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CAPITOLO X

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Maurilio s'allontanava da quella casa col capo più basso e coll'animo più triste di prima. Andava lentamente traverso la nebbia fattasi più folta, come uomo a cui la volontà non dirige il cammino, ma si lascia trasportare a caso dalle sue gambe. L'umido spruzzolìo di prima s'era convertito in buona e bella neve che calava giù lenta, lenta, fra la nebbia, a larghi fiocchi, e già vestiva d'un bianco strato il terreno su cui ammortiva il suon de' passi ai rari cittadini che per quella melanconica sera si affrettavano a rientrare nelle case loro.

Ad un tratto il nostro giovane si riscosse. Era uscito dal povero quartiere della miseria e dell'abbiezione, e trovavasi in una strada larga, fiancheggiata da superbe abitazioni del ceto signorile. Innanzi a lui, un palazzo dei più suntuosi gettava nelle tenebre della notte dagli alti suoi finestroni delle ondate di luce che faceva brillare al passaggio i candidi fiocchi della neve. L'alto e imponente portone da via, per cui s'entrava in un atrio elegante di severa architettura, era spalancato, e nell'atrio medesimo stava una magnifica carrozza chiusa, a cui attaccati due stupendi cavalli di prezzo che scalpitavano e scuotevan la testa impazienti. Certo questa carrozza attendeva i padroni di quel palazzo che stavan per uscire: e così pensò tosto Maurilio, il quale nel cocchiere vestito di terraiuolo impellicciato, seduto con altezzosa imponenza sull'alto sedile colle redini in una mano e la frusta nell'altra, in una classica mossa che qualunque cocchiere inglese gli avrebbe invidiato, riconobbe tosto la livrea della nobile famiglia a cui quel palazzo apparteneva.

Maurilio s'era lasciato condurre passivamente dalle sue gambe, e queste lo avevan portato là dove tanto spesso volava il suo pensiero.

In faccia a quel portone, il giovane sostò, si volse a quel bagliore che pioveva dalle ampie finestre, guardandovi fiso con occhio e con sembiante pieni di mille espressioni, profferse parole cui nessuno, anche udendole, avrebbe pur potuto capire.

Parve esitare un istante, poi con evidente sforzo si staccò dal posto in cui stava piantato e fece alcuni passi per allontanarsi; ma tosto si arrestò di nuovo; una lotta si combatteva nel suo animo; tornò vivamente indietro, e senza che alcun lo vedesse, guizzò sotto l'atrio e corse ad appiattarsi dietro ad un gruppo di colonne. Là si appoggiò al freddo marmo d'una di queste colonne e si premette con ambe le mani il cuore che gli batteva così violentemente da minacciar di scoppiare.

Non attese lungamente. La grande invetrata che metteva al marmoreo scalone venne aperta da un domestico in gran livrea a capo nudo; due donne con fiori ne' capegli, avvolte in ricchi mantelli alla foggia beduina di cascemir bianco con ricami in oro ed un uomo imbaccuccato nel tabarro ed avvolto il collo sino alla faccia da una finissima fascia di lana si diressero verso la carrozza, di cui corse ad aprire lo sportello un altro domestico in soprabito lungo, a grossi bottoni d'argento stemmati e col cappello coperto di tela incerata in mano.

Quelle due donne erano passate rapidamente, ma il nostro giovane le avea viste, le avea saettate di suoi sguardi accesi come una fiamma, ansimante il petto, battenti i polsi della testa, tremanti tutte le fibre, le avea seguite collo sguardo intento.

O per dir meglio non aveva visto, ammirato, vagheggiato che una di esse: – la più giovane. Era bella come un'apparizione nel sogno d'un poeta d'Oriente. Alta della persona, dignitoso e graziosissimo il portamento, mite e pur nobilmente superbo l'aspetto; un muover di collo che ricordava l'avvenenza del cigno, una eleganza nativa, non ricercata, non appresa, piena d'incanto; tutta la grazia aristocratica nel piglio, senza l'offensività dell'orgoglio. A vederla passare soltanto, ogni cuore si sentiva trascinato dietro lei con un omaggio d'ammirazione. Chiunque avrebbe affermato senz'altro esser ella nata per andar prima in tutto, per vedere tutto il mondo a que' suoi piccoli, ben arcati, sottilissimi piedi. Un diadema di regina non avrebbe disdetto alla sua fronte leggiadramente superba. I suoi capelli di color biondo un po' fulvo, le facevano intorno al capo di sì fina struttura un'aureola d'oro, come alla più bella vergine staccata da uno de' più bei quadri del Luvini. Lo sguardo limpido, sereno, profondo balenava in occhi cui meglio non avrebbe saputo disegnare il pennello di Murillo, del color del mare. Il sorriso era grave in una ed infantile. Tutta la malìa della gioventù accompagnata dalla più splendida bellezza, vi si trovava insieme colla riflessività d'un'anima che sente, che ha già visto il dolore, d'un cervello che pensa e d'un cuore che si commove. La sua mano, da sola, chi non vedesse altro di lei, l'avrebbe fatta conoscere per generata di purissimo sangue aristocratico. Era una mano esile, lunghetta, a dita affusolate, ad unghie color di rosa elegantemente convesse, bianche come l'alabastro ed appena se mostranti traverso la pelle finissima l'azzurigno della rete venosa; una mano che uno scultore avrebbe adorata.

