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Per Rinaldo

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Era Rinaldo un cavalier possente

Che di prodezze fece tante e tante

. . . . . . . . . . . . . . . . .

A quell'ora, era l'una dopo mezzogiorno, Tore il cantastorie si faceva ancora aspettare. Intanto il monello che gli portava le quattro panchette era arrivato da tempo, e al solito le aveva ordinate in quadrato, sotto la gran tettoia dei magazzini della dogana. Mentre, aspettando, guardava lontano se lo vedesse spuntare allo sbocco del Molo, qualcuno si metteva già a sedere, invitando qualche amico a far lo stesso, per tirar fuori quattro chiacchiere. A poco a poco gli scanni si riempirono, non vi fu più un posto vuoto. E i discorsi cominciarono.

— Tore perchè non viene? — chiese un marinaio a un facchino che caricava la pipa.

— Lo so io? — rispose costui, senza alzare il capo. — Avrà dimenticato il libro a casa.

— Don Peppe! — gridò un giovanotto camorrista, con un ciuffo di capelli che gli uscivan di sotto al berretto messo di sghembo, — sono botte oggi?

La dimanda era diretta a un vecchietto arzillo e asciutto, che sedeva all'estremità della panca. Don Peppe, che un tempo era stato lupo di mare e ora vendeva le tende incatramate pei bastimenti, laggiù a Porto, era conosciuto tra i frequentatori di Rinaldo al Molo pel più caldo ammiratore del guerriero, e lo chiamavano, per quel suo entusiasmo spinto sino all'adorazione, il patito.

Di patiti nell'uditorio abituale ce n'erano meglio d'una diecina e sapevano la storia di Rinaldo come il paternoster. Ogni giorno, alle due letture che faceva Tore, con una mezz'ora d'intervallo, si venivano a pigliare le loro emozioni.

Don Peppe, colla mazza fra le gambe, la pipetta corta nell'angolo della bocca, fumava tranquillamente.

— Pare, — rispose al giovanotto, mentre lo si stava a sentire curiosamente; — non mi ricordo troppo bene; non voglio dir bugia. L'anno passato, di questa giornata, ebbi il colèra, che Dio vi scampi, e non potetti sentire.

E come la pipa cominciava a borbottare, fece per vuotarla nel cavo della mano.

Il giovanotto stese il braccio.

— Mi fate fare due sputi?

Don Peppe gli passò la pipa. L'altro accese un fiammifero sul panno dei calzoni, calcò coll'indice il tabacco nel fornellino e tirò due o tre boccate soddisfatte.

— Qual è il numero stavolta? — chiese il marinaio al facchino.

— Trentaquattro, — rispose questi, che passava per cabalista. — E giurateci sopra.

— Figura di sette, — uscì a dire un altro. — Sabato passato è venuto rovescio.

— Già, quarantatrè, — disse un altro.

— Sentite che sogno faccio l'altra notte.... — cominciava il facchino.

— Signori miei! — fece una voce nel silenzio.

Si volsero; Tore stava lì nello spiazzato fra le quattro panche, serio, colla bacchetta nella destra, il corpo in avanti sulla gamba sinistra. Non si parlò più, la lettura era per cominciare.

Tore mise fuori il fazzoletto scuro, lo avvolse alla mano sinistra, aprì il libro ad un segno di carta, tossì, sputò con un getto rapido, sprizzando la saliva fra le commessure dei denti, facendo un passo innanzi, alzò lentamente la bacchetta e, con sua cantilena immutabile, cominciò:

La fortuna è una Dea senza cervello,

E però tutto il giorno fa pazzie,

Or questo abbassa ed ora innalza quello,

Delle genti ama sempre le più rie....

Attorno non si sentiva più un ette. L'uditorio attento e interessato pigliava l'aria d'una scuola di bimbi: degli uomini, bianchi di capelli, non movevano ciglio, colle braccia conserte, gli occhi fissi su Tore che si scalmanava. Nel silenzio, delle tossi brevi, dei rumori di nasi soffiati con tutta forza, distraevano a mala pena. Di tanto in tanto, nei brevi momenti di sosta, l'acquafrescaio faceva il giro delle panche, monetine da due centesimi cadevano con leggero tintinnio nei bicchieri. Poi si ricominciava a stare attenti, confortati da quella specie di ristoro.

