriere e per la giustizia e la pace che regna nei territorî sotto il suo dominio, ed è esaltato come nuovo Augusto portatore d’una novella e tà dell’oro – una celebrazione topica in ambito umanistico, ma di grande impatto ideologico.15 Si apre cosí in forma personale ed esistenziale, ma anche con toni encomiastici, una raccolta di Epigrammata che si presenta nel segno dello Sforza, dal momento che il titolo del codice di Berlino pone in rilievo proprio l’aspetto laudativo e celebrativo della silloge de summis imperatoris laudibus Francisci Sfortiæ Mediolanensium ducis; perché nella carta d’apertura di U campeggiano le iniziali del duca nel segno di un’apostrofe a lui, per l’appunto Francisco Sfortiæ, rivolta perché legga feliciter i versi destinatigli, ed infine nel segno sempre dello Sforza, a cc. 53r–v di U e a c. 44v di V, il carme-epigrafe sigilla la raccolta.
L’epigramma longum presenta una struttura complessa che in termini generali si può riassumere in tre momenti. La prima parte si configura infatti come un’appassionata apostrofe al cardinal Prospero, membro dell’illustre famiglia dei Colonna ch’ebbe un ruolo non secondario nella formazione romana del poeta e che nel corso degli anni Trenta del Quattrocento fu punto di riferimento politico e ideologico importante per l’umanista.16 Questa sezione del carme si presenta anche come un addio alla città di Roma, che il poeta delinea in una descrizione tutta focalizzata sulle tracce della sua antichità e, quindi, fortemente caratterizzata in senso antiquario, secondo una sensibilità specifica del Pandoni. La seconda parte esalta in toni aulici il duca di Milano e la sua corte, una corte dove vivono intellettuali che rinnovano con le loro opere la grande tradizione della classicità legata ai nomi di Cicerone, Sallustio e Virgilio, e dove vive de Mecenate propago Cicco Simonetta, che il Pandoni considera e celebra come suo patrono. In tale sezione egli rinnova la promessa di un canto indirizzato al duca, un canto che concederà al Signore di Milano gloria ed eternità pari a quella degli antichi eroi (vv. 131–144 UV=103–116 B):
Tunc ego Phœbeo lætus modulabor œstro
Et statuam sexto grandius ire pede.
Tunc tibi cantabunt mea numina, Phoebus et alma
Cecropis et Musæ turba vocata novem;
Hic acies, hic bella, duces populosque subactos,
Unde tibi æternum, Sfortia, nomen erit,
In quem pene omnes coniuravere Latini
Et rex et regis miles et arma ducum.
Hic patris imperium et tituli scribemus arma,
Hic genus omne tuum Sforcigenasque deos.
Cantabo armatas convexo umbone phalanges
Et Venetum pulsos in sua regna duces.
O mihi si liceat divo sub principe vitam
Ducere, quas acies, quæ fera signa canam!
La parte finale segna una vera e propria svolta all’interno del componimento: in essa, infatti, il poeta adotta un tono polemico, satirico e invettivo, dichiarando le ragioni che lo hanno costretto ad allontanarsi dalla sua patria, Napoli, di cui traccia un fosco quadro che significativamente capovolge il mito d’una città edenica, luogo quasi di un paradiso in terra e specchio d’una corte magnifica e coesa intorno a un sovrano virtutum omnium viva imago,17 e condanna le mode allogene importate dai príncipi aragonesi in quanto lontanissime dall’austerità del mos maiorum della tradizione napoletana.18
Significative varianti testuali e strutturali concorrono a distinguere le versioni dell’epigramma tràdite dai testimoni a me noti, dal momento che B reca una redazione brevior di 176 versi, e UV recano una redazione longior sostanzialmente convergente di 204 versi. Le divergenze redazionali macroscopiche si possono cogliere nel quadro sinottico che fornisco di séguito:
UV 1–76 77–86 87–88 con differenze testuali 89-90 91–94 con differenze testuali 95–98 99–110 111–120 121–122 123–126 127–128 129–204 | → → → → → → → → | B 1–76 mancanti 77–78 mancanti 79–82 83–86 mancanti 87–96 mancanti 97–100 mancanti 101–176 |
Senza addentrarmi in una valutazione strettamente filologica delle varianti strutturali e testuali mi limito qui a rilevare che i versi mancanti nella versione brevior sono generalmente rivolti alla celebrazione e all’encomio del duca e dell’entourage sforzesco, e che la porzione iniziale con l’apostrofe al cardinal Prospero Colonna e l’addio a Roma, agli amici e alla famiglia (vv. 1–60 UVB), come la porzione finale in cui il poeta spiega le ragioni del proprio allontamento da Napoli (vv. 173–204 UV=145–176 B), sono testualmente e strutturalmente convergenti nei tre testimoni.