L'altra donna era di età inoltrata e sul suo volto, che incominciava ad esser troppo corso dalle rughe, non si leggeva che orgoglio, arroganza e disprezzo d'altrui.

La giovane entrò prima nella carrozza, poi l'attempata, ultimo l'uomo. Il domestico richiuse la portiera, si mise in testa il cappello, salì in cassetta vicino al cocchiere, e la carrozza si mosse.

Già era uscita dal portone, già il domestico in livrea era risalito negli appartamenti: già il portiere, venuto fuori a salutare con un grande inchino il passaggio della carrozza, richiudeva il portone per non lasciar aperto che l'usciolo a sportello, e Maurilio era ancora là, appoggiato alla colonna, immobile, ma palpitante, gli occhi rapiti come da una celeste visione.

Ad un tratto si scosse. Aveva bisogno di vederla ancora. Si slanciò fuor del portone ratto come un baleno, passando presso il portiere spaventato; vide allo svolto della via sparire i fanali della carrozza che andava al piccol trotto de' suoi cavalli; corse come vola una saetta in quella direzione; raggiunse il cocchio, s'aggrappò al predellino di dietro, su cui stanno in piedi i servitori, vi si arrampicò, vi si raggomitolò, vi stette sentendosi mancare il fiato, la lena e le forze.

Intanto pensava nel suo cervello cui veniva a martellare il sangue concitato.

– Ella è là!.. Là presso a me… Divisa da una sottile parete. Appoggia forse a questo punto la sua bella persona… Se potessi vederla nell'abbandono del suo atteggio!

La carrozza correva senza rumore sul tappeto già alto della neve caduta. Quando la si arrestò Maurilio parve ridestarsi e guardò intorno dove si trovasse. Era in piazza S. Carlo e la carrozza era venuta ad accodarsi l'ultima di una schiera di cocchi che facevan la fila per entrare uno ad uno nel portone d'un palazzo in mezzo a quel lato della piazza che guarda l'occidente. Questo palazzo dalle sue finestre del primo piano mandava torrenti di luce che correvano via lontano per la piazza a illuminare i fiocchi cadenti della neve, a ripercotersi sul cimiero di bronzo imbianchito ancor esso della statua equestre d'Emanuele Filiberto, a riflettersi come un lampo sanguigno in mezzo a tutto quell'albore sulla baionetta che brillava a capo del fucile stretto fra le braccia dalla sentinella del monumento intirizzita.

Eravi gran ballo nelle sale della Società dell'Accademia Filarmonica; uno di quei balli, come al giorno d'oggi non ne vediamo più, in cui il fior di farina della borghesia, stacciato traverso il cribro de' più permalosi pregiudizi, accoglieva la disdegnosa aristocrazia, la quale era stimolata alla degnazione di arrendersi all'invito dall'esempio della Corte, che onorava la festa di sua presenza.

Maurilio si ricordò in quel punto di aver udito parola di tal festa da un suo amico, ricco, elegante e socio di quella congrega. Come fosse amico d'un ricco, egli povero, senza nome e senza stato, lo sapremo in appresso. Discese dalla predella su cui s'era aggomitolato, e si gettò sotto il portico del palazzo coll'intenzione di introdursi fin sotto l'atrio, fin nel vestibolo per aver la dolcezza di vedere ancora una volta la incantatrice visione di poc'anzi apparirgli, val quanto dire quella stupenda e superba bellezza di donna uscir di carrozza e passargli dinanzi.

Ma l'impresa era più difficile di quanto ei si pensasse, e fu un momento in cui per sua disperazione gli apparve impossibile. Sotto il portico, ai due lati del portone, sul passaggio delle carrozze, che lentamente sfilavano ad una ad una per lasciar giù nell'atrio le persone che contenevano ed uscir poi da un altro portone di facciata, traversando il cortile stato ricoperto con invetrate e ridotto a giardino; sotto il portico, dico, s'erano formate due fitte siepi di curiosi che stavano cogli occhi intenti a mirare nello scuriccio dell'interno de' cocchi le ombre di color bianco o rosato delle acconciature femminili.

Il nostro giovane protagonista ben riuscì, non senza difficoltà, a spingersi in prima riga di questa calca là dove facevano barriera a contenerla indietro il cappello a becchi dei carabinieri, e la mazza dei veterani, che si chiamavano ordinanze del Comando di piazza, i quali, allora, servivano da guardie di polizia. Ma ciò non gli bastava: era sotto il portone, era nell'atrio, era su per le scale ch'e' voleva penetrare. Pensava che occorreva affrettarsi. Quantunque la fila delle carrozze fosse assai lunga e procedesse lentamente, se Maurilio non si sbrigava, poteva arrivare la volta di entrare a quel cocchio su cui aveva rivolti tutti i suoi pensieri, prima ch'egli fosse là dove desiderava allogarsi. Un nuovo ardimento entrò in lui. Si spinse temerariamente innanzi e varcò la sacra soglia del portone conteso ai profani. Ma colà si trovò innanzi la imponente corporatura d'un gigantesco portiere con tanto di cappello a becchi gallonato, con tanto di gallone sul soprabitone a spada, con tanto di budriere largo un palmo traverso il petto, e con una gran mazza a pome di argento nella mano vestita di guanto bianco di cotone.

