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CAPITOLO V

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Era davvero un bel giovane. Alto e ben piantato, spalle quadre e petto robusto, un capo svelto e una faccia con espressione di coraggio indomabile e di naturale distinzione; uno di quegli sguardi che fanno abbassare gli altrui; sulle labbra carnose e rosse del color del sangue un abituale sorriso pieno d'ironia, di scherno e di superbia; nell'occhio grifagno alcun che di feroce; fra le sopracciglia, nella sua fronte giovenile, a volta a volta si disegnava il solco profondo d'una ruga, che dava alla sua bella fisionomia un aspetto di durezza e di minaccia, che pareva un segno di maledizione stampatogli dalla collera divina, come la traccia del fulmine di Giove sul capo dei ribelli Titani.

Chiamato dal rumore, accorreva per solo impulso di curiosità; dietro gli si aggruppavano le figure triste ed ignobili di coloro che gli erano compagni nell'altra stanza, vicino a lui veniva la Maddalena.

La comparsa di questo giovane in mezzo a quei miserabili, fu come quella d'un'autorità senza contrasto riconosciuta. Tutti gli fecero largo perchè potesse giungere al luogo del tafferuglio, e Marcaccio medesimo voltosi di scatto alla voce del giovane, s'indietrò alquanto e credette necessario di spiegargli le ragioni del suo procedere.

– Ecco… Le dico subito, signor medichinoChe scusi!.. Ma gli è questo furfante qui che è una spia, e volevo io allungargli un momento le orecchie a modo mio.

La fronte del medichino si corrugò tremendamente, e le sue pupille mandarono veri sprazzi di fiamma.

– Una spia! Esclamò egli avanzandosi minaccioso verso lo sconosciuto, il quale pareva sul punto di svenire dallo spavento… Una spia qui?.. Per la Madonna!

Quando si trovò in faccia a quel giovane pallido, tremante, annichilito, l'espressione del suo volto cangiò di subito per far luogo, ad una superba quasi disdegnosa compassione. La ruga in mezzo alle sue sopracciglia sparì; egli incrociò le braccia al petto, abbozzò colle labbra un sorriso e disse col tono d'un superiore che parla ad un suo dipendente:

– Che? Sei tu Maurilio?

Il giovane salutato con questo nome sollevò timidamente gli occhi ancora smarriti, in volto a chi gli parlava, e rispose con voce tuttavia tremante:

– Son io, Gian-Luigi.

Questi allora si volse alla frotta dei cenciosi che facevano cerchia dietro di lui e disse loro con accento di comando:

– Andate a' vostri posti. Quell'animale di Marcaccio ha preso Sant'Antonio per un tedesco.

– Che scusi: ripeteva l'ubriaco affine di difendersi: l'animale è stato qui, mastro Pelone… Io non ci pensava neppure… Egli è stato a venirmi susurrare…

– Sei un fiero cocomero: interruppe l'oste colla sua voce cavernosa; io non ho fatto che consigliarti la prudenza, e tu…

– Basti! Comandò Gian-Luigi con tono che non ammetteva altra ribattuta. E tu, soggiunse volgendosi a colui che aveva chiamato Maurilio, poichè ti trovo, sii il bengiunto. Vieni qui meco un istante, che ho giusto assai piacere di parlarti.

I bevitori erano tornati al loro desco, rassicurati compiutamente dalla parola di colui che essi chiamavano il medichino, il quale pareva esercitare su tutti coloro una non contrastata autorità.

All'invito di Gian-Luigi, Maurilio si alzò; era sempre pallido, e le gambe gli tremavano ancora; ma il suo sguardo aveva già ripreso quell'espressione di superiorità che davagli l'intelligenza.

– Aspettami qui, diss'egli al ragazzo, il quale era tornato ai suoi voraci bocconi; e intanto mangia finchè te ne basta l'appetito.

S'avviò, preceduto da Gian-Luigi, verso la stanza vicina, dell'uscio a vetri. Quando furono per entrarci, il medichino si volse a coloro che gli erano compagni là dentro e che parevano volervelo di nuovo seguire.

– State qui: disse loro seccamente. Ho da parlare con questo signore.

