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4. Le aristocrazie.

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Per intonarmi all'ora, sono andato al caffè.

Sono entrato in un caffè che ha fama di ritrovo elegante.

Ricordo che molti anni sono, quando ogni tanto venivo per qualche giorno a Milano da una città di provincia che dette i natali a Dante e a Machiavelli, solevo entrare in quel caffè con una specie di timorosa reverenza. Mi pareva che tutti i presenti si voltassero a guardarmi con severità, mentre entravo e m'affrettavo a prendere un posto. Mi aspettavo, ogni volta, che il cameriere prima di servirmi mi domandasse:

— Il signore ha la tessera?

Il cameriere non me la chiese mai: ma certo tutti quei signori e quelle signore avevano una tessera d'intellettualità cittadina, che concedeva loro la qualità di assidui in quel luogo, pubblico ma eletto: e s'indovinava subito, a vederli conversare così da lontano, che discorrevano d'arte, specialmente di teatro, e che erano gli uomini e le donne più intelligenti della città.

Più tardi — ma sempre prima della guerra — ero venuto anch'io ad abitare a Milano, e anch'io un bel giorno, frugandomi per caso nella tasca del soprabito, ci avevo trovato la mia tessera d'intellettuale milanese. Però non ne abusai; non andai più che raramente nel luogo pubblico ma eletto, e sempre senza mostrare la tessera.

Ci sono dunque tornato quel giorno che mi aggiravo alla ricerca d'un albero orientatore.

C'erano molte persone, e un colore diverso da quello d'un tempo.

Ignoro se le persone che vi si trovavano rappresentassero ancora il fiore dell'intellettualità cittadina. Certo non tutti quei gruppi discorrevano d'arte, di teatro, e d'altre cose supreme.

Appena entrato, senza che subito mi rendessi conto della causa, mi sorprese un ricordo del fronte: rividi in un lampo stendersi Valdirose fra Tarnova e San Marco, dolce valle in un'aria d'autunno, recisa duramente da un lungo reticolato che s'arrampicava per una china ripida.

Invece ero in un caffè, che ha nome di ritrovo elegante.

Guardando traverso il fumo e il suono dei violini, vidi in fondo alla piccola sala, attorno a un tavolino, un gruppo composto di quattro gentiluomini e due signore. Le due signore stavano a guardare i quattro gentiluomini, e i quattro gentiluomini giocavano: giocavano alla morra.

Allora mi spiegai il ricordo che m'era venuto incontro all'entrare. Un tempo, appunto all'osservatorio di Cuore in Valdirose, un sergente di fanteria aveva cominciato a insegnarmi il gioco della morra.

Era un piacevole iniziatore, e sotto la sua guida ero venuto in una grande ammirazione per l'italianissimo gioco, pieno di acute profondità. Il sergente, ottimo giocatore, aveva anche qualche attitudine alla trattazione scientificamente metodica. M'aveva dunque spiegato che all'eccellenza nella morra si giunge conquistando successivamente tre gradi:

il primo grado consiste nell'apprendere a variare di continuo il ritmo delle proprie gettate, in modo da renderle imprevedibili all'avversario;

il secondo grado insegna a scoprire qual'è il ritmo caratteristico delle variazioni dell'avversario stesso.

Può sembrare ai profani che la raggiunta unione di questi due gradi esaurisca compiutamente il campo dell'abilità di un perfetto giocatore. Non è così. Il giocatore — mi spiegava il maestro — non può chiamarsi tale se non arriva al

terzo grado, — il quale non è più, come i due primi, esclusivamente cerebrale e intellettivo, ma importa anche abilità tecnica della mano e delle dita: consiste cioè nell'arrivare col proprio punto impercettibilmente più tardi dell'avversario, ma quell'infinitesimo ritardo dev'essere sufficiente per modificare, se occorre, la propria gettata a seconda di quella dell'altro.

Non so se i quattro gentiluomini fossero arrivati al terzo grado. Giocavano, a turni di due per volta, con serenità e senza alzar troppo le voci, come si conviene a gentiluomini in un ritrovo elegante. Le signore seguivano il gioco con un'aria di noia tranquilla, come si conviene a signore, e mangiavano a quattro palmenti pasticcini, marrons-glacés, tartine col prosciutto e altre cose delicate. Io mi sentivo più che mai senza tessera. Dopo un poco m'alzai, passai con qualche timidità davanti al tavolino della morra, andai nell'altra sala a veder ballare il fox-trott e altri balli nello stesso idioma. Le danzatrici erano tutte signorine della più ricca società; tutte giovanissime, dai quattordici ai diciotto anni: avevano gambe tornite, e spalle candide sotto i capelli che portavano sciolti come si conveniva alla loro età, e morbide braccia. Divina incoscienza della puerizia!

La sala brulicava di contorcimenti maliosi sotto le fruste delle luci.

Contemplai un poco, dallo stipite, la nuova società nata dal lavoro moderno e dalla vittoria: poi involsi in mi ultimo sguardo quelle innocenze elette, e pensai una volta ancora il mio pensiero d'estasi contemplativa:

— Perdio! qui è necessario trovare il modo di far molti quattrini.

Perciò uscii in fretta per vedere se nelle strade fossero ricominciati gli zampilli e le cascate dell'oro: ero risoluto a raccoglierne a piene mani e riempirmene bene le tasche prima di tornare nei luoghi ove la Volontà e la Potenza di vivere mi s'eran presentate sotto una forma inattesa e straordinariamente imperativa.

La vita operosa: Nuovi racconti d'avventure

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