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VI.

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— Ich habe die Here... — Costui che mi saluta alla scala della sua nave, con un inchino composto di tre oscillazioni sulle reni, una breve sull'«ich», un'altra breve sull'«habe» ed una lunga sull'«Here», tenendo ferma la mano destra lungo la tempia, mi ricorda quei musi di vitelli bolliti, che dalle vetrine di alcune trattorie popolari romanesche fissano l'uomo con un glauco disdegno discendente, coronato d'alloro.

È roseo, paffuto, implume e orecchiuto; alto, tarchiato, mal vestito e legnoso; e ride come se un capitano di vascello, annidato dentro di lui, gliene desse di quando in quando l'ordine.

Un suo collega accorre: un altro, un altro ancora, percorrendo il ponte di coperta con un passo che richiama alla mente la mazzuola del calafato. E mi circonda la cortesia teutonica, espressa in cinque o sei tempi, così come prescrive qualche suo codice segreto.

Andiamo: una colazione di «comandata» mi aspetta e m'è necessario un preventivo contatto con costoro, per non sentir poi una dissonanza troppo acuta: giacchè è proprio a tavola che si accentua il contrasto delle razze e di tante altre cose.

Ma nell'avviarci verso poppa, rasentiamo un casotto dall'ampie vetriate con tendine di seta bianca accuratamente chiuse come sui tabernacoli. — L'alloggio del Kaiser... — mi si dice. E mi si dice con una voce fatta quasi afona dalla reverenza; e mentre mi si invita ad entrare, espressioni ed atteggiamenti raggiungono quel massimo di umiltà grave che soltanto il sacerdote raggiunge, quando nel sacrifizio divino si proclama indegno dell'ostia consacrata. Io non so se lo sguardo più che tranquillo dei miei occhi latini che racchiudono un'eredità secolare di cose grandiose e di viste trionfali, e che ora si soffermano appena su un tavolo enorme, sormontato come da un casellario ripieno di biglietti di ordini, intestati con la ruvida corona imperiale e trascorrono poi su una comunissima poltrona da circolo, e si trattengono anche meno su alcune fotografie di paesaggi nordici, incorniciate da carta dorata, sia stato interpretato come evidente manifestazione di una irriverenza ingenita nella mia razza.

Forse...: e devo esser illuminato...

— Da questo telefono — mi ammonisce un ufficiale dalle orecchie larghe e mobili da antropoide, indicando un apparecchio telefonico posato sul tavolo e certamente già connesso alla rete della città, — dipendono le sorti dell'Europa...

Nientemeno! E perchè no del mondo? La superbia non ha mai limite, come non ne ha la scempiaggine di chi nel 1914 può credere a simili facezie e ripeterle a un ospite con un tatto così squisito. Sono dunque in potere di questo filo propagatore di chi sa quali volontà.

O cara chiesa della Salute, nelle cui volute barocche carezzate dal tempo e dal vento marino i colombi in amore s'annidano, rispondi tu per me a questi rozzi millantatori che son venuti a legare la loro nave ai tuoi piedi, così come un mastino ad un altare prezioso! Costringili tu ad elevare per una volta lo sguardo ed a fissarti nella maestà delle tue cupole: tenta di instillare nei loro crani brachicefali un po' della nostra signorilità di pensiero, per la quale nessuna «kultur» può trovar sostituti!...

— Tanto noi siamo alleati! — sorride in tre tempi l'ufficiale, mentre i lobi delle sue orecchie sussultano tre volte.

Già: siamo alleati; è bene ravvivare alquanto alcuni ricordi sbiaditi. Tanto alleati, che nel discendere la scaletta del boccaporto che conduce nel Quadrato Ufficiali, tre o quattro manate confidenziali sulle spalle aggiungono al mio passo un impulso inaspettato.

Ecco: siamo in Germania. La Germania di sette o otto Von allineati, impettiti, muti, avanti ad una tavola sovraccarica di bicchieri e di vivande già pronte; la Germania dei cristalli policromi, dei lampadari dai fiori metallici contorti, delle piroincisioni, delle fotografie malamente colorate: la Germania della complicazione, della pesantezza, del cattivo gusto in ogni cosa.