Questo alto personaggio fiancheggiato da due ordinanze, guardò con cipiglio disdegnoso ed impaziente l'audace dai panni logori colla neve sulle spalle e sul cappello, che osava avventurarsi in quelle aure olimpiche riserbate ai Dei e Semidei.

– Non si passa: disse il signor portiere con brusco accento, mettendosi innanzi all'intruso.

Dietro le grosse spalle quadre del portinaio, balenarono agli occhi di Maurilio le piastre di metallo colla croce in mezzo dei sciacò delle due ordinanze pronte a mettere in esecuzione il bando formolato dalla voce solenne dell'autorità della porta. E' si perdette un istante di spirito; balbettò confuse parole e sentì un rossore accusatore salirgli alla faccia.

– Andiamo, andiamo: riprese il portinaio, bisogna sgomberare. A momenti arriva la Corte…

Un'idea per fortuna era venuta a Maurilio che si torturava il cervello per trovarla. Si ricordò di quel suo amico che ho detto poco anzi, e pensò invocarne la protezione del nome.

– Cerco dell'avvocato Benda… È ben qui l'avv. Benda?

– Sicuro che c'è; rispose il gigante che faceva da cerbero; ma questo non è il luogo nè l'ora di cercarlo.

Maurilio fece come il naufrago, che aggrappatosi a qualche cosa onde spera salute, non vuole spiccarsene più; giunse le sue grosse manaccie in atto di supplicazione ed insistette:

– Bisogna assolutamente ch'io gli parli… Si tratta di cosa gravissima e che preme… Mi contenterò d'aspettarlo sotto l'atrio o su per le scale… Di grazia lo facciano chiamare… Darò il mio nome… Vedranno che verrà tosto… Ripeto che è cosa importantissima.

L'accento, la figura, la mossa del giovane erano così turbati che il portinaio credette realmente a qualche cosa di serio. Pensò inoltre alle larghe mancie che soleva distribuire l'avvocato Benda, onde valeva la pena di far cosa che potesse contentarlo. Il cerbero si fece più umano; curvò le spalle ed abbassò d'un tono l'altezzosa impertinenza dell'accento.

– Se è così… possiamo provare… ma il difficile sta nel trovare l'avvocato nella confusione di gente che c'è lassù… Gli è quasi come cercare un ago in un fastello di fieno… Ma pur via…

Si rivolse dignitosamente ad una delle ordinanze.

– Fate il piacere, disse, accompagnate questo giovane lì nel vestibolo in fondo alla scala e dite ad uno dei domestici il fatto suo.

L'ordinanza fece un cenno affermativo col capo ed eseguito un dietro-front, disse a Maurilio con tono di comando militare:

– Venite!

A Maurilio il cuore saltava in petto dalla gioia. Aveva sperato bensì che lo avrebbero lasciato introdursi da solo, allora avrebb'egli ben cercato dove appiattarsi da veder comodamente ciò che tanto desiderava: ed invece doveva seguire i passi del soldato e proseguire nella menzogna a cui aveva domandato soccorso: ma almeno egli era, per dirla in istil militare, nella piazza, e ciò gli bastava.

Il veterano condusse il giovine fin sulla soglia del vestibolo dello scalone, dove un servitore della Società in gran livrea stava appostato. Già in quel vestibolo tutto era luce e profumi. Ricchi arazzi pendevano alle pareti con ghirlande di fiori, un morbido tappeto copriva il marmo del pavimento, ai due lati si schieravano enormi vasi ed eleganti, da cui gettavano il soave effluvio de' loro fiori, cedri, aranci ed oleandri; mille fiammelle alimentate dal gaz e dalla cera brillavano a gara nel tepore di quell'ambiente. Come aveva detto il portinaio, si stava aspettando da un momento all'altro l'arrivo della Corte. Sotto l'atrio, facendo ala fino al vestibolo, erano schierate in due file le guardie del palazzo reale; a cominciar dal vestibolo, su per tutto lo scalone, ad ogni due passi, da una parte e dall'altra, sorgeva il cappello piumato e scintillavano a quel tanto bagliore gli spallini e le tracolle d'argento d'una guardia del Corpo. La deputazione dei soci dell'Accademia destinata a ricevere le LL. MM. e le LL. AA. RR. già era venuta giù fino al ripiano frammezzo alle due branche dello scalone, e mostrava in gruppo le sue cravatte bianche e i suoi vestiti a coda.

Voi comprendete quindi quanto fosse mai inopportuna la venuta e la domanda del nostro povero Maurilio. Quando il buon veterano ebbe spiegato l'una e l'altra al domestico, questi volse sul meschino mantello del giovane lo stesso sguardo di disprezzo che già s'era meritato dal portinaio, e rispose crollando le spalle per impazienza e sorridendo con superba compassione.