Il legame insieme con Napoli e con Roma spiega il congedo doppio escogitato dal poeta, rivolto dapprima in toni accorati e malinconi nella parte iniziale a Roma, alla sua famiglia e agli amici d’ambiente romano, e poi con toni invettivi nella parte finale a Napoli, sua patria d’origine. In piú luoghi della propria poesia, infatti, il Pandoni chiamò Napoli esplicitamente come sua patria, non mancando però di rimarcare il proprio legame con Roma, dove trascorse una parte importante della vita e, certamente, gli anni della formazione.19 Cosí, in un autoepitaffio il Pandoni si celebra come poeta che canta laudes vatumque ducumque e ricorda Parthenope come sua patria, dichiarando d’appartenere alla casata dei Pandoni e citando lo stesso suo legame con Roma:
Qui cecini egregias laudes vatumque ducumque
condor in hoc tumulo carmine perpetuo:
Porcelius nomen, Pandonus sanguine. Romam
incolui egregiam, patria Parthenope.
Hic sita sit coniux dignissima vate marito
hic soboles quanta est; hic sua posteritas.20
In un altro epigramma, poi, il poeta confermava che la dolce Parthenope lo aveva generato dalla stirpe dei Pandoni, non senza confessarvi, ai vv. 3–6, probabilmente in risposta a chi lo credeva veramente nato a Roma,21 di non essere romano per nascita e di non potersi, perciò, dire discendente di Enea:
Non sum, confiteor, Romana natus in urbe
nec pater Æneas sanguinis auctor erit;
sed me Pandonio peperit de sanguine dulcis
Parthenope, patrio virgo sepulta solo.22
Dedicato al cardinal Prospero Colonna,23 per lunghezza, contenuti e varietà d’intonazione l’epigramma proemiale esibisce una caratteristica Gattungsmischung: l’autobiografia nel solco della poesia esilica di Ovidio, la satira moraleggiante d’intonazione patetica derivata da Giovenale, l’ekphrasis erudita alimentata da interessi antiquarî specifici e attualmente oggetto di particolare attenzione da parte degli studiosi dell’umanista.24 Il poeta motiva (nei versi 173–196 UV=145–168 B) la propria partenza da Napoli lasciando intendere d’aver preso una decisione non facile, costretto da nemici che gli avevan reso la vita impossibile nella corte napoletana nonché dall’imbarbarimento suscitato dai costumi importati da príncipi stranieri, estranei all’austero mos maiorum della nobiltà napoletana; e annuncia, inoltre, il progetto di trasferirsi presso la corte del duca Sforza (vv. 1–10 UVB):
Ibit ad Insubrum superatis fluctibus urbem,
Ibit ad Anguigerum Musa beata ducem.
Nec sine te tumeant pictæ data vela carinæ,
o decus, o sacræ relligionis honor.25
Non tamen incipiam divina a prole tuorum
Nec quantum volites docta per ora virum:
Ad mea si quando spirabunt carmina Musæ,
cantabo generis nomen et arma tui.
