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CAPITOLO I

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Era una notte d'inverno, ed una fitta nebbia copriva la città di Torino. Chi ha visto a quella stagione ed a quell'ora le brutte e infangate stradicciuole di quella parte dell'oradetta città che chiamano Torino vecchia; quelle stradicciuole in cui stanno raccolte e come a confino le miserie più gravi, i cenci più logori e le più scandalose turpitudini; chi le ha viste quando quella caligine nebbiosa le ingombra e depone sopra ogni cosa, sul selciato, sulle pareti annerite delle case, sui panni e in volto a chi passa, una specie di rugiada fredda e fastidiosa che ti punge con piccolissime goccie gelate negli occhi e ti immolla le vesti addosso e ti penetra sotto a dar freddo sino alle intime midolle; chi ha visto a quell'ora quei quartieri sa che cosa sia la cupa tristezza delle abitazioni dei poveri in mezzo allo squallore della miseria ed al cattivo tempo della stagione.

Se t'avviene di passare per quei luoghi, tu senti quasi una mano di gelo posarsi adagio e pesar poi sul tuo cuore. Una nuova melanconia t'occupa l'anima e i sensi; il respiro medesimo da quell'afa nebbiosa, da quell'umido freddiccio, da quell'angustia di spazio, ti pare impedito; una strana malavoglia, incerta, vaga, ma potente, piglia possesso di te; e tu, guardando i cenciosi che sfilano taciti e lenti a randa al muro, come ombre nel Tartaro degli antichi; ricevendo nei tuoi occhi il lucicchiar febbrile di quelli delle povere traviate che in quegl'immondi casamenti hanno loro stanza e s'aggirano, vere anime in pena, facendo risaltar la miseria inorpellata de' lor panni di color gaio nello scuro del nebbiume; vedendo tra le imposte d'un uscio di bottega socchiuso tremolare un raggio giallognolo della lucerna ad olio, al cui lume misere creature faticano a compiere il lavoro della giornata che ha da comprare lo scarso pane alla famiglia, tu, anche tuo malgrado, se non hai cuore d'avaro o di borsiere, ti sentirai le lagrime entro gli occhi.

Freddo, fame, strappi, sozzure materiali e morali ti stanno dattorno; un vecchio che tende la mano, un bimbo che piange, una donna che si vende, e su tutto la tenebra della notte che col gocciolar della sua nebbia par proprio che pianga.

E tu pensi alle necessità fatali di questa civiltà che mostra di aver testa soltanto e non cuore, o se cuore, non a sufficienza la mente da provvedere a questi danni; e il mistero del problema sociale t'afferra, e ad un tratto ti travolge dall'intelletto all'anima un mondo tumultuoso di pensieri e d'affetti avversi e pugnaci, mettendo in lotta gl'istinti e la ragione, il senno e la pietà, il possibile e il desiderio.

E così appunto, quella sera, per una di codeste strade, se ne stava dell'animo, camminando, un uomo, il cappello a larga falda tirato sugli occhi, il viso mezzo nascosto nelle pieghe d'un mantello anzi logoro che no, il quale non lasciava scorgere che il pallore delle guancie e la fiamma d'uno sguardo acceso, di persona nè alto nè basso, l'andare nè spedito nè impedito, curvo il petto, e il passo di chi va senza scopo che lo chiami o cosa che gli prema.

Invano già alle cantonate più d'un'Aspasia da dozzina gli aveva ammiccato col sorriso contratto; invano un cencioso, trascinandosi colle gruccie gli era venuto dietro neniando a domandare il quattrino per l'amor di Dio, al ripago de' suoi pater ed ave; invano una vecchia sbilenca, aggrinzita, sdentata e sciatta e sporca gli aveva susurrato infami parole all'orecchio; invano era passato innanzi ad una bettolaccia sconcia, convegno d'ogni peggio bordaglia, immondezzaio morale, da, cui veniva in istrada un tramestio di cose e di gente, un acciottolio di rozze stoviglie, un baccano di turpi canzoni sbraitate e di più turpi parole, e proverbiarsi, e minaccie, e bestemmiari da gole roche a voci squarrate; a nulla ei pareva badare, nulla sturbarlo dai suoi pensieri.