Tutti si fermarono colla più sommessa obbedienza.

Maddalena insinuò amorosamente il suo braccio su quello di Gian-Luigi e facendo vezzucci e boccuccia gli domandò:

– Ho da portarvi qualche cosa da bere?

– Non seccarmi, curiosona che sei: disse con impazienza il medichino; ma poichè vide la ragazza lasciar cascare il braccio e chinar la testa tutta mortificata: – via via, soggiunse ridendo, non mettermi il broncio, Lenuccia. Tosto che avrò finito di discorrere con quest'amico, ti chiamerò.

E per placarla di meglio, le passò un braccio attorno alla vita, e le diede un bacio che le fece sbocciare sulle labbra il più lieto sorriso.

Pochi videro quest'atto, e di questi pochi uno fu il garzone dell'oste. Meo, il quale stava sempre colla testa fuori della botola a guardare.

Alla vista del bacio dato da Gian-Luigi a Maddalena, la faccia da scemo di Meo si contrasse violentemente in modo che dinotava sdegno e dolore profondissimi, ed un sospiro cupo e soffocato gli uscì dal petto, uguale a quello di chi avesse ricevuto una trafittura nel cuore.

La testa di Meo scomparì giù nella botola; ma chi fosse stato colà avrebbe sentito il povero diavolo borbottare fra i denti.

– Ah quel Gian-Luigi!.. Se potessi mai fargliela pagare!.. Ed anche a lei!.. Mi costasse un occhio della testa che sarei contento.

I due giovani entrarono nella camera dall'uscio a vetri, e Gian-Luigi chiuse accuratamente la porta dietro a sè.

Il fuoco fiammeggiava sempre allegramente nel caminetto. Pur tuttavia il medichino prese una brancata di ramoscelli secchi e due pezzi di legna e ve li gettò sopra ad accrescere la vampa.

– Siedi, egli disse poi a colui che ora sappiamo chiamarsi Maurilio: ed egli stesso, presa una seggiola e postala innanzi a quella su cui s'era messo il compagno, vi si assettò a cavalcioni, appoggiando le braccia alla spalliera. Mio caro Maurilio! Continuò Gian-Luigi. Con quanto piacere ti rivedo! Oltre che tu mi ricordi la nostra infanzia, è da qualche tempo che sto pensando a te, perchè… sarò schietto… perchè da qualche tempo il mio animo, la mia risolutezza hanno bisogno del tuo cervello, ch'io so valere assai più del mio, e di quanti altri forse stanno sotto la calotta del cranio degli uomini che vivono oggidì.

Maurilio aveva accavallate le gambe l'una sull'altra ed appoggiando al ginocchio superiore il gomito destro faceva sorreggere alla mano la sua grossa testa reclinata, guardando acutamente, di sotto alle dita tese a paralume, l'interlocutore che gli stava dinanzi.

Alle parole di quest'ultimo che or ora ho riferite, le labbra di Maurilio si contrassero ad un sottile sorriso in cui c'erano malizia, ironia, una lieve tinta di scherno; ma non una parola fu da lui pronunziata.

La fronte di Gian-Luigi si rannuvolò alquanto e comparve leggermente accennato in mezzo alle sue sopracciglia il solco di quella ruga che ho detto. Fissò i suoi occhi ardenti in quelli di Maurilio, ma lo sguardo di quest'esso non si chinò nè sminuì punto di luce e di fermezza.

Stettero così un istante come due lottatori che si osservano a vicenda per conoscere l'un dell'altro le forze e l'abilità, e sapersi regolare a seconda.

Il medichino fu il primo a chinare lo sguardo. Trasse di tasca un elegante astuccio di sigari che contrastava stranamente co' suoi abiti da plebeo, ed apertolo tese la mano verso il compagno:

– Fumi?

Maurilio scosse la testa in segno negativo senza disserrar le labbra.

Gian-Luigi scelse con cura un sigaro nell'astuccio, ripose questo in tasca, chinatosi al fuoco prese uno dei ramoscelli fiammanti ed accese il sigaro che s'aveva posto fra i denti. Ma in questo frattempo e durante questi atti compiti con garbo che pareva d'uomo avvezzo alle maniere signorili della più elegante società, si sarebbe potuto notare in lui una certa preoccupazione, come di chi sia incerto del modo di affrontare un discorso e vada fra sè studiando il migliore.