– Eh! siete matto, brav'uomo! Si ha ben altro da pensare adesso! E poi chi potrebbe mai trovare lassù fra tanta confusione l'avvocato Benda?

Per azzardo un altro domestico che passava udì queste parole, e si fermò.

– L'avvocato Benda? Diss'egli. E' si può trovar subito, chi lo vuole. Egli è qui sul ripiano che fa parte della deputazione per ricevere il Re.

Allora Maurilio si trovò costretto a ripetere la sua menzogna, che urgeva parlasse a quel signore.

– Mi dica il suo nome: soggiunse quel secondo domestico che pareva più umano: e glie ne dirò all'avvocato.

Così fece Maurilio, e il domestico s'affrettò su per lo scalone. Due minuti non erano ancor passati che ecco venir correndo un bel giovane in elegante ed inappuntabile acconciatura da ballo, il quale esclamò con accento veramente cordiale:

– Che? Sei tu che mi cerchi, Maurilio? Vieni, vieni e dimmi che cosa è capitato.

A questo intervento, la soglia del vestibolo, che fino allora gli era stata contesa dal domestico e dall'ordinanza rimasta lì pronta a pigliar pel braccio l'intruso e ricondurlo fuori, quando ne fosse il caso; quella preziosa soglia fu permessa a Maurilio e il piede di costui potè, benchè tutto sporco di fango, calpestare il ricco tappeto del vestibolo come facevano gli scarpini di vernicato del suo compagno.

Francesco Benda, come ho già detto, era un bel giovane, ma ciò che è meglio, simpatico per chiunque lo vedesse, e inoltre (il che è assai di più ancora) buono, generoso, amorevole, pieno di carità e d'affetto. Apparteneva alla ricca borghesia, ma non ne aveva gli stupidi orgogli, l'arida ignoranza e i gusti meschini. Suo padre, operoso industriale, aveva coll'intelligenza e col lavoro accresciuto un vistoso patrimonio già lasciatogli da' suoi parenti, e seguitava ad accrescerlo coll'esercizio di parecchie miniere di ferro che attivamente coltivava e con una grandiosa fabbrica d'ogni fatta utensili di questo metallo.

L'unico figliuolo maschio di questo fabbricante aveva fin da principio manifestato poca inclinazione per le cose dell'industria. L'orgoglio del padre suscitatosi alquanto coll'aumentar delle ricchezze, quello della madre maggiormente soddisfatto ed incitato insieme dalle belle sembianze e dalle simpatiche maniere del figliuolo, le tendenze di quest'esso, avevano congiurato per far decidere dalla famiglia che Francesco non continuerebbe nel mestiere del padre, ma farebbe il signore; val quanto dire l'uomo ozioso, il consumatore improduttivo che la sciala sul capitale raccolto dal lavoro accumulato da' suoi antecessori. Siccome per la borghesia torinese, massime a quei tempi, la laurea d'avvocato era una mezza nobiltà che tirava su chi la possedesse dal ceto mercantile creduto da meno; padre e madre Benda decisero che il loro figliuolo vestirebbe la toga dottorale; e il buon Francesco accrebbe di uno il numero degli avvocati senza cause che pagano con cinque anni sciupati all'Università la sciocca superbia di portare quel titolo.

Ma il giovane Francesco ebbe due fortune: la prima un'indole eccellente, non iscompagnata da una buona intelligenza, e quindi una propensione per tutto ciò che è bello e sopratutto per le divine cose dell'arte, fra le parti della quale egli prescelse e coltivò non senza successo la più delicata di tutte, la musica; la seconda fortuna fu di abbattersi in una schiera di amici che erano d'animo eletto e di non volgare ingegno. Fra costoro contava Maurilio; e come questi due giovani, così divisi dalle condizioni sociali, si fossero incontrati, raccozzati ed amati, vi racconterò fra poco.

Al momento in cui, quella sera di festa, appena udito il nome dell'amico che cercava di lui, Francesco Benda s'affrettava a recargli innanzi la sua aggraziata persona, la faccia serena, la fronte leggiadra coronata di bei capelli castagni riccioluti, lo sguardo degli occhi azzurro, limpido come quello d'una ragazza innocente, egli contava intorno a venticinque anni. Era conosciuto ed ammesso in tutte le più eleganti società; se fosse stato un fatuo, avrebbe potuto contare molte di quelle che i Francesi chiamano buone fortune. Le signore più alla moda cantavano con espressione le sentimentali di lui romanze, e quando egli sedeva al pianoforte, anche le più schive e severe si accostavano a lui e non disdegnavano fissare i loro occhi lucenti sulla bella testa del giovane e si commovevano alle dolcissime melodie che egli sapeva suscitare dai tasti. Le adulazioni degli amici interessati che mangiavano le sue cene, fumavano i suoi sigari, cavalcavano i suoi cavalli, usavano sotto titolo d'imprestito da non restituirsi mai, della sua borsa, non lo guastavano, perchè egli alle adulazioni non credeva e le abborriva; e la compagnia di quei tali amici che ho detto più su, cui egli si procacciava il più spesso che gli fosse dato, creavagli intorno, direi quasi, un ambiente sano a premunirlo.