Tore aveva già coperto il selciato attorno a lui d'un semicerchio di sputi, torceva il fazzoletto alla mano, gettava indietro sul cocuzzolo il cappello di paglia, con un moto rapido della bacchetta. Dei nuovi venuti che non trovavano posto rimanevano impiedi, dietro di lui, allungando il capo sulle spalle degli altri innanzi a loro, coll'orecchio attento. Dei carabinieri si fermavano, guardando nella folla con una occhiata rapida; qualche coppia d'innamorati s'allontanava, seccata, non provando nessun gusto. La donna tirava l'uomo pel braccio, all'inferriata che guarda il porto. Rimanevano lì estatici, innanzi alle grandi navi ancorate, poi si rimettevano a passeggiare, seguendo la lista d'ombra, chiacchierando, sorridendo, urtandosi coi gomiti.

A intervalli, da lontano, lo strido acuto del Pulcinella d'un burattinaio arrivava sino alla folla, tra un mormorio vago di risate. Dal cielo azzurro il sole si spandeva sulla gran via larga con un chiarore abbagliante; il selciato arso, scottava. Rinaldo si trovava allora in male acque. Una banda di Saraceni gli tendeva agguato nel bosco. La situazione, pericolosa davvero, metteva nell'uditorio una straordinaria ansietà; si spaventavano, cogli occhi sbarrati, la bocca aperta.

Un carretto che passava, con uno stridore aspro di ruote, coprì a un punto la voce del narratore e provocò nella folla un mormorio d'imprecazioni.

— Guarda! — disse uno voltandosi, — proprio adesso!...

— Zitto, — ammonì don Peppe, con uno sguardo terribile.

Rinaldo, che avea giurato di liberare Angelica, càpita, triste e pensoso, nel più fitto del bosco. È una notte senza luna e senza stelle. I Saraceni escono in venti da una macchia, gli corrono addosso....

— Cani di Saraceni, o traditori:

Rinaldo esclama e a un sasso dà di piglio....

Ma non ne uccide che uno, gli altri lo afferrano alle spalle, lo stringono in mezzo, lo stramazzano, lo pestano, gli tolgono la spada....

.... Lo incatenano forte, e detto fatto,

Meschin Rinaldo! prigioniero è tratto!...

Un gran silenzio succedette: Tore abbassò la bacchetta e chiuse il libro, passandovi il segno di carta. La prima lettura era finita. Ma nell'uditorio, colpito dalla sconfitta, rimaneva un profondo rammarico. Come! Rinaldo vinto! Rinaldo prigione! Rinaldo! Era una sciagura a cui quasi non si voleva credere ancora.

— Questo non me l'aspettava, — mormorò un vecchio a don Peppe, che guardava a terra.

E come l'altro taceva:

— A tradimento, però, l'hanno pigliato, — soggiunse, alzandosi.

Don Peppe rimase seduto, immobile, colle mani spiegate sulle ginocchia, la bocca semiaperta, in silenzio. Aspettava, gli pareva che ci fosse ancora qualche cosa da sentire, non poteva esser finita proprio a quel modo. In quel dubbio le panche che si vuotavano lo sorpresero; alzò il capo, gli ultimi rimasti si movevano lentamente e sulle loro facce passava un'impressione di scontento che anche i loro movimenti tradivano. La tristezza per la sconfitta era comune. Quando fece per uscire mancò poco non scivolasse sopra una buccia di cocomero; allungò il braccio e il bastone, urtò la panca col ginocchio. La panca rovesciò a terra con un rumore lugubre. Allora don Peppe s'alzò anche lui, non sapendo più restare così. Nella impressione, che ancora durava, quella caduta mise una nuova nota di dispiacere; i suoi nervi scossi ne risentirono come d'un altro avvenimento malaugurato. Scese dal marciapiede e cercò con gli occhi il cantastorie.

Tore era lì a due passi, innanzi ai venditore di mele, che glie ne pesava per un soldo. Si bisticciavano per una mela che il venditore s'ostinava a non voler mettere nella bilancia.

Don Peppe s'accostò e toccò Tore al braccio.

— C'è ancora una seconda lettura? — gli chiese, sottovoce.

— Già, di qui a mezz'ora.... Lasciala stare, mannaggia!... — gridò poi al fruttivendolo che voleva levar via a forza la mela. — Ora non le piglio più e buona notte.

— E.... uscirà di prigione? — arrischiò don Peppe, timidamente.

Tore non gli badò: si chinava a pigliar le mele, e d'una più piccola avea già fatto una boccata.

— Eh? — fece.

— Uscirà Rinaldo?

— Che ne so, io? — disse Tore stropicciando una mela sulla giacchetta, — può essere.

Gli volse le spalle e chiamò il monello delle panchette. Don Peppe, confuso, mortificato, lo guardò che s'allontanava. Non gli tenne dietro per suggezione, intanto stava sulle spine. Dimandò a un signore che ore fossero; mancava poco alle tre.

