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5. Lina e il "Lotòs".

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Nella minuscola stanzina che mi fu assegnata, ricevetti la visita di una vecchia e di una giovine.

Sedettero. La giovine sorrise: anzi, schiuse la bocca a un sorriso e poi si tenne quel sorriso fisso lì e immoto, durante tutto il tempo che la vecchia parlò. E le prime parole della vecchia furono le seguenti:

— Questa è mia figlia, e io sono sua madre. Suo padre, mio marito, non è più.

— Benissimo.

— Sì, ha ragione di dire benissimo. Perchè mio marito, suo padre, era un uomo di scarsi principii morali; quand'era vivo, me mi batteva tutti i giorni, e lei tentò alcune volte di violentarla, che era ancora minorenne.

— Perdio!

— Lasciamo andare che questa alla fine è stata una fortuna per me, perchè non ho più avuto da pensare alla sua educazione morale. Sicuro. Dopo quegli incidenti le è rimasta, anche diventata maggiorenne, una invincibile ripugnanza per gli uomini, dimodochè non ho avuto da fare nessuna fatica per mantenerla, lei mi intende, sulla retta via.

— Tutto ciò è molto semplice.

— Già: ma nello stesso tempo ciò produce che la ragazza, che ormai ha ventiquattro anni, deve lavorare per vivere. Allora ho domandato consiglio al signor Gianni: lei non lo conosce ma non importa. Il signor Gianni dice bene; dice: — Cosa vuole? Con quella particolarità della Lina — si chiama Lina — non è il caso di farle fare nè la cantante, nè l'attrice, o simili. — Senza contare, dico io, che per fare la cantante non ha voce, e per fare l'attrice ci ha fin da bambina quel difetto dell'esse e dell'erre. — Questo sarebbe il meno; risponde lui. — In conclusione, l'importante è che doveva scegliere una professione assolutamente, come a dire, immacolata.

— Giustissimo.

— Guardi cos'ha pensato il signor Gianni: dice: — dia retta a me, che ho vissuto tanto tempo a Parigi a tenere il banco delle scommesse nelle corse dei cavalli, dia retta a me: in Italia, fino a oggi non si sa cosa sia la vita. Se fosse cinque o sei anni fa le direi: mi dia la Lina e me la porto a Parigi. Ma adesso Parigi è giù, molto giù. È il momento di far noi qualche cosa, in Italia. Infatti, si guardi attorno, vedrà che anche qui cominciano a vivere. Ma a casaccio, da provinciali. Veda, per dirne una, la cocaina: tutti ne parlano; c'è della gente che ci prova, delle cocottes, degli autori teatrali, delle sartine; ma così, senza un criterio: molti si disgustano subito, non c'è in Italia il vero genio per queste cose, non c'è organizzazione. E poi non conoscono tutto il resto: altro che cocaina! dunque; con pochissimo capitale, che si trova, la Lina può aprire una specie di bar, con un bel titolo che dica press'a poco «alle specialità del Vero Oriente», o qualche cosa di simile. Guardi, signore, che ripeto proprio come dice il signor Gianni, un uomo d'esperienza. Un piccolo bar, che non sia neanche tanto in vista: la prima stanza come i soliti bar, con le solite cose, e in più delle bibite e dei frutti e dei dolci orientali; e poi due o tre stanzine riservate per gli habitués sicuri, e là si danno le specialità più intime del vero oriente. La Lina, che è una bella figliola, vestita giusto mezzo all'orientale, un po' di qua un po' di là, a dirigere e tenere i conti. È semplicissimo.

— È geniale.

— Ecco, geniale, è come ha detto il signor Gianni. E mi ha anche detto: — ci vuole il lancio, la réclame; una réclame diffusa ma discreta: chè le cose più importanti non bisogna dirle. Lei — dice — vada alla B. A. I. A., e si faccia dare delle idee per la réclame. Il resto verrà da sè. Guardi signore, qui ci ho la lista di qualche specialità del vero Oriente, che non riuscivo a ricordarmi i nomi. Lei già le conoscerà bene queste cose, per il suo mestiere.