Namque ubi Phœbeo fuerim percussus œstro,
Gaudebit tanti nominis auctor avus.
Nel congedarsi dal cardinal Colonna, membro della famiglia illustre e potente cui s’era legato sin dagli anni della formazione romana,26 il poeta saluta Roma, sua seconda patria, descritta passo passo in una mappa di antiquitates connotanti la città, care insieme a lui e al destinatario del carme (vv. 15–30 UVB):27
Destituo septem collis urbemque Quirinam
Et qui Tarpeia summus ab arce tonas;
Destituo delubra deum et laquearia tecti
Ærea et æratas per loca sacra fores;
Destituo insignes arcus mirasque figuras
Et conscriptorum marmora viva patrum,
Quin et cælatas mira novitate columnas,
in quibus Augusti Cæsaris ossa cubant;
Destituo celebris spectacula vana theatri
quin etiam veterum monumenta virum,
et vos, o Phidiæ divi opus aut Polycleti,
marmora Salmatica [sic!] candidiora nive.
Destituo Charites Pario de marmore nudas,
par quibus est ætas, par quoque forma quibus;
destituo tandem pompas clarosque triumphos
et vetus imperium cæsareosque deos.
Ci troviamo qui dinanzi a una vera e propria mappa di Roma che parte dall’ovvia celebrazione dei sette colli e del mito di fondazione della città stessa, e si snoda in un itinerario che illustra monumenti mirabili e connotanti il panorama dell’antica capitale, ma rende anche omaggio al cardinal Colonna, ai suoi interessi di collezionista e antiquario, alla storia della sua casata.28 Nell’ordine il poeta cita infatti anzitutto il tempio di Giove Capitolino (v. 16 UVB) attraverso l’apostrofe diretta al dio che tuona dall’alto della rocca Tarpea,29 e poi il piú importante luogo della città santa, la basilica di San Pietro, evocata attraverso preziose e allusive perifrasi nel distico 17–18 (destituo delubra deum et laquearia tecti / ærea et æratas per loca sacra fores, UVB).30 La visuale piú generale del distico successivo, 19–20 UVB, che apre uno squarcio sul panorama delle rovine della città attraverso le ovvie citazioni d’archi, statue e ritratti degli eroi della storia antica, inclina poi di nuovo nel distico successivo (vv. 21–22 UVB) al riferimento puntuale e dettagliato, attraverso la rievocazione della colonna di Traiano (Quin et celatas mira novitate columnas, / in quibus Augusti Cæsaris ossa cubant), resa ben identificabile dall’artificio della decorazione e dalla notizia che le ossa d’un imperatore vi riposano nel basamento.31 La citazione della colonna Traiana, ben inserita nel panorama d’antiquitates romane, è anche un omaggio al dedicatario, il cardinal Colonna, e alla sua potente famiglia, che secondo una tradizione proprio da quella colonna aveva tratto il nome, dal momento che la dimora storica della famiglia Colonna era situata sul Quirinale, in prossimità proprio dell’antico monumento.32 Emerge una peculiare tensione celebrativa, esplicita nei vv. 7–8 UVB nei quali il poeta promette per l’appunto un’opera in cui, se opportunamente ispirato dalle muse, canterà generis nomen et arma del cardinal Colonna. Nei due distici successivi (vv. 23–26 UVB) egli menziona ancora in termini allusivi un teatro famoso che senza troppi problemi può esser identificato nell’anfiteatro Flavio, e una scultura di marmo attribuibile a Fidia o a Policleto, di piú problematico riconoscimento.33 Nel distico successivo (vv. 27–28 UVB) l’autore dice addio anche a un monumento rappresentante le Cariti scolpite nude nel marmo pario, e ancora (vv. 29–30) alla storia stessa di Roma, ai suoi trionfi, all’antico potere e agli dèi protettori dei Cesari. Anche questo passo cela un’allusione celebrativa alla famiglia Colonna, e nello specifico al cardinal Prospero che, appassionato archeologo, nel palazzo romano di famiglia sul Quirinale, la cosiddetta Loggia dei Colonnesi,34 esponeva già alla metà del Quattrocento un’antica scultura raffigurante le Cariti rinvenuta nel giardino del palazzo stesso o forse in un sito archeologico sui colli Albani posseduto dalla famiglia.35
La porzione successiva inclina a toni piú drammatici e sentimentali, e apre in maniera inattesa uno spaccato della vita familiare del poeta, che nelle tristi circostanze dell’addio evoca le figliolette e la devota e schiva moglie (vv. 31–36 UVB):
Præterea dulces, patris pia pignora, natos
Desero et uxoris ora pudica meæ
Bisque duæ flebunt, me discedente, puellæ,
quarumque maior nunc patris orat opem.