— Torniamoci, — pensò, — tanto dimani dimanderò com'è andata a finire.

S'incamminò a piccoli passi. S'era levato un vento forte; la polvere del carbone che scaricavano dalle barcacce, vi turbinava, spinta qua e là, battendogli sulla faccia. Don Peppe dovette fermarsi, ne avea piene le narici e negli occhi sentiva delle punture irritanti. Mentre provava a strofinarseli il vento gli portò via il berretto.

— Cristo! — mormorò lui, che adesso perdeva la pazienza.

Con le labbra strette guardò il berretto che rotolava per terra e che infine si fermò, impigliato sotto la ruota d'un carro. Allora gli si accostò senza fretta, brontolando. Quando gli fu vicino gli tirò una pedata violenta, accompagnando l'atto con una bestemmia. Tante piccole contraddizioni lo mettevano in un orgasmo insopportabile. Ora, per un'altra volta, la disgrazia di Rinaldo gli tornava nell'animo, persistente, seria. Un ragionamento che glielo presentava sotto un aspetto orroroso gli rimetteva nella memoria il combattimento. Vincitore, nella fantasia, nel cuore degli uditori sarebbe rimasto sempre il tipo di personaggio soprannaturale, invincibile, sorprendente. Vinto, diveniva uomo, diveniva comune, la superiorità spariva. Ah! corpo di Dio!

— E come farà a liberare Angelica? — si domandava don Peppe, camminando, con le mani dietro alle spalle, guardando a terra, tutto astratto. — Almeno scappasse! Sta a vedere che non uscirà più! Lo volessero ammazzare? Eh! e lui se ne starebbe così con le mani in mano? L'hanno attaccato con le corde. Attaccato? e che vuol dire? Le spezza. Gli sta bene, l'ha voluta lui! Quando s'ha il prurito d'arrischiarsi solo, in un bosco, di notte.... Ah! mannaggia! Questi Saraceni che fanno i rodomonti! Ora vonno essere allegri, vonno. Già, l'abbiamo preso Rinaldo, l'abbiamo carcerato! Sì, a tradimento l'avete preso, avrebbe fatto un boccone di tutti!... E lui che non se li ha mangiati vivi! Puh!...

Sputò, violentemente.

— Che animale! — mormorò, perdendo il rispetto.

E in una straordinaria commozione giunse a casa che suonavano le tre. La moglie e la figlia lo aspettavano. Sul ballatoio il più piccolo dei marmocchi riempiva la scala dei suoi strilli infantili:

— Il nonno! il nonno! È arrivato! È arrivato!

— Finalmente! — disse la siè Nunzia, colle mani in cintola, — fossi venuto stanotte, fossi! La gallina a quest'ora si sarà spappata.

Dall'uscio, dirimpetto, appariva la camera da pranzo, piena di sole, colla gran tavola tutta bianca del mensale di bucato, col luccichio dei bicchieri, con le posate in simmetria, co' mucchi di piatti nell'angolo, sulla credenza. Attraverso alla porta un gran mazzo di fiori si vedeva a metà sopra un ricamo di carta, accanto alla grande zuppiera delle occasioni solenni. Dalla cesta bislunga, ove s'ammonticchiavano le ostriche del Fusaro, i nicchi e i datteri ancora vivi, si partiva un odore forte di mare.

Quando furono nella camera da letto, e don Peppe si tolse la giacchetta, la siè Nunzia, mentre gli preparava la camicia fresca, gli si mise innanzi tutta amorosa.

— Che è stato? Pe'? Ti sentissi male?

Lui si fece aiutare dalla supposizione.

— Non ho appetito, — mormorò, — ho lo stomaco che non desidera.

E prima ch'ella ne cominciasse una delle sue:

— Facciamo così, — soggiunse, — aspettiamo un'altra mezz'oretta, tanto avete fatto il collo lungo sin'ora. Voglio dormire un poco, forse il sonno mi farà venir voglia di mangiare.

Ella rimaneva lì, rimpetto a lui, guardandolo curiosamente da capo a piedi, con occhiate sorprese. Lui, non sapendo dir altro, con gli occhi a terra e aspettando che se ne andasse.

— Hai capito? — fece dopo un momento di silenzio durante il quale subì un esame lungo e noioso, — non è niente. Di' a Nannina che abbia un altro po' di pazienza.

Nunzia fece spallucce ed uscì borbottando. Era jettatura, via; l'altro giorno tre piatti rotti e il gatto scappato; oggi, l'onomastico di Nannina, quest'altro guaio! Va bene; aspetterebbero.

