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AI BUONI INTENDITORI

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Agli uomini cortesi, di belle e avvedute lettere, ai cacamillesimi, agli speziali della letteratura e a tutti coloro i quali han giudicato dell'opera mia con furiosa malevolenza, con languida acquiescenza o con savonaroliana anima piagnona! ai molti parlatori e valutatori dell'altrui fatica io non ho mai risposto; non ho mai detto a Tizio, critico; o a Sempronio, flebotomo:

— Perdoni, Signore, ma se l'opera mia non convince lei, in assoluto, credo che Ella non abbia avuto da Dio, tale e così vasto dono da esser certo di convincer gli altri, in assoluto, circa la bellezza e la bontà indiscutibile della sua giudicante prosa. Perchè, o mi inganno forte, o Ella assume, mio caro Signore, una non so quale fierissima aria di infallibilità, e un così forte sentore di tremendo impero è in tutto quanto Ella sentenziando scrive, che certo non può ammettere altri faccia, alla sua sicurezza, eccezione.

Epperò Ella deve essere persona di grande animo e di radicatissime convinzioni; e tutto quanto esce dal suo distinto cerebro deve andare per il mondo con piedi tanto infallibili da poter sfidare le distanze dei secoli e dei millenni: chè, se questo non fosse, mio onorando Signore, non saprei davvero a qual partito attenermi e dovrei disgraziatamente conchiudere non aver io dinnanzi se non un piacevole cerretano il quale tanto più si sbraccia per farsi udire, quanto meno è convinto della bontà de' suoi cerotti, empiastri, pecette e flemmagòghi che offre alla attenta e maligna minchioneria del pubblico. —

Questo non ho mai detto io agli uomini cortesi di belle e avvedute lettere, ai cacamillesimi, agli speziali della letteratura, ai sentenziatori e giudicatori e facitori di oroscopi. E mi son preso le busse, ed ho insaccato le male parole, le insinuazioni, le spulciature, le falsificazioni, le grandi arie, le idiozie, le impotenze, le disdegnose ripulse, le fesserie concomitanti e via discorrendo; tutto questo, e ancor più, ho insaccato io, sempre fermo al mio silenzio come il peccatore contrito il quale sa di dover tutto sopportare e tutto aspettarsi, e tanto più si umilia quanto più smisurata riconosce la propria colpa.

Senonchè, miei colendissimi Signori, dopo così lungo esercizio e una tanta ed umile sopportazione, venuto al termine del mio silenzio e trovandomi a un tratto il cuore franco e le mani sbrividite, mi vien voglia di rifarmi col primo che mi capita sotto e caricar lui di quella bastonatura che andrebbe equamente distribuita fra tanti.

Giusto per l'ultimo libro mio, L'Ombra del mandorlo, un certo cotal grammatico ebbe a scrivere tante e sì forti e sbalestrate balordaggini, e di così impeciate mandrillerie, che il men ch'io potessi fargli, sarebbe l'adornarlo di tutti i graduati aggettivi che stan di casa fra la Beozia e l'Idiozia; ma pensandomi poi che anche tale addobbo potrebbe tornargli ad onore, come le corna al marito becco e contento, mi astengo, per mia personale igiene, dal pormi a tale impresa e lo lascio andare, chè in sè di sè maturi, e più si accresca per quanto più vento gli entra in corpo col moto rotativo del suo cervellone centripeto.

Chè se poi questo bisboccia mi venga a parlar di tesi, laddove la tesi se la crea lui nel suo vuoto pneumatico; e di mie sapienti furberie, e di paesi scelti solo per adornata malizia, e di esotismo premeditato, e di dosata poesia e del diavolo che se lo porti, allora mi taccio addirittura, perchè con le donne isteriche e con i critici forsennati non ci si può intendere neppure a insolenze.

Così quello che non ho mai detto agli uomini cortesi di belle e avvedute lettere, ai cacamillesimi, ai sentenziatori e giudicatori e facitori di oroscopi, non lo dirò neppur oggi... e neppur domani.

La mia strada è ancor lunga, fratelli della cornacchia, e vedete un po' se vi riesca talvolta di starmi a paro.

ANTONIO BELTRAMELLI

Roma, 31 marzo 1921.

Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!

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