Ut cito labenti succrescunt gramina rivo,
sic adolet nostra virgo quaterna domo.
La scena (segnata dall’unica similitudine che si registra nel carme) apre uno spiraglio sulla poco nota dimensione intima e domestica del Pandoni: le quattro figlie (quattro appunto, come si ricava anche da altri carmi, cui va aggiunto il figlio maschio Laurentius o Laurus, come il poeta alternativamente lo chiama)36 sono presentate dal poeta in lacrime, mentre la maggiore di esse reclama giustamente il conforto e la presenza del padre. La similitudine, che accosta le figlie all’erba che cresce veloce lungo il corso d’un ruscello, riconcinna con abilità il ricordo d’Ovidio, Amores 2, 16, 9–10 (versi non a caso autobiografici che rievocano Sulmona fertile di biade e di viti, ricca d’erbe sempre rinascenti per lo scorrere di ruscelli), e in realtà l’intero passo è tramato di tessere classiche che mostrano di prediligere Ovidio (cfr., per esempio, gramina rivo e Ov., Met. 9, 656; patris pia pignora natos e Ov., Fast. 3, 775: patres sua pignora natos), un auctor ben presente al Pandoni, anche nella sua produzione piú ardua, rappresentata per esempio dai Fasti di cui il poeta reclamava copie agli amici corrispondenti.37 Ovidio vi risulta un modello di calzante ispirazione soprattutto nei passi in cui piú incisiva risulta la topica dell’addio, della lontananza, del congedo disperato: la specifica movenza dell’addio alla moglie e alle figlie risulta infatti, a mio avviso, ispirata da reminiscenze ovidiane, che restano sullo sfondo come apporti tematici (per esempio, Ov. Trist. 3, 3, 18; o 3, 4, 59 per il riferimento alla moglie), ma forniscono anche piú decisivi apporti (per esempio, Trist. 1, 3, 17 per l’addio alla moglie).38
All’addio alla moglie e alle figlie39 segue il congedo dalla cerchia degli amici romani, che mostra quanto il Pandoni fosse inserito nei circoli culturali della città, e in particolare negli ambienti della curia pontificia (vv. 37–62 UVB):
Quinetiam linquo tristes abiturus amicos,
de quorum multis Cambius unus erat.
Mirantur patres abitus interque loquuntur
Deque patrum sermo plurimus ore cadit.
Nemo tamen potuit tacitam cognoscere mentem,
Nemo meæ potuit certior esse viæ.
Consilium solus nosti et mea pectora solus,
Melchior, o phidibus altera Musa meis.
Me quamvis Tybris, me quamvis Martius ultro
Sæpe vocet Campus et vocet urbis amor,
Etsi nulla meam succendit gloria mentem,
Ibit ad Anguigerum Musa vocata ducem.
Iam tandem ad vates deflexit lumina divus
Cæsar: adeste novem numina magna deæ!
Imperat Augustus vivitque hoc tempore Cæsar:
Surge, age, Musa, redi; surge, age, vive, Maro.