Lui rimase solo, in una mezza oscurità che metteva nella stanza la persiana calata innanzi al balcone. Si acconciò sul letto e provò a chiuder gli occhi. Stette così due o tre minuti, colle braccia stese, la bocca aperta, soffiando pel caldo che l'opprimeva. Nella penombra, la camera taceva; un moscone con un ronzio importuno sbatteva sui vetri.

Dalla strada con un'eco sorda arrivava il rumore delle carrozze e sotto la volta del balcone, che il sole imbiancava, passavano le loro grandi ombre rapide. Si mise a guardarle, sbadigliando. Intanto gli tornava il pungolo di quella gran mala sorte di Rinaldo, caduto così barbaramente fra le mani di que' rinnegati.

— Scapperà? — pensava, mettendosi a sedere in mezzo al letto, con le mani sui ginocchi, mentre alcune grosse goccie di sudore gli scorrevano per la faccia.

Una voce gli mormorava: è scappato; e un'altra: non ancora. Tutte e due lo tormentavano; stette un pezzo dubbioso, provando gli stimoli e le reticenze di chi si vuol decidere e non sa. A un tratto, senza poter trattenersi, si buttò giù dal letto, si mise le scarpe, infilò la giacchetta, cacciò in tasca il cappello molle e, in punta di piedi, uscì. Si fermò nell'anticamera, origliando.

Dalla stanza vicina veniva fuori la voce della siè Nunzia che raccontava un fatterello ai bambini, per intrattenerli. Delle domande di curiosità puerile la interrompevano.

Don Peppe colpì il momento. Aprì la porta di strada con tutte le precauzioni di un ladro, se la tirò dietro senza chiuderla, avendo cura di far combaciare le commessure. Si fermò un poco a sentir se dentro succedesse qualcosa, poi infilò il vicoletto, correndo, senza più voltarsi indietro.

La strada tutta soleggiata, senza un angolo d'ombra, in una immensa luce calda, era quasi deserta; nessuno ai balconi socchiusi, riparati dalle lunghe persianelle verdi; nessuno fuori le botteghe. Qualche vettura da nolo s'era arrestata a uno sbocco di via; il cocchiere, accovacciato dentro, sotto al soffietto alzato, sonnecchiava; il ronzino sfiaccolato, che le punture acute delle mosche irritavano, scalpitava sul selciato.

Tore il cantastorie abitava in un palazzetto vecchio di centinaia d'anni, di faccia al mercato delle frutta. La finestra, dalle imposte tarlate di cui il sole avea mangiato tutta la pittura, era chiusa; in un vaso rotto, sul davanzale, una pianticella di margherite inaridiva. Don Peppe si fermò ansante innanzi al portoncino, levò il capo, gridò due o tre volte:

— Tore! Tore!

Nessuno rispose. Allora raccattò una pietra e si mise a battere al portoncino facendo un fracasso del diavolo.

La finestra si spalancò, sbatacchiando. Mise fuori il capo Tore, che stava facendo la siesta, e guardò giù nella via.

— Chi è? — chiese, con la voce rauca e indispettita.

— Io, — rispose don Peppe, col naso per aria. — E vengo per quell'affare che sapete....

— Quale affare?

— Volevo domandarvi.... Scusate.... Rinaldo è scampato?

Tore battè palma a palma, con una grossa parolaccia.

— Sangue di Giuda! — esclamò. — Ammazzato voi e lui! È scampato, sì, è scampato, ha ucciso i Saraceni!

Don Peppe rimase a bocca aperta, mentre l'altro faceva per chiudere la vetrata.

— Sentite....

— Domani! — urlò Tore, sbattendogliela sul muso.

Lui, dalla strada deserta, guardò ancora la finestra, intontito. La mala grazia non lo irritava: un fremito di compiacenza gli saliva pel corpo.

— Bravo Rinaldo! — balbettò.

Lentamente rifece la via. Ora parlava solo, sorrideva, si fermava a meditare, con le mani in saccoccia. Passando innanzi a una botteguccia di tabaccaio comprò un sigaro e lo accese, fumando a boccate grosse, continuando a mormorare fra sè e sè.

Infine, quando sedettero a tavola e Nunzia gli mise innanzi il piatto con la minestra fumante, lui sorrideva ancora, mentre molte occhiate curiose lo interrogavano.

— Oh! sapete, — fece a un tratto, non potendone più, — questa è la verità, sono stato a sentir Rinaldo....

Vi fu un silenzio. Lui ingollò un boccone, passò la salvietta sulle labbra e soggiunse col cucchiaio levato:

— E ha fatto cose belle, sangue di Dio, cose belle, belle assai!...

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