Читать книгу Novelle Napolitane - Salvatore Di Giacomo - Страница 4
Il menuetto
ОглавлениеGiugno mite, dolcissimo, avea sorriso alle cose con l'ultima sua tepida giornata. Il piccolo vecchio sedeva in una pur vecchia poltrona ancora pienotta, nell'angolo della finestra. Le mani carezzavano i pomi dei bracciuoli; leggermente china la testa sul petto, gli occhi socchiusi, egli era vinto da un languore, nella rosea poesia del tramonto.
Si spandeva per la silenziosa stanzuccia quel lume vago, dorato, che dà alla pelle un colore d'incarnato, come lo dà una candela alla mano che ripara la fiammella. Entrava da per tutto, bagnando mollemente i mobili d'antica sagoma, i ritratti ingialliti dei quali veniva fuori nettamente la cornice dal parato, tutto sparso di mazzolini di fiori che invecchiavano anch'essi sopra un fondo d'azzurro.
Tutto là dentro era antico, di quel barocco, non molto esagerato, al quale s'afferra ancora la vecchiezza dei tempi nostri che sorride alle abitudini de' tempi suoi e del caro ambiente si circonda ad evocarne, triste, i ricordi. Quella vecchiezza che tiene a coprirsi il capo d'una papalina di velluto marrone, ricamata d'oro e foderata di seta; dalla voluminosa cravatta nera di cui cinge tre volte il collo e che annoda poi sotto il mento; dalle camicie di tela fine che sentono di buon odore di spiganardo e che l'amido gonfia sul petto; dai polsini attaccati alla camicia, co' margini rotondi, chiusi da un semplice bottoncino di pastiglia liscia, attaccato col filo. Una vecchiezza che si compiace di lunghi soprabiti verde bottiglia, dal bavero alto, di calzoni di panno molle che non fanno pieghe a star impiedi e appena sfiorano l'orlo della scarpa a nastrini, lasciando apparire la calza ruvida e bianca. Una vecchiezza che ama il tabacco da naso, ma che all'occasione sa divenire gioventù e corteggiare belle signore, e darsi la baia a tempo, prima che altri glie la dia, e canzonarsi mentre si china a baciare una mano grassottella o s'impettisce offrendo il braccio saldo a far passeggiare, per la casa, le conoscenze femminili. Per celia egli disse una volta che voleva morir canticchiando, innanzi alla spinetta, co' lumi accesi nella sala, mentre un ballettino si preparava e suonavano risatine di perle tra un fruscio di strascichi serici.
Ahimè, povere illusioni! Ora, da tempo, nel suo cuore che inaridiva morivano, come alle orecchie moriva ogni suono, tutte quelle gioconde spensieratezze. Una grave sordità lo aveva colto, improvvisamente. Era stato dapprima un ronzìo, come allo svegliarsi da un sonno faticoso, poi fu un silenzio eterno. Non udì più nemmanco lo sbattere fragoroso delle porte che si tirava dietro la serva Clementina. Ai primi giorni, quando costei, stupefatta, dovette fargli capire con atti della mano quanto volesse dirgli, lui ne prese, per la gran pena, un febbrone, e rimase cinque giorni a letto. Clementina si sfogava in cucina, singhiozzando, come se qualcuno le fosse morto, innanzi al pollaio, ove molti pulcini schiamazzavano.
A poco a poco il piccolo vecchio si rassegnò.
Ma ne' gravi silenzii, in cui si sentiva perduto, una invincibile sonnolenza lo appesantiva. Gli veniva voglia di morire addormentandosi. Da tre anni, così, non avea più nulla scritto. Tutta la santa giornata la passava solo solo, nella poltrona favorita, seguendo liberi voli di rondini che migravano pei tetti, fantasticando, leggiucchiando il Poliorama pittoresco, del quale conservava tutta la collezione.