Egli adunque era corso sollecito alla chiamata di Maurilio; l'aveva intromesso nel vestibolo, e prendendo all'amico le mani grosse e volgari colle sue accuratamente inguantate di bianco, aveva soggiunto:

– Parla, parla. Spero che non sia accaduto nulla di disaggradevole nè a te, nè ai nostri amici; ma ad ogni modo, qualunque cosa sia, dimmela, e tutto ciò ch'io dovrò fare, sta certo che lo farò.

Maurilio teneva gli occhi bassi ed esitava a parlare. Una nuova menzogna, e detta a quel buono e leale amico, troppo ripugnava alla sua anima franca; e dire la verità si vergognava più che non si può esprimere.

Francesco interpretò quell'esitazione nel peggior senso.

– Dio! Esclamò egli tutto sgomentato. Tu mi spaventi. È dunque alcuna cosa di grave?

Abbassò la voce ed accostò ancora le labbra all'orecchio dell'amico.

– Forse, soggiunse con una voce che non era più che un soffio leggiero, forse siamo scoperti?..

Maurilio sollevò in volto a Benda il suo sguardo espressivo.

– No: rispose. Ciò che qui mi trasse, non è nulla che possa inquietare nessuno. Ebbi immenso bisogno di penetrar sin qui, ho immenso bisogno di fermarmici un istante… Ho pensato ricorrere alla protezione del tuo nome.

Benda stupito stava per fare alcuna interrogazione, quando un movimento generale interruppe il colloquio dei due amici.

Un domestico passò correndo e gettò queste parole: – È qui la Corte. Sotto l'atrio suonò con voce vibrata il cenno del guardiavoi dato dal comandante delle Guardie del Palazzo: le Guardie del Corpo nel vestibolo e su per lo scalone si misero nella postura del soldato in rango e portarono a bracc'-arm le loro lucenti carabine: la Commissione dei soci incaricata del ricevimento scese la branca ultima dalla scala e s'avviò verso l'atrio.

Prima di riunirsi a questa schiera, Francesco Benda disse affrettatamente a Maurilio:

– Mettiti lì, dietro quel vaso, ed aspettami. Appena accompagnata la Corte negli appartamenti, torno giù, e riparleremo.

Maurilio non desiderava di meglio: sparì dietro un grosso vaso d'oleandro, mentre preceduto dal susurro della folla curiosa dal di fuori, entrava sotto l'atrio il battistrada a cavallo, coperto il mantello rosso di neve.

– Presentat-arm! Comandò la medesima voce.

Si udì il rumore secco e vibrato del movimento dell'arma eseguito dalle guardie colla precisione di vecchi soldati, e sei carrozze della Corte, l'una dietro l'altra, entrarono in mezzo ad un profondo silenzio del popolo che si accalcava fuori del portone e che i Carabinieri e i Veterani tenevano indietro non sempre con buona grazia.

Quello non era ancora il tempo in cui ogni comparsa in pubblico del sovrano desse pretesto ad un'ovazione popolare.

Gli augusti personaggi scesero di carrozza e brevemente complimentati dall'apposita deputazione, si avviarono verso le scale. Veniva primo re Carlo Alberto, con alla destra la regina ed alla sinistra, d'un passo indietro, il presidente della Società che lo accompagnava; poscia il duca di Savoia Vittorio Emanuele colla duchessa, al cui lato dall'altra parte camminava il duca di Genova; dietro, dame ed ufficiali d'ordinanza ed aiutanti di campo e cortigiani.

Le brillanti uniformi degli uomini, i diamanti ed i vivaci colori delle acconciature femminili lucicchiavano alle mille fiamme di quella luminaria, come un'accolta di fuochi. Tutto quello che ha di più maestoso e di più splendido la società civile, radunato in quel gruppo di grandezze e di suntuosità, passava innanzi agli occhi abbagliati di Maurilio, di quel povero giovane senza nome e senza famiglia, nato e vissuto nella povertà e nel lezzo della più umile plebe, che veniva pur ora dagli sconci quartieri ove s'agita la più sprezzata ciurmaglia ed aveva a' suoi piedi appiccato il fango dei trivii più sozzi. Un mordente pensiero gli spuntò nel cervello, e un gran quesito, quello della sorte umana, lo morse improvviso nell'animo.

– Quelli son tutto, ed io nulla!.. Perchè?

Sentì nel petto un'angoscia che gli parve la stretta d'un'invidia potente.

– Oh! se potessi aver mio uno di quei nomi, una di quelle grandezze!

Pensava a quella giovane beltà cinta di ricchezza e d'orgoglio che nella fila dei cocchi attendeva la sua volta per venire a montar quello scalone e introdursi in quell'Eden di gioie mondane a lui serrato dalla tirannia delle convenzioni sociali.

