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II.

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Questo piccolo uomo si chiamava Gabriele. Ma intorno al bel nome angelico era tutta una oscurità. Vagamente il ricordo della fanciullezza s'affacciava, ne' lunghi intermezzi di silenzio dell'anima che, di tanto in tanto, conquistava la inutile creatura, prima di metterla nella malinconica imprecisione del passato. Nel passato era un freddo di persone e di cose, un mistero, un muto dolore continuo. La scuola infantile senza sole, senza amicizie infantili, senza premii; nel verno, una stanza paurosa in un palazzo buio, un cattivo odore insistente, da per tutto e le scarpe fradice nelle quali i poveri piedini gelavano. Poi la miseria, la triste miseria senza risorse e una peregrinazione per case che lui non sapeva ed ove la madre scompariva, lasciandolo, aspettante, nel cortile. Ella si chiamava Cristina. Or, invecchiata rapidamente, pallida, debole, aveva soltanto conservato nella orribile caduta il fosco lampo di due occhi pieni d'anima e due labbra sottili e brevi che ancora sapevano maledire. Aveva fatta una gran passione ed era stata abbandonata col figliuolo. Rubata a due poveri vecchi, de' quali codesta infamia aveva affrettato la morte, ella avventava lo sguardo in tanto orrore di cose, meditando, col gomito sulla tavola zoppa, col mento nella mano, sulla fatalità di questa uccisione lenta e sicura, la quale sterminava tutta una famiglia. Un sol uomo aveva ferito, ed era scomparso. Mentre i colpiti scendevano un dopo l'altro nella tomba, ella, che pur ne faceva la strada, lo malediva, profondamente.

A Gabriele serpeva nelle vene il sangue malato e fremente della madre. Nelle collere prorompenti contro le nervose volontà di quella donna egli si mordeva le braccia e urlava, gli occhi pieni di lacrime, le gote accese da tutto quel po' di sangue che gli restava. E Cristina, cupa, lo contemplava, dal letto ove il suo male l'aveva inchiodata, il male orribile della famiglia, implacabile.

Il rettore lo avea preso per fargli custodire la chiesa; e da scaccino Gabriele era diventato custode, a poco a poco, perchè il prete era avaro e le entrate impoverite non bastavano a mantenere due persone per due ufficii diversi. Gabriele non si rifiutò. Soltanto chiese un po' di denaro avanti, pei bisogni della famiglia. Il rettore rispose che non poteva.

Il sagrifizio del poveretto cominciò in una piovosa mattina di gennaio. Da prima la chiesa, piena di calma e di silenzio, gli mise una strana pace nell'anima. Da un capo all'altro la visitò curiosamente, perdendosi in laberinti di corridoi scuri e freddi ove non era mai penetrato il lume del sole. All'imbrunire, quand'essa rimaneva deserta dei pochi devoti che ogni giorno venivano a pigliarvi un'infreddatura, egli passava in sagrestia e vi metteva in assetto le vesti sacre, strofinando lo straccetto sulle scansie macchiate d'umido e di polvere, e spazzolava i berretti, e passava in rivista le rotonde scatoline delle ostie, tentato da alcuni superstiti pezzettini di esse. Di tanto in tanto riposava, addossato allo stipo, le labbra chiuse, la faccia anemica tutta compresa di quell'aria scema che hanno i bevitori d'assenzio, in meditazione di nulla. Poi si metteva a sedere, stanco, nella vecchia seggiola del rettore, dal cuoio nero tutto consumato che di sotto agli strappi mostrava la imbottitura di stoppa. E vi rimaneva assorto, mentre dalla vicina stradicciuola, sulla quale davano i finestroni, il cadenzato tintinnio del ferro, che un magnano batteva sull'incudine, lo cullava con un tremolio di vibrazioni morenti. Non uno strepito, a volte, non un soffio turbavano l'indefinibile silenzio del luogo. Egli si raggomitolava nella seggiola a bracciuoli, figgeva lo sguardo sulla porticella schiusa che metteva in chiesa e che, per la fessura, dava passaggio a un po' di luce. Una bianca striscia s'allungava sul pavimento della sagrestia, già perduto nell'ombra, mentre annerivano nella notte, sulle pallide pareti, i grandi armadii in giro. L'ultima luce penetrava dal finestrone di faccia a lui e debolmente arrivava fino a quella opposta alle vetrate. Una corda, che pendeva dal soffitto, si dondolava, lievemente.

Tre mesi gli parvero tre secoli. Soffriva ora orribilmente: l'umido lo avea tutto fradicio dentro; gli passava le ossa, gli dava brividi e febbre. Cadde, una volta, a piangere sull'inginocchiatoio, la testa arsa, invocando Cristo a gran voce.

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