Mi porse un foglietto, su cui lessi:

«Haschisch» — «dawamesk» — «oppio» — «etere» — «cocaina» — e altri nomi meno noti.

(— Non ci manca — disse il Dàimone — che un po' di coprofagia).

Io più seriamente risposi:

— Ho inteso, signora. Poichè la cosa è molto speciale, bisogna che lei mi lasci qualche giorno. Passi tra una settimana giusta, a quest'ora.

La salutai. La bella Lina fece un inchino di scuola, e finalmente disfece quel sorriso; parve come uno che si levi la dentiera e se la metta in tasca. Scomparvero.

Io mi misi d'impegno a studiare il piano per il lancio delle «Specialità del vero Oriente». Volli prima familiarizzarmi un poco con la materia, e studiai sui testi il modo di trarre dalla canape indiana l'haschisch, m'informai degli ingredienti che variano il verde haschisch nel più pallido dawamesk, non trascurai di consultare i riflessi classici e letterari di questa materia da Erodoto e Plinio a Baudelaire; feci una corsa, dietro la scorta dei viaggi di Marco Polo, nella leggenda del Vecchio della Montagna e dei suoi Haschischins o Assassini, m'interessai delle tre grandi fasi dell'ebbrezza e delle loro possibili varietà. Altrettanto minutamente m'occupai dell'oppio, sia per l'aspetto poetico leggendomi la Confessioni del De Quincey, sia per quello scientifico ricercando in una farmacopea le differenze tra l'oppio giapponese più aromatico e l'europeo più potente, attraverso l'oppio indiano che si avvolge in stagnole sotto forma di piccoli semi di color perso. Credetti per un momento di avere intravisto il motivo della mia réclame nella fantasiosa notizia che i Giapponesi fanno la raccolta dell'oppio la seconda sera dopo il plenilunio di giugno, avendovi praticato ventiquattro ore innanzi l'incisione, al punto dell'imbrunire. Ma ricordai a tempo che il lancio doveva essere prudente e discreto. Allora risalii a Omero; pensai al nepente che Elena aveva avuto in dono da un'egiziana, e al loto che ai compagni d'Ulisse faceva dimenticare la patria e il ritorno. Anzi, il bar di Lina doveva chiamarsi omericamente «Lotòs». Ci voleva una pubblicità indiretta e suggestiva, che preparasse l'animo del pubblico a cercare il «Lotòs», senza ricorrere alla solita volgarità dei cartelloni o dei quotidiani, anzi senza nominarlo neppure. Mi fiorirono idee semplici ed efficaci. Così che la mattina del settimo giorno mi presentai nello studio grande al commendatore avvocato Gattoni, mio principale: gli esposi in succinto le parole della vecchia — ed egli mi accompagnava con uno strano brontolìo basso —, poi senz'altro gli porsi il foglio su cui avevo segnato i risultati delle mie trovate.

Il commendatore prese con qualche diffidenza quel documento, che era così concepito:

Progetto per il lancio (diffuso ma discreto) del bar «Lotòs»

1) Far tenere alla locale Università Popolare, da qualche dotto ellenista, una lettura e commento del libro IX dell'Odissea, dove si parla del loto.

2) Incaricare un commediografo alla romana di scrivere una commedia in cui il brillante sia un appassionato di haschisch.

3) Commettere a un prosatore alla milanese un romanzo in cui sia descritta la vita di un bar del tipo che vogliamo lanciare.

Nota. — Queste tre manifestazioni debbono essere tra loro contemporanee, e precedere di poco l'apertura del bar «Lotòs».

Il commendatore Gattoni lesse, con un mormorìo agitato, il mio progetto; poi lo gettò sul tavolino dicendomi:

— Lei è matto.

La vita operosa: Nuovi racconti d'avventure

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