– E v'è un uomo al mondo, continuava egli nel suo pensiero, il quale con atto di sua volontà potrebbe farmi grande e potente; e quest'uomo è quello che ora mi passa dinanzi; è quello che chiamano col nome di re.

Colle mani Maurilio aprì un piccol varco tra le frondi della pianta dietro cui si riparava, e spinse alquanto innanzi la faccia per vedere il re ch'egli conosceva soltanto dai ritratti che abbondavano presso tutti i mercanti di stampe.

La figura di Carlo Alberto era tale, che, non fosse pure stata quella d'un re, avrebbe in ogni dove attirata l'attenzione e meritato dall'osservatore un posto singolare ed una preminenza sulle altre. Sul suo sembiante stava l'impronta della sua natura generosa, ma in alcuni lati incerta, sostenuta in parte da una fede potente, travagliata in altra da un dubbio crudele – dubbio degli uomini e di sè stesso. La vastità della fronte informava di quella dell'intelligenza; le rughe precoci delle tempia, la canizie anticipata delle chiome svelavano segreti, forse da nessuno mai compresi dolori; il pallore quasi cadaverico delle guancie emaciate, lo sguardo spento de' suoi occhi affondati stavan segno di profondi travagli, in notti vegliate ai tormentosi studi, in cui un pensiero ribelle affannava un'anima, forse non vigorosa abbastanza, un generoso concetto lottava contro una volontà non adeguata di forza, una seducente ambizione ed un coraggio individuale, accresciuto da una tradizione di razza, contrastavano colle esigenze d'un prudente riserbo, alcune volte timido per necessità fatale e dolorosa.

Su questi tratti del politico e del re, gettava un velo, che ne accresceva l'incertezza, una specie di misticismo ascetico; sopra le sembianze del cavaliere scorgevi una traccia del rinunciamento, del sacrificio passivo dell'anacoreta; avresti detto che quelle tormentose veglie, onde rimaneva affranta la combattuta carne, cominciate nel faticoso problema delle cose terrene, finivano in rapimenti estatici nell'incomprensibile delle cose divine. Al postutto una grandiosa figura, una delle più complesse e delle più degne di studio che abbia la storia moderna.

Maurilio sentì una strana attrazione verso quella imponente figura di sì misteriosa espressione. Non era lo splendore della potenza che lo colpisse, non era la corona regale ch'egli vedesse su quella pallida fronte; era come la malìa d'un ignoto, che pur si sente racchiudere la grandezza d'un pensiero fecondo, era la traccia del travaglio doloroso di un'anima superiore, travaglio che pareva sin d'allora il preavviso che quella fronte avrebbe portata una corona ancora più preziosa: la corona di spine del martirio.

Il giovane plebeo non potè tenersi dallo spingersi alquanto innanzi a mirare di meglio quell'alta, scialba, severa, solenne persona di re incanutito, brillante il petto di tutte le cavalleresche insegne, circondato di tutte le mostre della potenza. Carlo Alberto ebb'egli attirata la sua attenzione dal lieve rumore del fruscio delle foglie, fu egli avvertito da un influsso magnetico dello sguardo penetrante di Maurilio? Il fatto è che il sovrano volse il capo a quella parte, e visto, in mezzo ai fiori dell'oleandro, due occhi, ardenti come carboni accesi, fissi su di lui, diede in un sussulto lievissimo, e il suo occhio semispento si affissò a sua volta in quegli occhi e balenò d'un istantaneo bagliore in cui si sarebbe potuto dire ci fosse dubbio, sospetto, un'ombra di fugace apprensione tostamente repressa. Ma non una linea de' suoi tratti si mutò, non un muscolo della sua faccia menomamente si mosse. Lo sconosciuto non aveva chinato le sue pupille nell'incontrare lo sguardo di quelle del re; ma in quegli occhi profondi non c'era pure un accenno di ostilità, piuttosto vi era un desiderio, una specie di aspirazione, un voto, quasi una speranza1.

Carlo Alberto continuò il suo cammino, e l'occhio suo, senza pur muoversi, corse via dal viso squallido e tormentato del giovine plebeo all'imponente corporatura della Guardia del Corpo vicina, che presentava l'arma, immobile e dura come un pezzo di marmo.

Era l'epoca in cui credevasi Carlo Alberto aver detto, e certo avrebbe potuto dirlo con tutta verità, trovarsi egli fra il pugnale dei Carbonari ed il cioccolato dei Gesuiti. Damocle coronato, l'antico cospiratore del ventuno camminava sopra un terreno malfido, frammezzo a due abissi, senza una mano a cui sicuramente appoggiarsi, sotto le cortigianerie dei grandi e sotto il muto riserbo dei popoli sentendo romoreggiare cupamente odii infiniti, ed implacabili sospetti, ed infinite minaccie; camminava fra un sì ed un no che nel capo gli tenzonavano incessantemente, verso un'ignota meta, di cui non iscorgeva egli stesso la qualità e la sorte. Che meraviglia se alcuna volta esitasse nel passo? Che meraviglia se all'aspetto d'ogni cosa ignota, s'attendesse ad un avverso colpo del fato? Se al semplice fatto d'un luccicar di due occhi accesi tra i fiori di una festa, nascesse nel suo cervello l'idea d'un pericolo?