Del resto era cosa degna di nota il cambiamento che, appena varcata la soglia di quella stanza, era avvenuto in que' due e fra quei due personaggi, che sono i principali della storia, la quale sta per isvolgersi innanzi a noi.

Nello stanzone precedente, in mezzo a quella folla concitata e minacciosa, là dove la forza dei muscoli e il coraggio fisico avevano il predominio, Maurilio appariva inferiore, debole, l'ultimo di tutti, e le superbe sembianze del robusto Gian-Luigi che colla sua forza e colla sua ardimentosa risoluzione ne imponeva a tutta la turba colà raccolta, potevano a ragione assumere quell'espressione che abbiamo notata di protezione e di compassione altezzosa; ma ora qui, fronte a fronte, questi due esseri in cui fortemente era impressa una diversa e ben definita personalità, nel colloquio da Gian-Luigi provocato, qui dove non più la forza muscolare in un contrasto materiale, ma era in giuoco il valore intellettivo in una che ambedue gli attori sentivano dover essere scherma di propositi e di idee, qui le apparenze della superiorità erano passate dalla parte della vasta e travagliata fronte, del volto scarno e pallido ma intelligentissimo di Maurilio.

Fu Gian-Luigi a rompere il silenzio, poichè ebbe avviato per bene il suo sigaro, mandando fuori rapidamente dalle labbra tre o quattro dense nuvole di fumo.

– Quanti anni sono che non ci siamo più visti?..

– Sei, rispose asciuttamente Maurilio.

– Tò gli è vero. Avevo allora vent'anni, ed ora ne conto presto ventisette Mah! come il tempo passa!.. Tu ne avevi diciotto allora, non è vero?

Maurilio fece un segno affermativo col capo, conservando sempre la sua medesima positura.

– E' mi pareva un secolo che noi eravamo divisi: riprese Gian-Luigi; eppure ora nel rivederti mi torna ad un tratto come se ieri ancora noi fossimo insieme… E tu? Mi hai tu dimenticato, Maurilio?

– No: disse quest'ultimo.

Gian-Luigi avvicinò ancora di più la sua alla seggiola del compagno, e tendendogli la mano soggiunse:

– Noi abbiamo vissuto nei primi anni come fratelli… La nostra sorte, le nostre condizioni sulla terra sono le medesime. Perchè non ci uniremmo noi nel cammino della vita?

Maurilio pose freddamente la sua grossa mano in quella che gli tendeva Gian-Luigi (una mano elegante, quasi potrebbe dirsi aristocratica, di cui si vedeva il suo possessore averne gran cura); ma non tardò a ritrarnela senza pure avere corrisposto alla stretta di quella del suo compagno.

– E tua madre? Disse ad un tratto Maurilio piantando più acutamente ancora il suo sguardo negli occhi del medichino.

La domanda parve a quest'ultimo non molto gradita. La faccia di lui si contrasse alquanto con un'espressione di malavoglia a cui tosto successe una sdegnosa impazienza, cui però fu sollecito a frenare.

– Mia madre! Rispose egli, chinando gli occhi innanzi a quelli del suo interlocutore. Chi chiami tu mia madre?.. Sai bene che al par di te io sono un misero derelitto, cui trovarono soverchio peso i genitori e condannarono infamemente all'ingiusta infamia della condizione di trovatello… Oh gli scellerati! Quante volte li ho già maledetti, e quante volte ne li maledirò… e non finirò mai di maledirli fin che io viva!..

Maurilio sollevò la testa e drizzò la persona con nobile mossa.

– Non maledire nessuno! Esclamo egli con accento pieno d'autorevolezza e di forza. Che sai tu, che sappiamo noi se abbiamo il diritto di maledire?