Io stono qua: lo sento: lo vedo; il mio spirito italiano osserva, analizza, critica troppo, e se un sorriso tenta velare un po' questo mio sentimento, m'avveggo bene che esso sprizza da ogni gesto, da ogni inflessione di voce, irrefrenabile come lo sviluppo di un germoglio, sfuggente alla volontà come il pulsare del sangue: mio, mio nell'essenza, nella genitura, nell'eredità, alimentato da aria italica e dai prodotti della mia terra fatta di polvere di veri dominatori.

E vedo la marionetta di me stesso rimanere in piedi ad ascoltare una specie di saluto al Kaiser che il Comandante lancia con un tono fatto di predica, di cattedra e di comando; poi la vedo levare un bicchiere all'altezza precisa alla quale tutti i «Von» lo elevano, ingurgitare di colpo del vino del Reno, e picchiar forte il calice vuoto sul tavolo, con un rumore simultaneo e secco che ripete l'urto sulla terra del calcio dei fucili d'un plotone, al comando «pied'arm!».

La vedo osservare il morso avido, accompagnato dall'apertura animalesca degli occhi, dalla scossa del capo, dal succhio delle labbra, nel silenzio tutto teutonico della nutrizione. — Ahi! Quanti interminabili piatti sfilano, quanti sermoni ascoltati in piedi, irrorati di nuovo, e chiusi dal colpo unico dei bicchieri sul tavolo! Su, giù: su, giù: a tempo, con scuola, con metodo; e gli occhi brillano, e l'alleanza si stringe e le cordialità manesche sulle spalle si moltiplicano, mentre il discorso scivola, scivola verso una buca finale che la mia marionetta sa già quale sarà. Essa sa già che questo suo vicino di dritta, il cui sorriso s'accentua e diviene quasi fisso, domanderà tra poco: — ... E come passate voi la sera qui?... — preludio di altre domande che l'alleanza sa formulare in tutti i paesi del mondo traendole dal catalogo del libertinaggio marittimo, nelle sue ultime linee.

Ci siamo. No, per Bacco! Il «se lei viene da noi a Wilhelmshafen o a Elbing... le faremo vedere...» non è reciprocità che lontanamente lusinghi la mia marionetta che quasi di colpo sparisce per ridarmi il mio posto. No: e un mio sorriso perfettamente idiota ferma — Ach! — e poi storna le questioni, mentre l'io s'ecclissa davanti al suo sostituto che ritorna subito.

Finito? No. V'è ancora da brindare levandoci di nuovo, inchinandoci tutti verso il centro della tavola, in maniera che le nostre teste si tocchino, come si toccano i bicchieri. Formiamo così una capanna conica di corpi ben stretti, assolutamente seri, ben fissi nell'atteggiamento di scambiarci una parola d'ordine che è invece una chiacchierata declamatoria nella quale entra un po' di tutto. E il rito è celebrato. Vorrei conoscere quale sia il nesso che spinge l'uomo a ingurgitare del liquido sulle cose che egli dice, quando le ritiene solenni e impegnative per la sua fede. Ora, per esempio, con tre o quattro sorsi di extra-dry ci siamo assicurati una quantità di cose che nessuno infrangerà. È inutile: la storia beve; ha sempre bevuto troppo, tanto che spesso oscilla e non la si comprende più...

················

Scendo nel motoscafo col netto senso di rientrare in Italia. — È mia quest'acqua che rispecchia le snelle linee dei marmorei palazzi creati dalla mia razza; mia quest'ampiezza rosata di spazio, dove si librò sovrano il pensiero dei miei padri per dar fremito al mondo. Canta gondoliere! La tua canzone la so! Va, caro scialletto, va per la calle dondolando sugli agili fianchi: fa risuonare dei tuoi zoccoletti il lastricato liscio da dove i colombi tranquilli non fuggono. Figure, linee, suoni, tutto è per me e per il mio sangue. E mentre il motoscafo rasenta le rive da dove le galeazze lionate salpavano cariche di forza e di saggezza a portare sui mari il fulgore del nostro spirito, le campane di San Marco suonano, sciama compatto dalla Piazzetta un turbine di colombi che il colonnato del Palazzo dei Dogi respinge e dissolve, e mi pare che tutta l'aria vibri per un grande inno italiano terminato da un immenso, immateriale bacio a questo paradiso italiano.

Mar sanguigno (Offerta al nostro buon vecchio Dio)

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