Il Re passò lentamente, e dietro di esso la frotta ordinata e smagliante della Corte. S'udì in alto, per la vastità degli appartamenti suonare la marcia reale e perdersi il plauso di battimani, con cui i beati del censo, invitati a quella festa, salutavano l'arrivo di quei sommi rappresentanti dell'autorità sociale. Le Guardie del Corpo si formarono in isquadra e salirono lo scalone dopo il corteggio reale; e le carrozze degli arrivanti ripresero il loro sfilare sotto l'atrio, interrotto dall'arrivo degli equipaggi di Corte.

Maurilio non abbandonò il suo ripostiglio. L'impressione prodotta in lui dalla vista del regio corteo era già scancellata pel ridestarsi più vivo del sentimento e del desiderio che lo avevano tratto colà. Allungato il collo di dietro la pianta che lo nascondeva, egli guardava ansiosamente le eleganti femminee forme che non cessavano dallo sfilargli dinanzi. La carrozza su cui egli aveva tutto concentrato il suo pensiero tardava a sopraggiungere. L'orchestra del ballo gettava giù per le ampie volte dello scalone le sue armonie febbrilmente concitate. Quella musica e gli acri profumi di quei fiori che lo circondavano, salivano al cervello del nostro povero giovane come il principio d'un'ebbrezza fatale, come lo sventurato solletico d'una tentazione indefinita.

Era sua intenzione di non abbandonare il suo ripostiglio, ma secondo la fatta promessa, Francesco Benda, tosto che il potè, venne affrettatamente a raggiungerlo.

– Eccomi a te, diss'egli a Maurilio, fattolo venire a mezzo il vestibolo. Che cos'è che mi dicevi? Che avevi mestieri di venir qui? Perchè? In che cosa posso giovarti? Vuoi forse parlarmi più agiatamente e in segreto? Posso condurti in una riposta cameretta qui sopra, segregata dalla festa…

– No, no: s'affrettò ad esclamare Maurilio.

L'imbarazzo di proseguire nella risposta gli fu accresciuto dalla profonda emozione che di botto s'impadronì di lui. Dalla carrozza ferma in quell'istante sotto l'atrio era uscita e veniva verso i due giovani la persona che Maurilio stava con tanto desiderio aspettando.

Francesco Benda non fu in caso di scorgere il turbamento del suo compagno, perchè ancora egli era in preda ad uno per nulla minore. Mandò una esclamazione, e senza più badare all'amico, tutto preso com'era da un nuovo potentissimo sentimento, si spinse innanzi ad incontrare e salutare le due donne e l'uomo che le accompagnava.

L'attempata ed il cavaliere accolsero il giovane avvocato con molto altiero sussiego e risposero al suo saluto con modo di superba superiorità: ma la giovane gli diresse un gentile sorriso che ben valeva a scancellare ogni sinistra impressione per le maniere degli altri.

Benda si mise allato alla vecchia patrizia e venne accompagnando le due donne verso lo scalone. Il cavaliere s'era fermato un istante per dare qualche ordine al domestico dal lungo soprabito che seguiva col cappello in mano. La giovane all'altro lato della signora attempata passò proprio accosto a Maurilio fermo al posto in cui si trovava, come se vi avesse piantato le radici, incapace di fare il menomo atto, di dire la menoma parola, quasi di trarre il rifiato.

Ella passò colla stessa indifferenza con cui sarebbe passata presso ad una statua o ad uno spigolo della parete, e le vesti leggiere ed eleganti che avvolgevano come d'una nube candidissima la gran dama, sfiorarono frusciando i rozzi, umili panni del povero trovatello. Questi sentì un brivido scuotergli le intime fibre ed un subito gelo figgergli il sangue nelle vene, arrestargli il battito del cuore; una nebbia gli passò innanzi agli occhi e temette un istante cadere. Chi l'avesse guardato in quel punto, avrebbe esclamato: – Gran Dio! Quell'uomo sta per morire.

– Signora marchesa: diceva alla vecchia Francesco Benda, con voce un po' commossa, guardando la giovane: mi permette ch'io le offra il mio braccio?

– Grazie, signor Benda: rispondeva con altiera gentilezza la marchesa, stringendo vieppiù alla persona il suo braccio, come per rifuggire dal contatto di quello che le veniva offerto. Virginia, soggiunse ella poscia, volgendosi alla giovane, vedi un po' se i miei fiori in capo non sono andati fuor di posto?

– No, zia: rispose la ragazza con una voce soave che all'orecchia dell'estatico Maurilio suonò come la più dolce delle armonie.

In quella, il cavaliere che accompagnava quelle dame, finito di dare i suoi ordini al servitore, si affrettava a raggiungerle; e Maurilio trovandosi sul suo passaggio per la via più corta a recarsi allato alla bella giovane, egli senza il menomo riguardo lo ributtò con un urtone come si fa con un inciampo qualunque che vi capita tra i piedi.