Con lui, che ne' modi e negli abiti mai si era mutato, la cameretta armonizzava. Abitudini di mezzo secolo vi aveano lasciata la loro orma, un profumo di vecchiezza nella mobilia dorata, della quale, come i gomiti al soprabito del padrone, lucevano gli angoli logorati, una voluta aggiustatezza sulle mensole di marmo bianco, nei cantucci in penombra, pieni di mistero. Un sorriso malinconico aleggiava tra le pareti, come un rimpianto; dormiva da tempo la stanzuccia. Uno specchio ovale, dalla bianca cornice filettata d'oro, si copriva di polvere sul vetro, riflettendo confusamente, come in una nebbia, le cose della mensola su cui poggiava: due vasi da fiori artificiali, un grande orologio di bronzo dorato del quale, da cinque anni, le lancette segnavano il tocco, un vassoio di porcellana con le sue tazze a medaglioni pompeiani, e una piccola Venere nuda, di bronzo. L'Amorino, che la bella dea si recava tra le braccia, le metteva le manine sugli occhi.
Dalla parete di faccia un Rossini, a pastello, con la dedica, vigilava nella camera, la punta delle dita nello sparato del soprabito, l'occhio piccolo e vivo, pien di malizia.
Da per tutto, qua e là, messe in ordine accosto a' mobili, sedie dalla impagliatura ingiallita, dalla spalliera piatta e larga, verniciata di bianco, istoriata nel mezzo da figurine di cavalieri in parrucca e codino, i quali, premendo al petto il cappello a lucerna, s'inchinavano a damine rubiconde, che sorridevano, spiegazzato il ventaglio di piume. Presso all'uscio maggiore, del quale una cortina nascondeva il vano, sopra una di quelle seggiole riposava un cappello di feltro, alto, dalle tese rigide. Un bastone dal pomo d'avorio s'appoggiava alla seggiola.
Pareva che il padrone, a momenti, dovesse uscire di casa. Due pantofole ricamate si nascondevano in un angolo.
In fondo, nella luce dolce ed eguale, la sagoma scura della spinetta richiamava l'occhio, con la sua immobile tranquillità. Teneri riflessi scendevano pel legno pulito, spegnendosi sul tappeto, macchiando di bianche lucentezze quel mobile.
Dalla sua poltrona il piccolo vecchio faceva correr lo sguardo compiaciuto sul leggìo, sulle carte da musica ammucchiatevi accanto. L'occhio carezzava la pallida fila della tastiera, le mani desiderose fremevano sui bracciuoli della poltrona.
Finalmente la spinetta trionfò. Il piccolo vecchio si levava pian pianino; fece due passi nella camera, si fermò, respirò rumorosamente, come a togliersi un gran peso di su lo stomaco. Si fregava leggermente le mani, preparandosi, tutto compreso della sua piccola commozione. Da un vassoietto tolse una bottiglia di rosolio di cannella, empì un bicchierino smerigliato, centellinò, facendo schioccar la lingua, tossendo, battendosi in petto piccoli colpettini. Infine affrontò coraggiosamente la spinetta; le si sedette innanzi, passò un gran moccichino di filo scuro sulla tastiera, che di sotto si mise a strepitare, discordemente. Le mani del vecchio tremavano così forte ch'egli dovette sostare un pezzetto, per quietarsi. Poi corsero subitamente per una scala semitonata. La spinetta si svegliò in un chiasso di note saltellanti. Dio, che foga! addio vecchiezza! Il cuore faceva: tic-tac, tic-tac, sul ritmo della musica, il sangue correva ai pomelli delle guance, brillavano gli occhi, le labbra mormoravano. Egli s'abbandonava indietro sulla seggiola a tamburello con le braccia stese, le palpebre socchiuse. Una furia d'allegri, d'andantini, di ariette, di fughe vorticose, gli turbinava dentro nell'anima.
Provò a rappaciarsi. Dolcemente, sfiorando appena con le dita la tastiera, egli mormorò, dondolando il capo:
Cara, non dubitar....