Gian-Luigi si tolse il sigaro che masticava rabbiosamente fra i denti e lo gettò con impeto fra le fiamme del caminetto. Percosse con una mano la spalliera della sua seggiola su cui si appoggiava, e proruppe con vivacità che s'accostava alla violenza:

– Sì l'abbiamo, per Dio! Perchè i nostri genitori ci hanno lanciati nel mondo con questa macchia di disonore sulla fronte?.. Trovatello!.. Avessi tu il maggior ingegno, non potrai nulla, non sarai nulla, non perverrai a nulla mai, perchè sei un trovatello. Oh che abbiamo noi da portare così grave il peso e l'espiazione – noi innocenti – della loro colpa?

– E se fosse della miseria? Interruppe con voce grave Maurilio. Tu sai pure che cos'è la miseria! Tu l'hai vista faccia a faccia… Non so ora come tu stii con essa, e se hai trovato nelle forze della tua personalità che sempre ho conosciute molte e potenti, il mezzo e la fortuna di far divorzio completo con quella scarna Dea della plebe; pur pure la ti fu compagna e scorta nei primi passi della vita… Non dovresti aver dimenticato a quali crudelissime strette ponga questo orribil flagello un'anima umana… Ah! io ne ho conosciute di queste madri nella corta ma avvicendata commedia della mia vita; ne ho conosciute di queste madri che col coraggio disperato con cui uno si lacera le proprie viscere, si separano dal sangue del loro sangue, dal nato dal loro seno, dall'unico amore, dall'unica gioia della loro vita di stenti, perchè non hanno più un boccone di pane da farne una goccia di latte pel figliuol loro… Chi, chi su questa terra avrebbe la crudeltà di maledirle?

Maurilio parlava lentamente, con voce contenuta e direi quasi rimessa e sorda; ma in alcuni tratti quella voce velata vibrava in istrana maniera e si imprimeva d'un certo affetto onde lo ascoltatore difficil era non rimanesse commosso.

Ma però tale non rimase Gian-Luigi, che colla medesima concitazione di prima proruppe nuovamente:

– E se non han pane da dar loro, perchè mettono al mondo figliuoli?

– Gian-Luigi! Esclamò con infinito rimprovero Maurilio.

Il medichino rimase alquanto percosso nell'anima dall'accento del suo compagno; frenò fra i denti una bestemmia e si morse con atto pieno di contrarietà i neri baffetti che gli ombreggiavano assai leggiadramente il labbro superiore.

– Ebbene, sia: diss'egli poi. Abbiano, non dirò il perdono, ma men severa condanna od anche l'oblio coloro cui spinge a questo scellerato passo la miseria. Ma se tu pensi che tale possa essere il motto dell'infelice destino a cui ti condannarono quelli che incautamente o colpevolmente hanno chiamato nel tuo corpo un'anima a dolorare in questa infame lotta fratricida della vita, io di me non lo penso, io di me sento che così non è. Il perchè e il come non saprei dirteli; ma sono sicuro che altra più rea cagione ha fatto imperdonabilmente colpevoli verso di me coloro che mi hanno data la esistenza.

Si alzò e incrociò le braccia al petto, piantandosi in tutta la venustà e l'imponenza della sua persona innanzi a Maurilio.

– Guardami! Diss'egli con superba sicurezza, la quale non appariva a chi lo guardasse che la giusta coscienza di sè medesimo. Ti sembro io il figliuolo d'un plebeo? Queste forme, queste membra, queste sembianze non dicono esse che un sangue gentile scorre nelle mie vene? È il grido che esce spontaneo dalle labbra di tutti, appena mi vedono; è il motto che fin dalla mia culla mi suonò all'orecchio sulla bocca d'ognuno che mi incontrasse: – e' pare il figliuolo d'un principe. Vedi tutti quei miserabili che s'accalcano nella stanza di là, ignobili di forme, di gusti, di pensieri. Quelli sono i figliuoli della miseria, non io!.. A contatto con loro, non ebbi mestieri che di volere, e mi si prostrarono innanzi, che di comandare, e mi obbedirono come servi. Perchè? Perchè mi sentirono d'una razza a loro superiore E queste aspirazioni, questo rabbioso anelare verso tutto ciò che è bello, tutto ciò che è splendido, tutto ciò che è grande? Oh! non è forse l'essere mio che tende a quell'altezza che gli compete?