Sul passo d'una porticina scura, sopra la motriglia sozza ed attaccaticcia che a piastre copriva la pietra dello scalino, a metà seduto, a metà sdraiato, il capo contro uno degli stipiti umidicci, le mani nascoste nelle tasche de' calzoni a brandelli, tremante e battendo i denti pel freddo, pel bisogno, per la debolezza, piagnucolava un bambino.

Quell'uomo gli passò innanzi, come aveva oltrepassato tutti quegli altri oggetti, persone e cose, in cui si era abbattuto; ma quando fu in là due passi, quel piagnucolio giunse a ferirgliene le orecchie; ristette, si volse, vide un fanciullo, gli fu accosto sollecito.

Il poverino sentì che gli stava appresso qualcuno: cessò dall'infrignare; alzò gli occhi e la testa, trasse di tasca una manuccia livida come le sue guancie, colla quale teneva duo mazzi di fiammiferi, e colla vocina esile e rotta dal batter dei denti, disse in tono di preghiera e di pianto:

– Brichett! buoni brichett! due mazzi al soldo… Oh! ne pigli, signore.

L'uomo non rispose al fanciullo, ma gli stette sopra a guardarlo con occhio fiso, intenerito, compassionoso, amorevole.

Era un marmocchio da sette ad otto anni, sudicio, cencioso, brutto come la miseria.

– Povero bimbo! Disse quell'uomo a mezza voce parlando a sè stesso. Povero bimbo!

E questi, stato un poco, rizzatosi della persona a sedere, ripetè insistendo:

– Buoni brichett. La ne compri per carità!

Quell'uomo gli pose sulla testa carezzevolmente una mano, poi gli chiese:

– Perchè piangi?

– Ho fame: rispose il bambino.

– Chi t'ha insegnato a dar questa risposta? Tu non parli con tale che non conosca i misteri della miseria. Tuo padre e tua madre ti hanno comandato di piangere e di rispondere così.

Il bambino guardò il suo interrogatore cogli occhi larghi, larghi, e ripetè:

– Ho fame. Da questa mattina non ho più mangiato niente. E non avevo mangiato che una crosta di pane.

– Hai tu padre?

– Signor no.

– Madre?

– Signor no.

– Sono morti?

– Non li ho mai conosciuti.

Quell'uomo parve intenerirsi.

– Un derelitto: mormorò egli parlando di nuovo a se stesso; al pari di me!.. E in questa medesima strada!..

Guardò quel fanciullo con occhio più benevolo e compassionoso di prima.

– Tu non hai nessuno al mondo?

– Ho la nonna che mi aspetta a casa.

– Ah!

L'uomo ritrasse la mano dal capo del bimbo.

– Perchè ti lascia ella andare attorno a questa ora e per questo tempo?

– Me ne manda per guadagnar qualche soldo.

– È tardi, fa freddo, tornatene a casa.

– Non oso.

– Perchè?

– Se non le porto almeno dieci soldi la nonna mi batte…

– E te ne mancano?

– Sei.

– Menami a casa tua. Darò alla nonna i dieci soldi per te.

Il fanciullo non mostrò stupore nessuno, nè gioia, nè riconoscenza: s'alzò e si pose a camminare a costa dello sconosciuto, ma tutto ingranchito ed intirizzito com'era, co' piedi irrigiditi e dolorosi per la gonfiezza, mal potè farlo, onde mossi appena alcuni passi, si fermò e ruppe in pianto.

Lo sconosciuto fermessi pure e gli domandò:

– Che cosa hai?

Il bambino rispose della solita guisa:

– Ho freddo, ho fame.

– A casa la nonna non ti darà da cena?

Il fanciullo scosse la testa.

– Una crosta di pane se la è di buon umore e non lo è mai.

E seguitava a piangere, e batteva i denti.

Nell'oscurità della via, poco lontano brillava il rosso chiarore che gettava per l'uscio a vetri la bettolaccia che ho già accennato.

Lo sconosciuto guardò verso quella porta, sopra i cui sucidi cristalli stavano scritte le classiche parole: BUON VINO E BUON RISTORO e parve esitare un momento; poi, come se subitamente si decidesse, prese per mano il bimbo e gli disse:

– Vieni: te ne darò io da cena.

E col fanciullo s'introdusse nell'osteria piena in quel punto di rumore e di gente.

La plebe, parte I

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