Читать книгу Ginevra, o, L'Orfana della Nunziata - Antonio Ranieri - Страница 16

IX.

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Ritornatomi nella mente l'ordine de' miei pensieri, sospeso dalla pressione ch'io aveva sofferta al cervello, diedi le più amare lacrime al cane, perchè udii, o mi parve almeno, che il popolo sulla via, strascinandolo, gridasse sollazzevolmente: È morto. Dal dì ch'egli mi aveva posto amore, io aveva provato per la prima volta della mia vita il dolcissimo sentimento della compagnia. Poichè una creatura vivente, un abitatore, come me, di questa lacrimevole valle, mi amava, prendeva cura di ogni istante della mia giornata, vegliava i miei sonni e preferiva la mia alla propria sua conservazione, io non poteva chiamarmi più nè sola nè infelice nell'universo.


Tav. II.

... prendeva cura d'ogni istante della mia giornata, vegliava i miei sonni e preferiva la mia alla propria sua conservazione... — Carte 46.

Quando sentii d'averlo perduto, il sentimento spaventevole della solitudine m'occupò tutto il cuore, e mi lasciò di ghiaccio. La vista di quei chiusi e tetri corridoi, dove ignara di tutto l'essere mio e di me stessa, io aveva bevuto il primo sorso alla tazza amara della vita, la memoria dell'inedia, del freddo e delle prime lacrime, onde mi era stato rivelato il mio essere, e quel non so che di profondamente lugubre, ch'è sempre proprio di tutte le grandi comunità, mi gettarono nella più disperata tristezza. Allora non mi tornava più alla mente lo strame, o il tugurio, o l'umidità, o il buio, o le spietate percosse di quella strega, ma le ore tepide e serene del pino, e l'aura odorata e fresca, e l'ineffabile dolcezza de' miei sonni meridiani. O padre, come presto impara l'uomo a fabbricare la propria infelicità!

La monaca che mi aveva raccolta dalla buca, mi condusse per mano adagio adagio per molti corridoi, dove io camminava quasi brancolando, sentendomi ad ogni passo mancare. Giungemmo finalmente a un corridoio largo assai e di sterminata lunghezza, che udii chiamare, la sala grande. Oh Dio pietoso! qual aria, o più tosto quale peste, si respirava là dentro. Ogni volta che la necessità della natura mi costringeva ad inghiottire di quell'aria, io sentiva scendermi per la gola e per il petto non so che di acre e di velenoso, che mi parea ch'andasse dritto al cuore per uccidermi; e sentivo come approssimarsi la morte, e mi gocciolava dalla fronte un sudore gelato. Ma a poco a poco il senso vi si ausò. Riavutami appena, volsi gli occhi intorno, e vidi da ambo i lati non so quante centinaia di meschini e squallidi letticciuoli, coperti tutti d'un pannicello giallo di canape grossa. Sopra ognuno di questi era una donna con tre bambini, brutti per lo più e malaticci, perchè i belli li prende quasi tutti la gente di fuori, chi per divozione, chi per l'utile fine della donna di Sant'Anastasia e chi per altro. Le donne rotolavano i bambini su pe' lettucci o su per le spalle e le cosce loro, a guisa di pallottole: e le più, in luogo di farli poppare, inforcavano loro la bocca con le dita per non udirli piangere. Assai altre donne giravano per la sala, con bambini un poco più grandicelli; chi ne strascinava due, chi tre per la mano, di così mala grazia, che ancora mi fa sdegno a pensarlo. Qualcuna si portava un bimbo in braccio, e lo baciava con tenerezza materna; perchè non è nuovo il caso che qualche infelice donzella, dopo avere nascosto in quella buca il tenero frutto d'alcun suo errore, corra poscia, spinta dalla miseria o dall'amore infinito di madre, a presentarsi alla Casa come nutrice, e conscia ella sola del suo mistero, porga al fanciullino quel latte medesimo che già la natura gli aveva destinato. Oh! forse quel fanciullino sente su quel seno una pace, che mai nel seno di nessun'altra donna non avrebbe sentita!

Ginevra, o, L'Orfana della Nunziata

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