Inde mihi venient animo vigilata sereno
Carmina fatidico, carmina digna deo.
Hic tuus, hic vates dicar, dignissima coniunx,
Ne careas titulo nominis ipsa mei.
Cessabunt luctus, suspiria nulla subibunt,
Nulla tuas tinget roscida gutta genas.
Hic stringunt lachrymas trepidæ, mea cura, puellæ,
Nullaque de patris omine tristis erit.
Accedo miræ laudis succensus amore
Me trahit Anguigeri gloria summa ducis.
Laddove di difficile identificazione risulta il Cambius pur citato con particolare enfasi, il Melchior del v. 44 (UVB) potrebbe invece esser facilmente identificato in Melchiorre Bandini da Camerino, cavaliere del Sacro ordine gerosolimitano, segretario e visitatore per l’Ordine in Francia nel 1446, presidente e procuratore generale nella curia di Roma sotto Paolo II, nel 1451 sicuramente legato di Niccolò V, e amico carissimo del poeta che in piú luoghi dell’opera ne tesse le lodi.40 A quei passi che aprono uno spiraglio sulla dimensione piú intima e affettiva del poeta, l’orditura poetica affianca poi versi d’atmosfera cortigiana, una dimensione cui il Pandoni sintonizzò la sua vita, la sua poesia, la sua attività culturale. L’arrivo alla corte di Milano è immaginato da lui come l’approdo agognato che metterà fine alle sue miserie e alla disperazione della moglie e delle figlie (55–58 UVB):
Hic tuus, hic vates dicar, dignissima coniunx,
ne careas titulo nominis ipsa mei.
Cessabunt luctus, suspiria nulla subibunt,
nulla tua tinget roscida gutta genas.
L’ultima sezione del carme è animata da una ispirazione drammatica, fortemente invettiva e satirica, che si traduce anche in una strenua orditura retorica e in forti coloriture che rimandano al modello della satira di Giovenale. Un modello che, di contro al canone satirico classico che dichiarava sempre gli archetipi, non è mai esplicitamente citato dal poeta, ma emerge nell’intensa, violenta e sofferta intonazione. Il contesto improprio in cui è calata l’ispirazione invettiva ci mette dinanzi a uno dei tanti risultati della contaminazione di generi e forme cui gli umanisti amarono sottoporre la lezione dei classici, riattualizzandola e rifunzionalizzandola.41 E d’altra parte il Pandoni non era nuovo al genere satirico, dal momento che nel codice Conv. Soppr. J IX 10 (240) della Biblioteca Nazionale Centrale fiorentina, una delle piú complete raccolte dell’opera in versi del Pandoni, si legge alle cc. 44r–55r un lungo e complesso componimento (tuttora inedito) che reca sin dal titolo la definizione di Satyra (inc. Mene tibi facilem quondam caput orbis et una; expl. casta cupidine penetrarant tela sagictæ). A Giovenale riconduce senz’altro la tragica pittura della dilagante corruzione sociale che imbarbarisce Napoli (173–176 UV→145–148 B):
Nam mea Parthenope iam facta est barbara: mores,
Lingua habitusque virum barbariem redolet.
Non possum mores patriæ sufferre vetustæ,
Non possum Crassos Tantalidesque pati.
Da un lato, la satira III di Giovenale – con il suo complesso quadro di Roma come città in cui non c’è piú luogo per lavori onesti; anzi, in cui chi è onesto non può piú vivere42 – offre una trama su cui poggiare la denuncia del decadimento di Napoli; dall’altro, la prima satira dello stesso Giovenale, soprattutto nei vv. 87–117, fornisce l’apporto retorico dell’indignatio. L’uso del modello classico non è un mero ricalco, ma è come incanalato a rappresentare, in un’intensa attualizzazione, comportamenti e atteggiamenti (177–188 UV→149–160 B):
Hic nullus rerum pudor aut reverentia divii
Nullaque servatur gratia, nulla fides.