Maurilio mirava fisso il suo compagno con isguardo freddo sempre, osservatore e severo.

– Questo, diss'egli col suo solito accento, è l'agognare dell'anima umana alla gioia ed al piacere che le sfuggono a mano a mano dinanzi. Tu hai forse posto più in alto la mira perchè le circostanze ti fecero capace di apprezzare altri diletti nella vita che quelli non sono, i quali appariscono alla ignorante fantasia della plebe; ma il sentimento è quel medesimo che poc'anzi informava le parole di quell'ubbriaco Marcaccio quando voleva indurre il suo compagno a bandire la guerra ai ricchi col latrocinio.

Gian-Luigi si riscosse come tocco da un ferro rovente: il solco della ruga frontale apparve in mezzo alle sue sopracciglia.

– Che di' tu? Che sai tu? Prorupp'egli con fierissimo impeto. Mi metteresti a mazzo con quei bari e ladroncelli?

– Io non so nulla: rispose Maurilio sostenendo lo sguardo acceso del suo compagno. E ad ogni modo mi guarderei bene dal porre te al loro livello ed essi al tuo. Tu nell'oblio del dovere e nel disprezzo della legge avresti a mille doppi maggiore che non essi la colpa, perchè tu sai, ed a loro la profonda ignoranza è scusa.

Il medichino parve prossimo a cedere ad uno di quegl'impulsi dello sdegno che spingono alla violenza; divenne in volto del color del fuoco, le labbra gli tremarono e gli occhi balenarono d'una luce sinistra; ma con uno sforzo della sua volontà potentissima si contenne. Mandò un'esclamazione che pareva una specie di ruggito mozzicato fra i denti, e levatosi a forza dal luogo dove stava piantato, fece due o tre giri per la stanza; poi tornò presso il caminetto, trasse fuori un altro sigaro e lo accese con tutta pacatezza.

Maurilio aveva ripreso il suo atteggiamento abbandonato e come stracco; tornava a sorreggere colla mano il capo che avreste detto essergli grave; e seguitava a guardare Gian-Luigi colla stessa attenzione osservativa; se non che un po' di compassione pareva ora congiungersi al sentimento scrutatore di prima.

– Io so, io so! Disse Gian-Luigi. Appunto perchè so, grido contro l'ingiustizia dell'assetto sociale e contro la barbarie di chi mi ha abbandonato povero e solo in questa empia lotta del mondo dove non vince che il danaro.

Maurilio tacque un istante, poi replicò, e col medesimo accento di prima, la domanda che già avea fatta poc'anzi:

– E tua madre?

– Ancora! Esclamò il medichino con una bestemmia. Tu chiami con questo nome la donna che mi raccolse?

– Sì, perchè questo santo nome la se lo merita. Quella povera donna ti ebbe ad allattare dall'ospizio, ma ti pose vero amore materno. Ti allevò come suo, tutta si sacrificò per te, come se tu fossi proprio suo sangue. Quante volte la non si è tolto essa lo scarso boccon di pane dalle labbra per darne a te, per soddisfare alcuno dei tuoi infantili desiderii, e più tardi dei tuoi giovanili capricci! Or bene, che cosa hai tu fatto di questa povera donna sublime? di questa ignorante ma generosa creatura cui la Provvidenza, o se ti piace meglio il fato ha posto sugli ultimissimi gradini della scala sociale e il cuore invece alloga fra le più elette del genere umano? La tua condotta fieramente ti accusa…

– Come! Interruppe impetuosamente Gian-Luigi. Chi ti ha parlato di me? Chi mi accusa? Che ti fu detto?

Maurilio pose una di quelle sue grosse manaccie sulla spalla del compagno, e gli disse con accento mesto insieme e grave, come potrebbe avere per un fratello un fratello maggiore, quasi direi per un figliuolo un padre.