Maurilio barcollò e di presente ebbe il sangue acceso da una subita ira che gli salì insieme con la vergogna alla testa. Si dirizzò della curva persona, e saettò uno sguardo pien di minaccia sopra il suo oltraggiatore, il quale, senza pur volgersi, senza badargli dell'altro, continuava il suo cammino, venendo a fianco della ragazza cui abbiamo udita chiamare Virginia, alla quale e' parlava lezioso e sorridente.

Il nostro povero giovane ebbe un istante in pensiero di arrestare quell'elegante insolente e farsi dar ragione del tratto. Mosse un passo verso di lui; ma si contenne tosto. Che avrebb'egli detto? Ella si sarebbe volta a guardare chi fosse quest'importuno interrompitore; ella che era passata senza pur vederlo, ella che non sospettava nemmanco l'esistenza di lui che in essa aveva posta l'adorazione dell'anima sua. Ella avrebbe ascoltato le parole che egli avrebbe dette. Come osar parlare sotto il suo sguardo? E non sarebbe egli comparso troppo da meno in tutto, appetto a quei due eleganti e forbiti vagheggini che lei accompagnavano?

La piccola brigatella era già sullo scalone, e quindi tolta al suo sguardo, ed egli rimaneva ancora immobile a quel posto. Un domestico, che passò e lo guardò curiosamente, lo fece ricordare del dove si trovasse. Prima che l'altro venisse, come mostrò intenzione, a domandargli che facesse colà, Maurilio si sferrò di luogo e corse sotto l'atrio per partire.

S'imbattè quasi da urtarsi in un elegante giovinotto, sceso allor allora da un bel legnetto ad un cavallo. Maurilio strabiliò credendo riconoscere in lui quel suo antico compagno d'infanzia che aveva lasciato, non era forse nemmanco un'ora, vestito di poveri panni, nella lurida bettola di mastro Pelone.

– Gian-Luigi! Esclamò egli a mezza voce.

Quell'altro portò rapidamente al naso l'indice della mano destra come per intimargli silenzio, e proseguì verso lo scalone con tutta indifferenza, come se non avesse udito quelle parole, come se la faccia di colui che aveva incontrato gli fosse affatto sconosciuta.

– È dunque vero che Gian-Luigi vive da signore; pensò Maurilio. Che mistero è mai questo?

Quando era già per uscire del portone, un uomo gli passò dinanzi e si volse a guardarlo ben bene nel volto, ed a Maurilio parve aver già visto altra volta quella figura. Ed aveva ragione; l'aveva vista poc'anzi nell'osteria di Pelone altresì, perchè quell'uomo non era altri che quel tal messer Barnaba che spaventava sì forte l'onesto bettoliere.

Per ragione del suo ufficio, l'agente della polizia s'era trovato colà alla venuta della Corte, aveva visto la sollecitudine affannosa di Maurilio per intromettersi nel palazzo, i ratti colloquii coll'avv. Benda, e finalmente l'incontro coll'elegante giovanotto venuto da ultimo. Era suo mestiere l'osservar tutto, il tener conto di tutto e il trarre deduzioni da tutto. Troppo lontano per udire le parole mormorate da Maurilio nel trovarsi a fronte l'antico compagno d'infanzia, s'era pur tuttavia accorto della sorpresa che il primo aveva provata in quell'incontro.

– To', to'; aveva egli esclamato fra sè. Questo giovane deve conoscere qualche cosa del dottor Quercia il cui modo di esistenza è ancora un problema per me. Chi sa che costui non mi possa servire d'aiuto per iscioglierlo, questo problema? Ma per ciò bisogna ch'io conosca prima di tutto chi è costui.

E passatogli prima dinanzi per vederlo meglio e stamparsene i lineamenti nella infallibile memoria, lo lasciò poscia andare per la sua via, e lo venne con santa pazienza seguitando dalla lungi traverso la nebbia e la neve che calava giù più densa e a larghi fiocchi che mai.

E noi faremo lo stesso, riserbandoci di venir più tardi a dare un'occhiata in questa splendida festa, dove ci aspettano alcune scene non indifferenti allo svolgimento del nostro dramma.

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Introdurre la figura di re Carlo Alberto nelle scene del mio racconto, è ella una imperdonabile temerità? Spero di no. Nello svolgersi di questa storia, insieme colle varie classi sociali, ho pensato introdurre anche la monarchia in presenza del problema della plebe. E il monarcato non poteva meglio rappresentarsi che nella nobile, maestosa figura di Carlo Alberto. L'arguto lettore, a quest'ora, si sarà accorto che nei personaggi introdotti a sostenere una parte in questo dramma, si incarnano varii tipi, e in quello di Maurilio stanno raccolte ed espresse in gran parte le qualità, i bisogni, i sentimenti della plebe che conoscesse i suoi mali, e travedesse i rimedi di essi, ed avesse acquistato il sapere di formolarli ed esprimerli. Se questa plebe si troverà in contatto colla monarchia, non è ella la cosa la più naturale del mondo; e quando nessuna delle parti ne resti calunniata o le sue condizioni falsamente espresse, qual legge di convenienza o di verità potrà dirsi offesa?

La plebe, parte I

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