Strangulat hic omnes funesta pecunia, vincit
Bella Venus, vincit et Ganymedis amor.
Es leno impurus, placet alea, fallis amicos,
Es tandem dignus fulmine? Divus eris!
Quid refert viris tanto indulgere labori
Quidve bonas artes edidicisse iuvat?
Non est virtuti quisquam locus, usquam triumphat
Sanguinis atra sitis et comes invidia.
Corrupti mores, corrupta tempora magni
Principis in patriam qui tulit arma meam.
La matrice giovenaliana è svelata nella contaminazione dei versi 12–13 della decima satira: «sed pluris nimia congesta pecunia cura / strangulat et cuncta exuperans patrimonia census», che dà vita al verso sentenzioso Strangulat hic omnes funesta pecunia (v. 179 UV→151 B). Il recupero della preziosa tessera giovenaliana definisce il contesto poetico in cui l’autore intende muoversi nel costruire il complesso epilogo del carme: l’appoggio alla satira retorica di Giovenale legittima a un tempo l’orditura retorica dei versi e il temperamento incline al patethikon, in cui s’incunea anche la reale esperienza esistenziale dell’uomo e del poeta. L’alta moralità di cui il poeta si fa rappresentante e che lo costringe ad allontanarsi da una patria pure amata, onorata ed esibita come cifra d’identità e d’appartenenza vi spiega l’assoluto predominio della feroce denuncia moralistica, della decadenza del costume e della politica a Napoli e alla corte dei sovrani aragonesi. Il lusso d’oltremare importato dalla corte aragonese, la magnificentia esaltata dagli umanisti come la cifra connotante il regno di Alfonso, sono proposti in una luce negativa e considerati come la causa del disfacimento e della decadenza morale della città, dove non c’è piú posto per la virtú e su tutto trionfa la sete di sangue e l’invidia sua compagna, sanguinis atra sitis et comes invidia.43 Il riferimento a mores, lingua habitusque virum che puzzano di barbarie ha una sua pregnanza: si appunta infatti sugli specifici cambiamenti che investirono la società napoletana con l’entrata d’un sovrano straniero (e barbaro) che portava con sé i suoi funzionari da una terra lontana, innestando Napoli e il regno all’interno del sistema politico e amministrativo della corona d’Aragona.44Il Pandoni si appropria di motivi precisi della propaganda filo-aragonese e li rilegge in una prospettiva satirica e negativa alla luce del tipico moralismo suntuario che condannava le innovazioni di comportamenti sociali come mode cortigiane e ne identificava, cosí, la paternità nei costumi d’una corte allogena, estranea al mos maiorum napoletano. Ci troviamo, dunque, dinanzi a una vera e propria palinodia con doppia partitura, politica e moralistica, che pare voler rinnegare un decennio e piú di lodi e celebrazioni per Alfonso composte dal poeta, a partire dal Triumphus Alfonsi regis, il poemetto con cui l’umanista si presentò al Magnanimo ottenendone il favore.45 Un passo del secondo canto proprio del Triumphus ci offre un significativo termine di paragone per tale palinodia (vv. 94–120):
Sed tua Parthenope regum certissima sedes
Quæ tibi Romanos dederit servata triumphos,
Hanc cecinit regis memorandam in sæcula laudem:
‹Rex, decus Hesperiæ, genus alto e sanguine regum
Innumeros populos et regna ingentia centum
Qui subigis, proavos imitatus et alta parentum
Nomina, quo incolumi nullum sperare timorem
Possumus, o Siculi, spes tandem et gloria, salve.
Salve iterum dive Cæsar, salve omnibus une,
Une tamen dilecte Deis. Tibi sidera et auster
Militet æthereus, tua Mars tibi vota secundet,
Fortunetque armatus iter seu lætus ad Indos,
Ad Thetidis seu pergis aquas gelidosque Triones,
Seu Libyem irrigui terres trepida ostia Nili,
ut tua Cæsareis veneremur gesta triumphis.