– Gian-Luigi, io t'ho amato molto, ed alcune volte nella solitudine in cui vivo, riandando il passato, le poche dolci memorie che ho di esso mi richiamano te alla mente, quale hai meco vissuto allora; e parmi sentirti nel medesimo luogo tuttavia entro il mio cuore. Al cominciare di questo colloquio tu hai fatto appello a cotali ricordi, ed io, a dispetto della freddezza, dell'assoluta indifferenza che mi ero imposta di aver sempre omai a tuo riguardo…

Il medichino sussultò sulla sua seggiola.

– Ma perchè? Dimmi in nome di Dio ciò di cui mi accagioni…

– Lasciami parlare, e lo saprai: continuò col medesimo accento Maurilio. A dispetto adunque di cotal risoluzione io nell'udirti parlare della nostra infanzia, provai nell'animo un intenerimento che mi fece di nuovo rivedere in te il fratello d'un tempo; quindi, se prima era mio pensiero non dirti pure una parola di quelle cose che ora ti esprimo, determinai di botto favellarti a cuore aperto. Tu accennasti a quel tempo, non dirò felice, ma certo meno angosciato e men tristo – almanco per me, quantunque di molto, come sai, mi toccasse soffrire. Ma poichè tu li abbandonasti quei luoghi in cui passarono i nostri anni primi, e li abbandonasti per l'agonia di godere le abbaglianti delizie mondane che il villaggio non ti poteva dare, per arraffare alla sorte la tua satolla di gioie della vita cittadina, le quali da lontano, traverso la nostra ignoranza, ci apparivano quali al viaggiatore nel deserto la crudele illusione della Fata Morgana; dacchè li abbandonasti quei luoghi, hai tu cercato mai di rivederli? Io ne ho sentito tante volte, io ne sento continuamente il bisogno. Quando ho il petto troppo affannato da questa pesante atmosfera cittadina, quando ho l'animo troppo amareggiato dallo spettacolo di queste miserie e di questi dolori; quando ho le mie deboli membra troppo stanche da questo oscuro lavoro che mi dà scarsamente il pane, io con più intensità di desiderio anelo alla bellezza di quel soggiorno villereccio in cui primamente si ricordano d'aver visto la luce i miei occhi, in cui primamente sentii pensare il mio cervello. Allora, con più accanito lavoro da una parte e con maggiori privazioni dall'altra, tento raccozzare il pane di pochi giorni di ozio, e una volta guadagnato questo per me grandissimo capitale, io mi sento, io sono ricco, più ricco di messer Nariccia che anche tu conosci e accumula marenghi sopra marenghi pressurando il povero coll'arte infame dell'usuraio; io parto con passo animoso dalla città, e corro, corro verso quella valle, e a seconda che di qua mi allontano, sento più libero il rifiato, più aitante il corpo affralito, più serena la mente, troppo spesso e troppo conturbata. Allorchè là son giunto, con che emozione rivedo quei conscii luoghi! La misera casipola dove vissi vide pure molte mie lagrime di fanciullo; anzi quasi non altro che lagrime: e tuttavia non passo mai davanti ad essa senza che il cuore mi palpiti. Mi soffermo sulla soglia della porta di strada a guardar dentro lo stretto e sempre sucido cortile, in cui nel fimo razzolan le galline, in cui presso il truogolo grugnisce e s'impantana nella melma il maiale; vedo la scura, bassa, angusta, affumicata cucina, e in fondo ad essa il camino, entro cui nelle lunghe serate d'inverno io, accoccolato nel cantuccio più rimoto, guardavo a brillare la fiamma che cuoceva la poca cena e tutto intirizzito dal freddo fissavo quello splendore con infinita intensità di desiderio; il petto mi si gonfia di sospiri e gli occhi di lacrime… E passo! Nessuno più mi conosce colà. Quelli che mi tormentavano e mi davano quel poco di pane amarissimo che mi teneva in vita, non ci sono più. Delle faccie sconosciute mi appariscono in quel quadro. Eppure mi commuovo. Oh! se alcuno mi vi avesse amato come ti amò la Margherita!..

Gian-Luigi fece un movimento che Maurilio attribuì all'impazienza.

– Non isdegnarti… Disse. Io son fatto così: o non dir nulla, o dare pieno sfogo ai miei sentimenti. Poichè ho cominciato, lasciami dunque dire a mia posta.

La plebe, parte I

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