Cimarosa.... Ah! Cimarosa! Perchè lo ricordava sempre, sempre?... Il piede batteva il tempo sul tappetino, la voce continuava come un soffio:
Pria che spunti in ciel l'aurora
Cheti cheti, a lento passo,
Scenderemo fino abbasso
Che nessun ci sentirà....
Il vecchietto si lasciava trascinare:
Fuggiremo pian pianino,
Per la porta del giardino....
E la melodia empiva la cameretta. Vi rimetteva il tempo d'una volta, il bel tempo d'allora. Tremava per l'aria, sfiorava le pareti, passava sui mobili come una carezza, saliva al soffitto come un profumo del tempo. Un susurro si partiva dalle pareti, da' mobili, da' ritratti, dagli angoli pieni d'ombra e di ricordi; tutta la stanzuccia vibrava, applaudendo. Morirono l'ultime note languide in quel susurro; la spinetta tacque.
Or il vecchietto si chinava a rovistare, le mani impazienti, tra le carte musicali, cercando certo suo menuetto, scritto a' giorni della gaia giovinezza. Finalmente lo trovò, finalmente lo spiegò sul leggìo dal quale era tanto tempo, tanto tempo lontano. Inforcò gli occhiali, accostò gli occhi alla carta, lesse, con l'anima sospesa, col cuore in gran palpiti. Le mani scivolarono sulla tastiera....
Ma subitamente, il volto di lui si mutò; non più ridevano gli occhi dietro i vetri lucenti, non più l'anima rideva. Implacabile e violenta lo riafferrava la disgrazia della sordità, moriva la musica, moriva l'armonia in un profondo silenzio. Il vecchietto si lasciò cadere le mani sulle ginocchia, sconsolato. Che povera fortuna aveva quel menuetto! Eppur quante pene di cuore vi aveva dolcemente accumulate! Il titolo gli venne dalla sentimentale civetteria d'una damina — che sorrideva sempre, ancora, in una cornicetta dorata, sulla mensola. Una piccola bionda dagli occhi azzurri, dalla pelle liscia e rosea, dalla bocca amabile, vestita d'un corpettino da contadinella, scarlatto, a sbuffi di merletto antico, un neo sotto l'occhio, la cipria nei capelli. Disse lei, allora: — Il menuetto è assai gentile; chiamiamolo Confessione.... Lui disse: — Di cosa? Ella rideva, mostrando due piccole fila di perle, un tesoretto.
— Fate voi, mettete pur voi qualche altra parola. Egli balbettò: — d'amore? e diventò del colore di quel corpetto. Lei rideva e infine si lasciò prendere la mano affusolata....
Il vecchietto, sorridendo al ricordo, rimise le mani sulla tastiera, tentò qualche nota dell'adagino, un delizioso fa minore pel quale ella chiudeva gli occhi e abbandonava mollemente il capo sui cuscini del divano. Gli tornò il primo impeto di collera, come nessun'armonia gli arrivava all'orecchio. Si chinò, accostò il capo alla tastiera; i polpastrelli percotevano, due, tre volte.... Nulla, nulla; qualcosa d'indistinto, di vago, un soffio. Davvero tutto era finito, proprio tutto. Un'immensa amarezza gli strinse il cuore, le mani si raffreddarono, madide. Il vecchietto, poggiato il braccio all'angolo della spinetta, abbandonata la testa sul braccio, rimase immobile. Pareva dormisse.
Annottava; l'ombre si raffittivano nella camera, vi mettevano larghe macchie d'oscurità intorno alle quali ogni cosa nuotava in una dolce confusione di linee. Perdeva la stradicciuola la sua gente e il romore; un impreciso mormorio ne saliva, e penetrava nella stanzetta come un soffio. E la stanzetta taceva, in una gran pace. Pure, il malinconico silenzio, di tanto in tanto era rotto. Si sarebbe detto che lì, dietro la spinetta, nell'ombra, qualcuno singhiozzasse.