Te mage nemo pius, bello nec clarior; adde
Iustitiam sanctamque fidem et moderamina rerum.
Dicam equidem in medium felicia tempora, dicam
Felicem hanc patriam et qui te sub Cæsare vivunt.
Te duce, parta quies populis, te pacis amatæ
Auctoremque ferunt; duce te, virtusque pudorque
Iam subeunt; periere simul scelus omne nefasque
Et scelerum damnata fides, periere tyramni,
Et, duce te, fulvi redierunt sæcla metalli.
Tu pacis fundator ades, nisi numina fallant,
Læta vetus veteres faciet tibi Roma triumphos
Altaque Cæsareas statuent Capitolia pompas›.46
Il poeta vi poneva sulla scena la città di Napoli che, personificata, prendeva la parola per rivolgere al vincitore Alfonso una lunga e accorata apostrofe celebrativa all’interno del trionfo allestito per il re conquistatore. I vv. 96–120 del Triumphus celebravano infatti Alfonso non solo quale re di stirpe essa stessa regale e guerriero vittorioso, ma anche quale pacis fundator, secondo uno dei motivi piú fortunati del mito del Magnanimo, quello del re pacificatore e garante di pace.47 L’iconografia alfonsina acquisí a tal punto il motivo che nelle medaglie coniate dal Pisanello il ritratto d’Alfonso è accompagnato dall’epigrafe Triumphator et pacificus; nelle iscrizioni dell’arco di trionfo Alfonso volle che fosse posta l’epigrafe «Alphonsus rex Hispanus, Siculus, Italicus, pius, clemens, invictus»; e nella pagina iniziale splendidamente miniata del codice 831 della fiorentina Biblioteca Riccardiana contenente i Gesta di Bartolomeo Facio, campeggia affianco alla figura di un guerriero su un cavallo bardato di rosso la scritta «Alfonsus rex pacis».48 All’esaltazione del valore guerriero del Magnanimo il poeta fa seguire nel Triumphus – ancora per bocca di Parthenope – il catalogo delle virtú di pietas, iustitia, fides, temperantia che il re incarna, annunciando poi i tempi nuovi che la città s’accingeva a vivere sotto la guida del re e della sua dinastia come novella e tà dell’oro (v. 116: Et duce te fulvi redierunt sæcla metalli), un’epoca di pace, priva di scelleratezze e di tirannie, secondo un topos particolarmente caro alla storiografia dinastica aragonese.49
Di contro al preludio celebrativo contenuto nell’antico poemetto composto un decennio prima, tra il ’43 e il ’44, in questo componimento il poeta individua nello sfarzo della corte alfonsina l’esca della dissolutezza che aveva travolto senza limiti la città, in piena sintonia con la letteratura non allineata (188–196 UV→161–168 B):
Emicat Astræi pennata per æthera virgo
Virgoque virginibus it comitata tribus.
Hei mihi, nulla sacris dantur sua dona poetis,
Virtutum nulla præmia, nullus honos.
Unus adulator socium ducit agmina et aures
Principibus hic solus datque adimitque sacri.
Non sic cognomen Tarquinum odere Quirites,
nomen ut exorret nescia turna meum.
Rispetto al mito della Napoli alfonsina il capovolgimento è perfetto: alla città sede di scuole d’antica tradizione sapienziale, alla capitale d’un regno governato da un principe che incarna un ben definito sistema di virtú sociali e politiche comprendente la clementia, la pietas e la iustitia, a quel locus d’edenica bellezza,50 il poeta oppone un luogo di disfacimento morale abbandonato dalla giustizia significata dalla dea Astrea, da ogni senso di religiosità e di rispetto significato dalle tre dee che formano il corteggio di Astrea, ovvero Fede, Speranza e Carità; insomma un luogo dove non c’è piú spazio per lo ius, per le arti liberali e, soprattutto, per la poesia. Al mito dell’età alfonsina come novella e tà dell’oro, come tempo di rinnovamento e di pace, il Pandoni contrappone un’attualità fatta da corrupti mores nei corrupta tempora d’un principe che ha osato volgere le armi contro la sua patria. E la contrapposizione, tutta giocata su di una precisa identità morale della città rinnegata e decaduta, trova nella figura d’Alfonso il suo fulcro, sicché al sovrano di cui la letteratura di corte vantava la provenienza spagnola, da una terra che aveva partorito a Roma una schiera d’illustri imperatori (di cui il Magnanimo sarebbe stato l’ultimo e piú eccelso rappresentante),51 il Pandoni oppone un principe straniero, sí, ma anche barbaro, che con i suoi costumi ha contaminato un’intera città;52 al sovrano connotato da una purezza quasi monacale dei costumi,53 il Pandoni contrappone il monarca d’una città dissoluta e in preda a devianti brame sessuali;54 al sovrano che si vuole l’incarnazione perfetta di un sistema di virtú comprendente fortitudo, clementia, iustitia e gravitas, protettore di artisti e poeti, giusta il mito costruito da Bartolomeo Facio nei Commentarii e da Antonio Panormita in quell’opera singolare e sfuggente che fu il De dictis et factis Alfonsi regis,55 il Pandoni sostituisce qui la figura di un principe aggressore (v. 188 UV→160 B: in patriam qui tulit arma meam), ma debole, in quanto assoggettato alla volontà di un adulatore che ne disserra e richiude a proprio piacimento le orecchie. La citazione dell’adulatore, poi, non è solo mera rievocazione letteraria della adulandi gens prudentissima di Giovenale 3, 86, ma anche rappresentazione icastica della realtà subita dall’umanista: l’adulatore subdolo la cui figura vien posta all’apice del fosco quadro di dissolutezza che coinvolge insieme corte e città va infatti identificato in Antonio Panormita, influente consigliere del Magnanimo e nemico giurato del Pandoni:56 l’incompatibilità tra i due che, determinata da radicali differenze di carattere, di gusti poetici, di schieramenti ‹politici›,57 si fa risalire persino al 1432–33, seppur intervallata da periodi d’apparente non belligeranza rese sempre tumultuose le loro relazioni.58
Il disperato sfogo autobiografico si condensa poi in una nota sentenziosa di sapore liviano (cfr. Liv. 2, 2, 3), in cui il poeta dichiara che ormai a Napoli il suo nome è odiato piú di quanto fosse quello dei Tarquinii a Roma. Il doloroso addio a Napoli s’acquieta allora solo nella speranza d’esser accolto alla corte sforzesca e nella promessa finale di un canto (tipica prassi del Pandoni) che avrà a oggetto i fortia facta del duca (vv. 197–204 UV→169–176 B):
Ergo vale, o præsul, divina e prole Columnæ,
solus honestatis splendor honorque lyræ.
Et vos, o nati, vos, coniugis ora pudicæ,
Turba puellarum, quæ mea corda premis.
Nam mea Sforcigenam plenis petet aurea velis
Musa ducem, cuius fortia facta canam.
Hic pacem bellumque gerit sub fortibus armis:
Dat Latio leges et favet ingeniis.
Ma anche quei versi che modellano il ritratto dello Sforza su quello di condottieri e sapienti politici dell’Antichità (Hic pacem bellumque gerit sub fortibus armis: / dat Laio leges et favet ingeniis) è una palinodia di versi antichi in cui il poeta s’era scatenato contro lo Sforza dipingendolo come un tiranno perverso e ingiusto59 – contraddizione, questa, concessa dalla pragmatica etica adottata da un intellettuale alla ricerca di mecenati, di stipendî e di privilegi.